«Vi è là cenere». Leggevo, rileggevo; era così semplice ma capivo benissimo che non c’ero per nulla: senza attendere me, la frase si ritirava verso il suo segreto.
Tanto più che quella parola, là, non era là per essere udita. Mentre mi limitavo ad ascoltarla, con gli occhi chiusi, mi piaceva lasciarmi andare a mormorare la cenere, confondendo quel là, appunto, col femminile singolare dell’articolo determinativo. Dovevo decifrare senza perdere l’equilibrio, in bilico tra l’occhio e l’orecchio: non sono sicuro di essere riuscito a trovare, là, un punto d’arresto.
La cenere non è più qui.
Un fumo di tabacco: poche parole che vi escono dalla bocca, destinate a perdersi senza possibilità di riconoscimento.
L’assenza d’articolo faceva vibrare d’una parvenza di donna il fantasma sepolto nella parola, nel fumo: in fondo al nome comune vibrava il nome proprio. La cenere non è qui ma, là, vi è Cenere.
È un segnale di cenere, segna il ricordo di qualche cosa o di qualcuno di cui non dice nulla. Essa non ammette se non l’incinerazione in corso, di cui essa resta il monumento.
La cenere non è, non è ciò che è. Essa resta di ciò che non è, non-essere o impresenza.
Il miglior paradigma della traccia è proprio la cenere (ciò che resta senza restare).
Tra bianco e nero, il colore della scrittura assomiglia all’unica “letteralità” della cenere che possa ancora far parte di un linguaggio. In una cenere di parole, nella cenere di un nome, è scomparsa proprio la cenere in persona, la cenere letterale. Il nome di cenere è ancora una cenere della stessa cenere. Ecco perché qui, in una sentenza, la cenere non è più; ma là, vi è là cenere.
(da Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco)
Breve e divertente testo per provare ad entrare nel circolo periglioso del pensiero di Derrida.
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