Il filosofo francese Jacques Derrida collega l'impossibile, paradossale, aporetica, eccessiva, esagerata – che passa la misura e si espone alla dismisura – esperienza del (per)dono, la follia del (per)dono, che «mette in crisi logos e nomos, ma forse anche topos» – ed è, quindi, atopos, che «significa ciò che non è nel suo luogo e al suo posto (“mezzodì alle quattordici”), ed è dunque lo straordinario, l’insolito, lo strano, lo stravagante, l’assurdo» (uncanny) –, al costituirsi del soggetto: «La semplice intenzione di donare, in quanto comporta il senso intenzionale del dono, basta a ripagarsi. La semplice coscienza del dono si rinvia subito l’immagine gratificante della bontà o della generosità, dell’essere-donante che, sapendosi tale, si riconosce circolarmente, specularmente, in una sorta di auto-riconoscimento, di approvazione di se stesso e di gratitudine narcisistica. E ciò si produce dal momento in cui c’è un soggetto. Il divenire-soggetto tiene allora conto di se stesso, entra come soggetto nel regno del calcolabile. Lì dove ci sono soggetto e oggetto, il dono sarebbe escluso. Un soggetto non donerà mai un oggetto a un altro soggetto. Ma il soggetto e l’oggetto sono effetti arrestati del dono: arresti del dono. Alla velocità nulla o infinita del circolo» (Donare il tempo).
Il soggetto sarebbe un effetto arrestato del dono, si auto-riconoscerebbe circolarmente, sarebbe una pausa, una stasi, un arresto, ma la alla velocità nulla o infinita del circolo che «non lascia riprendere il respiro, né riposo. Può sempre sconvolgere, almeno, il ritmo istituito di tutte le pause (e il soggetto è una pausa, una stasi [stance], l’arresto stabilizzatore, la tesi o piuttosto l’ipotesi di cui si avrà sempre bisogno), può sempre perturbare i sabati, le domeniche… e i venerdì» («Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto). Senza pause – né sabati, né domeniche, né venerdì – e «in segreto trema l’identità dell’“io”» (Donare la morte). Questo tremore derridiano presenta una evidente differenza rispetto alla formazione del soggetto per come è presentata da Hegel. La lezione hegeliana ci insegna che il soggetto, nella qualità di autocoscienza, «consiste nel mostrarsi come negazione pura della propria modalità oggettiva, cioè nel mostrare di non essere legato a nessuna esistenza determinata» – anche mettendo alla prova la propria libertà e a rischio la propria vita, arrivando a dimostrare di non tenere alla vita, di disprezzarla in un certo senso, a «dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte» –, così che in esso «la coscienza è stata intimamente dissolta, ha tremato fin nel suo più remoto recesso, e tutto quanto c’era in essa di fisso è stato scosso», è stato fatto vacillare, tanto che l’essenza stessa dell’autocoscienza è «questo assoluto divenire-fluida di ogni sussistenza», il lavorio di un «dileguare trattenuto» (Fenomenologia dello Spirito). Ma le vicende dei mutanti e la filosofia di Derrida ci insegnano che la questione della costituzione del soggetto non si arresta ad una lotta a morte in cui «un trionfo conserva in sé le tracce di una battaglia» o «una vittoria viene strappata nel corso di una guerra tra due avversari al fondo inseparabili» (Donare la morte) per cui di tale guerra conserva la memoria.
