La ninja e telepate X-Men nota come Psylocke è la protagonista della miniserie Kill Matsu'o. Se fin dal titolo l’avventura sembra una citazione del film del 2003 di Quentin Tarantino Kill Bill, questo omaggio citazionista è ulteriormente confermato e rafforzato all’interno della storia, che si presenta anch’essa come una furiosa ricerca di vendetta da parte di una donna armata di katana (Psylocke) nei confronti di un uomo per cui ha lavorato come assassina (Matsu’o Tsurayaba), e che ha tra i suoi momenti uno scontro “una contro molti” nel Club 77 di Tokyo (come La Sposa affronta in un locale giapponese gli 88 folli della Yakuza). Uno degli eventi che fa della vita di Psylocke qualcosa di spettacolare e terribile è l’essersi ritrovata «in un altro corpo. Con un’altra faccia»: cercando di salvare gli X-Men dai cyborg Reavers – che, come forse nessun altro mai, si sono avvicinati allo sterminio del gruppo mutante, tra l'altro crocifiggendo Wolverine – Psylocke ha attraversato quel Seggio Periglioso (di ispirazione arturiana) oltre il quale, finita su una spiaggia giapponese e lì trovata dall’organizzazione criminale – e secolare setta ninja legata al mondo dell’occulto – della Mano e prelevata da Matsu’o Tsurayaba, è stata trasformata da quest’ultimo – grazie all’unione di chirurgia, tecnologia e magia e nel tentativo di riportare in vita la donna che amava (Kwannon) – in una ninja killer, con tanto di cambiamento di corpo e riprogrammazione mentale, arrivando quindi a perdere quasi tutto ciò che era. Per un po’ Psylocke è stata Kwannon – o meglio Lady Mandarin, assassina del Mandarino –, poi Wolverine l’ha riportata “indietro”: «Ho visto me stessa nella sua mente… e i suoi ricordi mi dissero chi ero».
La vicenda della miniserie dedicata a Psylocke prende avvio dalla decisione della mutante su «come disporre del proprio cadavere», ma non in vista di una futura morte, bensì nell’attualità inquietante di un cadavere su un tavolo di obitorio: «su quel tavolo c’è il mio vecchio corpo». Psylocke deve decidere cosa fare del suo corpo originale, quello che ha attraversato il Seggio Periglioso, quello che ora non è più il suo corpo, quello che ora non è più lei. Partita per il Giappone per inumarlo, la telepate viene però attaccata dai ninja della Mano che, su mandato di Matsu’o, inceneriscono il corpo, il suo cadavere, davanti a lei. Ciò che era, l’ultimo legame con la sua vita precedente, incenerito, andato, dissolto. Psylocke aveva fatto pace e perdonato Matsu’o per ciò che le aveva fatto, nonostante ciò che le aveva fatto, prenderle il corpo e l’anima era stato un gesto empio ma compiuto per amore, ma adesso? Adesso sembra non esserci possibilità di perdono, ma solo per lo scatenarsi di una furiosa vendetta: Matsu’o deve morire. Fra Psylocke e Matsu’o, però, si frappone un inaspettato ostacolo: Wolverine. Anch’egli ha ottimi motivi per odiare e vendicarsi di Matsu’o, essendo il responsabile della morte di Mariko Yashida, donna che è stata uno dei più profondi amori del mutante, ma la sua maniera di fare i conti con il capo della Mano non ne prevede la morte, bensì la lenta, continua, cerimoniale mutilazione: «Matsu’o non ha finito di pagare e quindi non deve morire. Mai»; «ogni goccia di sangue ripaga ciò che mi ha portato via. E non sarà mai abbastanza». Questo calcolo della vendetta e dell’imperdonabile è ben raffigurata da un poster che Wolverine tiene nella sua stanza, manifesto che riporta una citazione da Archiloco sull’arte di ricambiare il male a chi ci ha ferito: «Una sola cosa so, importante: ricambiare con mali terribili chi mi fa del male [I have a high art. I hurt with cruelty those who would damage me]».
