Due saggi che non ho potuto apprezzare a pieno perché troppo e palesemente "di parte": non che io sia un sostenitore di uno sguardo, e quindi di un'analisi, puri, oggettivi, disinteressati, "da nessun luogo", ma di un certo rigore e precisione argomentativi sì.
Già avevo abbandonato e non finito il suo Shakespeare filosofo dell'essere, anche interessante ma decisamente - per me - lento, ma le riflessioni sulla Filosofia del bacio mi sembravano una lettura più completabile. E infatti, in poche ore, ho letto il breve saggio di Franco Ricordi, rimanendone però alquanto deluso. Anche interessante la distinzione tra tre epoche del bacio: quella antica e tragica dell'uomo colpevole di fronte al fato, in cui il bacio, come e simmetricamente alla morte, è pressoché irrappresentato e irrappresentabile; quella medioevale e cristiana dell'uomo peccatore di fronte a Dio, in cui il peccaminoso bacio è però anche atto di libertà; quella moderna e atea dell'uomo debitore davanti al mercato globalizzato e universalizzato, al dio-denaro, in cui il bacio è desacralizzato ma anche svilito e degradato, in cui la filosofia e la teologia sono sostituite dall'economia. E condivisibile l'idea del bacio come autentica possibilità di una dimensione etica. Ma le riflessioni di Ricordi conducono a una tesi, o meglio a un'argomentazione, che mostra al suo fondo una moralistica nostalgia del passato e una trita critica del presente, dell'attuale società che spettacolarizza tutto (parole che già Orazio scriveva all'imperatore Augusto per biasimare il cattivo gusto del pubblico romano): lo evidenzia bene, ad esempio, la ripetizione della locuzione "è evidente" ben sette volte solo nelle ultime quattro pagine, dove essa regge e porta avanti un discorso che pretende di spacciare per ovvia, lapalissiana, scontata, quella che è la tesi dell'autore e che questi vuole (o presuppone) il lettore condivida. Questo proprio non mi è piaciuto.
Con ammirevole onestà l'analisi storica di Stefano Jossa nell'Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, in quello che l'autore definisce Un paese senza eroi, parte dall'esplicitazione di alcune tesi, come quella per cui gli eroi non farebbero bene alla politica (per cui, col Galileo di Brecht, "sventurata la terra che ha bisogno di eroi"). Ma dato che sembra che la letteratura italiana tra Otto e Novecento sia attraversata, come da un filo rosso, dalla riflessione sull'eroe e sull'eroismo in una prospettiva nazionale, "che ciò non abbia portato alla nascita di un eroe nazionale è il problema che [è] al centro di questo libro": perché l'Italia non ha il suo Robin Hood o D'Artagnan, insomma? La risposta, per Jossa, risulterebbe essere che "i personaggi più famosi della letteratura italiana abbiano una dose di realismo e individualismo che ne ha impedito la modellizzazione simbolica".
Così, lo Jacopo Ortis Di Foscolo bandisce l'eroismo come ambizione disumana, cui contrappone un'umana e non eroica virtù; gli eroi risorgimentali alla Ettore Fieromosca sono, invece, totalmente idealizzati e irreali, maschere retoriche che suscitano emozioni ma prive di spessore umano e che non offrono una possibilità d'identificazione come, invece, il "vero" Don Abbondio; il protagonista delle Confessioni d'un italiano di Nievo è un antieroe antiromantico, "consapevole dell'impossibilità di dominare, dirigere e controllare la storia, 'da eroe', a Carlino non resta che sviluppare un punto di vista personale, 'da porco', nelle contraddizioni che lo rendono umano"; i superuomini di D'Annunzio riducono l'ambito eroico a quello del seduttore e finiscono per essere o immorali o banali; Pinocchio, l'Enrico del libro Cuore e Gian Burrasca sono forse eroi in potenza, ma ancora troppo piccoli e coinvolti nell'universo emotivo della crescita per poter essere eroi freddi e impassibili; gli inetti di Pirandello e Svevo sono troppo immersi nel flusso costante della vita, nelle pieghe della storia, e risultano antieroi della condizione umana impossibilitati a ergersi a mito; i partigiani e militanti di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), Pratolini (Metello) e Fenoglio (Partigiano Johnny) sono compagni di strada più che modelli da imitare, sono esseri umani sessuati, affamati, infreddoliti, spaventati o aggressivi e non eroi, e respirano l'atmosfera antieroica della cultura italiana postfascista e neorepubblicana.
Seppur interessante, l'analisi di Jossa appare troppo soddisfatta nel suo procedere attraverso il suo percorso letterario a dimostrare la tesi di partenza e troppo caricata ideologicamente nel suo sostenere il non bisogno di eroi, tanto da non risultare veramente critica. Sembra che il saggio si chiuda, compiaciuto, con un "così dovevasi dimostrare".