La vera questione del soggetto non è nell’autonomia e nella libertà, quanto piuttosto «nell’eteronomia del «ciò mi (ri)guarda» anche laddove io non vedo niente, non so niente, non ho l’iniziativa, laddove non ho l’iniziativa su ciò che mi ingiunge di prendere delle decisioni – che nondimeno saranno le mie, e che dovrò assumermi da solo» (Donare la morte). Psylocke si chiede il perché della sua pulsione a fermare Wolverine, il cosa le importasse di Matsu’o, cosa ciò le (ri)guardasse, cosa stava facendo; confessa di aver visto se stessa nella mente di Wolverine e che i ricordi di lui le dissero chi era, ed anche in questa avventura è proprio dalle parole di Matsu’o che è determinata quella pausa, quell’arresto, quella stasi che è il soggetto, quando egli le rivela: «Sapevo che saresti stata tu, Elizabeth. Gli inglesi sono sempre affidabili». Non solo per queste parole, ma per quello che ha fatto e fa del corpo e dei resti di Psylocke, Matsu’o è per la mutante degli X-Men l’altro per eccellenza. L’altro dispone di me, di un io senza difese, e proprio questo sarebbe l’io, sarei io: vulnerabilità, esposizione incondizionale all’altro, quasi impotente, disarmata, senza protezione alcuna. Il soggetto non è sovrano, non è indipendente, autonomo, pienamente presente a sé, ma quello del godimento pieno e puro di sé non sarebbe altro che un sogno, una fantasia, un fantasma. La sovranità del soggetto libero – nel suo concetto più e meglio accreditato –, autodeterminato, emancipato, affrancato, dall’illimitato potere, onnipotente, è decostruita.
Ciò significa aprire la possibilità di pensare in maniera diversa il sé. Oltre ad essere la storia di una furiosa ricerca di vendetta, Kill Matsu’o è anche la ricerca di un nuovo soggetto, della natura dell’identità. «Ora so chi sono»: sul flash-forward, che anticipa la fine del fumetto, di queste parole interiori che Psylocke dice a se stessa, intese senza alcun apparente rumore, articolate senza movimento apparente, come nel circuito chiuso di un serpente che si morde la coda, tutta la vicenda che viene a spiegarsi e dibattersi si apre e si chiude allo stesso tempo ma con stacco e non senza danni. E la tavola finale dell’ultimo capitolo del fumetto mostra la mutante intenta a spazzolarsi i capelli e bere una tazza di tè: «il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè, e neppure la leziosa innocenza del cacao», e rappresenta «una gradita opportunità di tregua a fieri guerrieri», che entrano nella stanza del tè solo dopo aver lasciato «la spada nella rastrelliera» – come l’immagine mostra aver fatto anche Psylocke –, giacché tale luogo è sopra ogni altra cosa la Dimora della Pace, oltre che della Fantasia, del Vuoto e dell’Asimmetrico (in quanto consacrata al culto dell’Imperfetto, e perciò si lascia in essa volutamente qualcosa di incompiuto). Deposta, dunque, la katana dell’hegeliana lotta a morte per il desiderio di riconoscimento e di signoria, di sovranità, Psylocke si mostra esposta alla decostruzione del proprio io, dell’assolutamente se stessa. Ora sa chi è, cos’è l’io, che l’io è questa pausa, questa stasi nella stanza del tè, è il perenne mutamento che ritorna su se stesso come un serpente che si morde la coda, che «si ritorce su se stesso come il drago» o «si addensa e si squarcia come fanno le nuvole» (Kakuzo Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè) – «il fiume scorre, e l'acqua non è mai identica a se stessa. Anche le nuvole sono in continuo movimento; e il sole e la luna sono eterni viaggiatori», puoi leggere nel capitolo intitolato Drago di nuvola, tigre di vento del manga scritto da Kazuo Koike e disegnato da Goseki Kojima Lone Wolf & Cub (Lupo solitario e il suo cucciolo). Ora sa che l’io è ospitalità incondizionata all’altro da sé, che l’io trema, si ritorce, si squarcia, affetto da un fattore di mutazione che non è assoluta, libera, sovrana, autonoma, ma piuttosto eteronoma, guidata e diretta come da un gene X, da una “cosa” se non sconosciuta certo mal conosciuta dal cosiddetto io. L’uomo sarebbe, quindi, l’essere più perturbante, «il più unheimlich», afferma Derrida, perché «qualcosa che ci espelle dall’Heimliche, dalla tranquillità rassicurante del domestico. Il proprio dell’uomo sarebbe insomma quel modo di non essere a casa propria con sicurezza (heimisch), fosse anche presso di sé nel senso della propria essenza» (La Bestia e il Sovrano. Volume I).
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