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venerdì 17 gennaio 2014

la fortezza della solitudine


In ambito di romanzi, di racconti di formazione e di fumetti, Jonathan Lethem ne La fortezza della solitudine (2003) racconta la storia della crescita e dell’amicizia di due ragazzi, Dylan e Mingus, uno bianco e uno nero, negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Novanta, accomunati, tra le altre cose, da una grandissima passione per i fumetti (elemento vero anche per l’autore del libro). Fin dal titolo, emerge chiaramente come uno dei fattori che maggiormente caratterizza l’adolescenza dei protagonisti, soprattutto di Dylan, sia la solitudine: l’auto-esilio nella propria stanza, il «ripiegamento sul segreto potere dei suoi libri e delle sue matite», che fa sì che Dylan «conosceva la Londra di David Copperfield, conosceva persino Narnia meglio di quanto avrebbe mai conosciuto Brooklyn a nord di Flatbush Avenue». Ma ancor più della solitudine, un altro è l’elemento che accomuna tutti i ragazzi, tutti gli adolescenti, ma anche tutti gli adulti incontrati da Dylan nel suo percorso di crescita e formazione: «Non incontrò mai nessuno che non fosse sul punto di trasformarsi in qualcun altro. Era una sua specialità incontrare persone pronte a disfarsi di un’identità o di un travestimento per assumerne un altro».

È il continuo e costante cambiamento, il fattore mutante, il proprio dell’uomo, tanto che non è possibile incontrarne uno che non sia sul punto di trasformarsi, di disfarsi della sua data e passata identità. Questo fattore è più marcato ed evidente, certamente, nell’adolescente, ma mai comunque sopito o superato. Da ragazzo «evolvevi alla luce del sole e segretamente al tempo stesso», continuamente, ma soprattutto d’estate, quando i ragazzi «sono liberi dalla pagina ‘colora-secondo-i-numeri’ dei loro giorni di scuola, dai loro ruoli prestabiliti di carnefici o vittime, pronti per un’estate incontaminata, quel terreno invitante per crogiolarsi nell’autotrasformazione. Chissà come finirà, a che cosa assomiglieranno quando sarà finita? Dylan sa solo che è in preda alla vertigine, sciolto, in volo».

Nel caldo crogiolo estivo, quando è la temperatura esterna stessa ad invitare a fondersi, a disciogliersi, a liquefarsi e ad auto-trasformarsi, l’organismo e l’identità dell’adolescente, più predisposta, cede in preda alla vertigine di possibilità e libertà che la sua esistenza gli presenta e, tra angoscia ed esaltazione, tra paura ed eccitamento, spicca il suo volo di ri-creazione. L’adolescente è innanzitutto un mutante.

«L’adolescenza era innanzitutto un’identità segreta. A tredici anni si cominciava a lasciare tracce, nomi arcani e segni proliferanti, lenzuola che ti ostinavi a volerti lavare da solo. Come una rotella dello Spirograph, la tua traiettoria incerta combinava casini. Aeroman era una via più audace, solo che sembrava restio a uscire dal guscio di felpa». 

A tredici anni l’identità è un segreto, da custodire e da svelare insieme, e in questo incerto tentare, provare, saggiare – folle e incasinato come la traiettoria della rotella di uno spirografo – si produce un proliferare di tracce, segni, resti, residui, fluidi, e si inventano e lasciano nomi. 

«”Non hai ancora un tag, tu? Inventatene uno.”
I fumetti Marvel avevano ragione, il mondo era fatto di nomi segreti, tu dovevi solo scoprire il tuo».


Aeroman, l’uomo volante, è il nome, l’identità segreta, che Dylan, imparando dai fumetti Marvel, inventa per sé e che si cuce addosso. Che letteralmente si cuce, visto che crea questa identità nuova e segreta – che vorrebbe audacemente emergere e differenziarsi dalla massa degli altri adolescenti, ma allo stesso tempo teme ed è restia ad uscire dal protettivo guscio dell’uniformante e anonima felpa – realizzando per sé un costume da supereroe dei fumetti. 

«Dylan, il ragazzino volante. Si sarebbe cucito un costume e sarebbe andato sui tetti, per piombare addosso al crimine. Per quel giorno la cosa doveva essere camuffata: la Scoperta del Volo, proprio sotto il loro naso. Al suo balzo inaugurale, però, lui sentiva già amore e simpatia per tutti mentre nuotava nell’aria, il suo orizzonte riorganizzato».

«Il mantello, ritagliato da un logoro lenzuolo del Dr. Seuss con il leone che lecca un lecca-lecca al limone, era attaccato in due punti del collo della maglietta celeste che formava il corpo del costume. Dylan aveva fatto in modo di collocare il leone, logo adeguatamente enigmatico, quanto più possibile al centro del mantello. Le maniche della maglietta le aveva prolungate con le gambe a strisce sgargianti tagliate da un paio di pantaloni a zampa abbandonati da sua madre, trafugati dalla cima del mucchio sul fondo del suo armadio dove solo Dylan era mai andato a guardare. Pendevano maestose, le mani di Dylan che sbucavano tra le frange di fili come il batacchio di una campana. Era poco pratico, ma quello era solo un prototipo. Un pezzo da esposizione. Il petto della maglietta l’aveva teso su un cartone e decorato con lo Spirograph, le punte arrugginite, le ruote recalcitranti, un lavoro maldestro dagli esiti imperfetti. L’emblema era un cerchio oscillato, la traiettoria sempre più ampia di un atomo tracciata un migliaio di volte nello spazio a formare fasci di energia. Da una qualche distanza, però, sfumava in uno zero un po’ ciccione». 


Un primo tentativo, una prova, un (as)saggio. Un esperimento forse maldestro e dall’esito ancora imperfetto, quasi uno zero, ma simbolico ed emblematico. Un individuo traccia la propria personale, incerta e oscillante traiettoria di crescita nello spazio che lo circonda, come un atomo o un fascio di energia. Cucito il costume, creata la propria nuova, vera, identità, questa va inizialmente camuffata, celata, nascosta proprio sotto il naso degli altri, di chi ci circonda. Ma è pronto il balzo inaugurale di questa nuova creatura: riorganizzato il proprio orizzonte, un nuovo essere è pronto a spiccare il volo. Il tema del cucirsi o comunque prepararsi il proprio costume, soprattutto legato a figure di adolescenti, è piuttosto un luogo comune dei fumetti: giusto due esempi, particolarmente significativi sia in sé sia per le opere da cui sono tratti.
In The Dark Knight Returns (1986) di Frank Miller, la giovanissima Carrie spende due settimane della propria paga per potersi permettere il vestito che le consenta di essere un buon nuovo Robin, che affianchi il Cavaliere Oscuro sulle strade di Gotham City. In una tavola del secondo capitolo del suo graphic novel, Miller ce la mostra mentre lo indossa e lo prova davanti allo specchio prima del suo “balzo inaugurale”, del primo volo di questo piccolo pettirosso. 
In Kick-Ass (2008), Mark Millar sceglie come protagonista un ragazzo a cui non servono traumi personali (l’omicidio dei genitori, come nel caso di Batman), raggi cosmici o anelli di potere per decidere di realizzare e indossare un costume che davanti allo specchio lo faccia sentire «davvero fighissimo» e che gli faccia passare le sere «a pensare a qualche nome figo da supereroe», tanto da sentirsi così bene da non guardare «porno su internet per quasi sette settimane». A muovere David “Dave” Lizewski che, «come la maggior parte della gente» della sua età – né atleta, né nerd, né buffone della sua classe –, esiste e basta, è «una perfetta combinazione di solitudine e disperazione».

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