Ci sono opere d’arte visiva contemporanea che disertano musei, gallerie, per occupare i piccoli schermi: sono la new wave delle serie TV americane – nuova e interessantissima forma di pop art tele-visiva che ha la forza della grande narrazione. Una narrazione al contempo sperimentale e popolare, che si espande su differenti piattaforme mediali. Una narrazione transmediale.
Crogiolo di cultura pop e cultura alta portate al punto di fusione metafisica, Lost è al contempo disaster movie e fantascienza, Jules Verne e Stephen King, Bibbia e Odissea, romanzo sperimentale e saggio filosofico – e lavoro collettivo di scrittura: una scrittura serrata e potente, frutto di uno sforzo comunitario, esaltata da una regia di altissimo livello. «Lost è un capolavoro, è una riflessione sull’Occidente, nella sua forma più angosciata e irriducibile», ha scritto Aldo Grasso. Si potrebbe parlare di philosophical drama. La natura filosofica di Lost non si esaurisce nel gioco dei nomi di famosi filosofi attribuiti ai personaggi (Locke, Rousseau, Hume, Bentham) o in quello di qualche filosofo esplicitamente citato (Nietzsche). Essa attraversa e permea i diversi strati di una serie concepita come scavo archeologico in cui ogni stagione procede più a fondo. La filosofia lavora al cuore di Lost nella forma di una serie di questioni fondamentali: Esiste il mondo esterno o è una mera illusione? Che cos’è la verità? Che cosa significa con-vivere? La paradossale formula lacaniana secondo cui «a dirla tutta, la verità, non ci si arriva» è la formula che meglio descrive l’enigma di Lost. Se, come scriveva Martin Heidegger, «l’enigmatico stimola la nostra capacità di domandare», Lost porta questa sfida ai limiti del domandare stesso.
(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)
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