Già avevo abbandonato e non finito il suo Shakespeare filosofo dell'essere, anche interessante ma decisamente - per me - lento, ma le riflessioni sulla Filosofia del bacio mi sembravano una lettura più completabile. E infatti, in poche ore, ho letto il breve saggio di Franco Ricordi, rimanendone però alquanto deluso. Anche interessante la distinzione tra tre epoche del bacio: quella antica e tragica dell'uomo colpevole di fronte al fato, in cui il bacio, come e simmetricamente alla morte, è pressoché irrappresentato e irrappresentabile; quella medioevale e cristiana dell'uomo peccatore di fronte a Dio, in cui il peccaminoso bacio è però anche atto di libertà; quella moderna e atea dell'uomo debitore davanti al mercato globalizzato e universalizzato, al dio-denaro, in cui il bacio è desacralizzato ma anche svilito e degradato, in cui la filosofia e la teologia sono sostituite dall'economia. E condivisibile l'idea del bacio come autentica possibilità di una dimensione etica. Ma le riflessioni di Ricordi conducono a una tesi, o meglio a un'argomentazione, che mostra al suo fondo una moralistica nostalgia del passato e una trita critica del presente, dell'attuale società che spettacolarizza tutto (parole che già Orazio scriveva all'imperatore Augusto per biasimare il cattivo gusto del pubblico romano): lo evidenzia bene, ad esempio, la ripetizione della locuzione "è evidente" ben sette volte solo nelle ultime quattro pagine, dove essa regge e porta avanti un discorso che pretende di spacciare per ovvia, lapalissiana, scontata, quella che è la tesi dell'autore e che questi vuole (o presuppone) il lettore condivida. Questo proprio non mi è piaciuto.
Con ammirevole onestà l'analisi storica di Stefano Jossa nell'Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, in quello che l'autore definisce Un paese senza eroi, parte dall'esplicitazione di alcune tesi, come quella per cui gli eroi non farebbero bene alla politica (per cui, col Galileo di Brecht, "sventurata la terra che ha bisogno di eroi"). Ma dato che sembra che la letteratura italiana tra Otto e Novecento sia attraversata, come da un filo rosso, dalla riflessione sull'eroe e sull'eroismo in una prospettiva nazionale, "che ciò non abbia portato alla nascita di un eroe nazionale è il problema che [è] al centro di questo libro": perché l'Italia non ha il suo Robin Hood o D'Artagnan, insomma? La risposta, per Jossa, risulterebbe essere che "i personaggi più famosi della letteratura italiana abbiano una dose di realismo e individualismo che ne ha impedito la modellizzazione simbolica".
Così, lo Jacopo Ortis Di Foscolo bandisce l'eroismo come ambizione disumana, cui contrappone un'umana e non eroica virtù; gli eroi risorgimentali alla Ettore Fieromosca sono, invece, totalmente idealizzati e irreali, maschere retoriche che suscitano emozioni ma prive di spessore umano e che non offrono una possibilità d'identificazione come, invece, il "vero" Don Abbondio; il protagonista delle Confessioni d'un italiano di Nievo è un antieroe antiromantico, "consapevole dell'impossibilità di dominare, dirigere e controllare la storia, 'da eroe', a Carlino non resta che sviluppare un punto di vista personale, 'da porco', nelle contraddizioni che lo rendono umano"; i superuomini di D'Annunzio riducono l'ambito eroico a quello del seduttore e finiscono per essere o immorali o banali; Pinocchio, l'Enrico del libro Cuore e Gian Burrasca sono forse eroi in potenza, ma ancora troppo piccoli e coinvolti nell'universo emotivo della crescita per poter essere eroi freddi e impassibili; gli inetti di Pirandello e Svevo sono troppo immersi nel flusso costante della vita, nelle pieghe della storia, e risultano antieroi della condizione umana impossibilitati a ergersi a mito; i partigiani e militanti di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), Pratolini (Metello) e Fenoglio (Partigiano Johnny) sono compagni di strada più che modelli da imitare, sono esseri umani sessuati, affamati, infreddoliti, spaventati o aggressivi e non eroi, e respirano l'atmosfera antieroica della cultura italiana postfascista e neorepubblicana.
Seppur interessante, l'analisi di Jossa appare troppo soddisfatta nel suo procedere attraverso il suo percorso letterario a dimostrare la tesi di partenza e troppo caricata ideologicamente nel suo sostenere il non bisogno di eroi, tanto da non risultare veramente critica. Sembra che il saggio si chiuda, compiaciuto, con un "così dovevasi dimostrare".
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