Psylocke più di chiunque altro, probabilmente, può comprendere la decisione di Wolverine, la volontà di ricambiare con mali terribili chi ci ha fatto del male, di ferire crudelmente chi ci ha danneggiato, ma gli si oppone, lo affronta: «Matsu’o si è portato via la vita di Logan. Capisco la sua rabbia. Perché fermarlo? Cosa mi importa di Matsu’o Tsurayaba? Cosa sto facendo?». Non c’è anche in Psylocke la stessa volontà di vendetta e la stessa impossibilità di perdono presenti in Wolverine? «Ho distrutto la tua vita. E ora anche le tue ultime vestigia. C’è perdono nel tuo cuore? O solo vendetta?», domanda lo stesso Matsu’o. Uccidere i propri avversari è un comportamento che non ha mai fatto parte dell’etica degli X-Men. Non lo fa Tempesta, leader degli X-Men, con Magneto, eppure quello di Tempesta è un eroismo certo degno del nuovo eroe, dell'eroe non classico ma contemporaneo, dell'eroe postmoderno comico, gaudente, nichilista, singolare, criminale – insomma, sporco come l'ispettore Callaghan di Clint Eastwood e oscuro come il Batman di Frank Miller – di cui Simone Regazzoni traccia i caratteri nel suo saggio Sfortunato il paese che non ha eroi: Tempesta, eroe dalle infinite sfumature, è quello che è perché ha abbracciato il suo lato oscuro, la sua natura più cupa. Eppure c’è perdono nel suo cuore e non solo vendetta. Così è per Psylocke davanti a Matsu’o, sembra. Le due mutanti riconoscono – come Jacques Derrida – che quella del perdono è «un’esperienza estranea al regno del diritto, del castigo o della pena, dell’istituzione pubblica, del calcolo giudiziario ecc.», insomma, rappresenta «una sfida alla logica penale» che richiede una rottura di ogni possibile reciprocità o simmetria – quelle che, invece, inutilmente cerca Wolverine – e che «esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si confessa, né rende migliore se stesso o si riscatta: al di là, pertanto, di ogni economia, al di là perfino di ogni espiazione» (Perdonare).
Il perdono, se ce n’è, ha senso e possibilità solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile, cioè a perdonare l’imperdonabile, l’inespiabile, secondo Derrida, per non correre il rischio di essere contaminato da un calcolo che lo corrompe, prima colpa di ogni perdono che voglia essere veramente tale. Il perdono, come il dono, non vuole gratitudine: «Non devi ringraziarmi», dice infatti Psylocke a Matsu’o, perché il (per)dono non deve apparire come tale, né al donatario né al donatore. Sempre secondo Derrida «Nemmeno colui che dona deve vederlo o saperlo, altrimenti comincia, fin dall’inizio, fin dal momento in cui ha l’intenzione di donare, a ripagarsi di un riconoscimento simbolico, a felicitarsi, ad approvarsi, a gratificarsi, a congratularsi, a restituirsi simbolicamente il valore di ciò che ha appena donato, di ciò che crede di aver donato, di ciò che si appresta a donare» (Donare il tempo).
Il perdono, se ce n’è, ha senso e possibilità solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile, cioè a perdonare l’imperdonabile, l’inespiabile, secondo Derrida, per non correre il rischio di essere contaminato da un calcolo che lo corrompe, prima colpa di ogni perdono che voglia essere veramente tale. Il perdono, come il dono, non vuole gratitudine: «Non devi ringraziarmi», dice infatti Psylocke a Matsu’o, perché il (per)dono non deve apparire come tale, né al donatario né al donatore. Sempre secondo Derrida «Nemmeno colui che dona deve vederlo o saperlo, altrimenti comincia, fin dall’inizio, fin dal momento in cui ha l’intenzione di donare, a ripagarsi di un riconoscimento simbolico, a felicitarsi, ad approvarsi, a gratificarsi, a congratularsi, a restituirsi simbolicamente il valore di ciò che ha appena donato, di ciò che crede di aver donato, di ciò che si appresta a donare» (Donare il tempo).
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