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domenica 12 gennaio 2025

3 (atti) in 1 (potenza)

Questo mese sono usciti tanti interessanti nuovi set della Lego. Da un po', poi, i set della serie Creator 3 in 1 sono particolarmente belli, migliorati rispetto al passato mi sembra, e soprattutto rendono difficile scegliere quale opzione costruire, quale forma - tra le tre disponibili - dare ai mattoncini, in quale attualità trasformare la loro potenzialità - per scomodare un po' di lessico à la Aristotele.

Nell'ultimo acquisto di questo mese abbiamo preso tre set di tale serie - e in omaggio è arrivato anche un piccolo tucano (o pinguino, o pesce).

Uno non lo ho ancora montato, perché ancora non mi è chiaro quale atto generare dalla potenza dei mattoncini contenuti nella sua scatola.

Due, invece, li ho montati guardando la nuova miniserie televisiva Leopardi. Il poeta dell'infinito, liberamente ispirata alla vita di Giacomo Leopardi.

Si tratta della macchina da scrivere con fiori, i cui mattoncini rosa potevano in alternativa originare una decorazione musicale consistente in una keytar giocattolo con supporto floreale, oppure un vaso di fiori con penna e quaderno. Questa ha trovato collocazione in casa nello scaffale di critica letteraria dedicato a Umberto Eco.


E poi del gatto giocoso, completo di gomitolo di lana, ciotola del cibo e topolino - in questo caso si poteva costruire alternativamente un cane oppure un piccione -, costruzione che è finita invece nello scaffale della libreria dedicato a romanzi e testi sui gatti.

Questi ultimi set si aggiungono alla fotocamera retrò, al gufo della foresta, al pappagallo esotico, all'ukulele tropicale, all'innaffiatoio con fiori, alla giraffa del safari, alla tigre maestosa, al pattino a rotelle retrò, alla casetta per gli uccelli, al saggio gufo che legge una storia al riccio nella foresta fantasy. Solo per citare i set della serie Creator 3 in 1.



martedì 24 maggio 2016

critica dei morti viventi

La bella raccolta di saggi curata da Cateno Tempio, Critica dei morti viventi, indaga e racconta il fenomeno zombie tra cinema, videogiochi, fumetti e filosofia. I morti viventi siamo noi, inutile nasconder la nostra condizione ontologica che è la progressiva decomposizione, il disfacimento vivente. Figura perturbante e filosofica, lo zombie cammina senza trucchi, rifiuta l'imbellettamento e le maschere del vivere comune, svela la morte.
Rocco Ronchi ritiene che più dei moderni - che da Cartesio in poi pongono tra il vivente e il suo cadavere una relazione sinonimica, di contrari ma in un genere comune (ontologia della morte di un materialismo meccanicista che ha nei gabinetti di anatomo-patologia la sua origine) - siano gli antichi - che con Aristotele pongono un'omonimia tra il vivente e il cadavere, il cui nome è comune ma la cui essenza è differente - a permetterci di cogliere cosa siano i living dead: essi affermano una differenza pura, infinita, senza identità, la differenza a monte della vita e della morte (Jacques Derrida), una soglia che non appartiene né alla prima né alla seconda. Gli zombi portano a espressione quanto vi è di liminare nell'esperienza umana, l'esperienza pura, anonima e universale del trauma, familiare e perturbante.
Per Tommaso Ariemma quella del morto vivente è una figura di lunga tradizione che si riallaccia alle due distinte forme di "morte in vita" che gli antichi filosofi riconoscevano: la vita contemplativa e la vita quotidiana. Da Platone a Fichte la vita contemplativa, l'ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, inventa la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria. La figura degli zombi va allora messa in relazione alla sua origine metafisica, ovvero alla particolare forma di vita che l'Occidente ha scelto come ideale.
Antonio Lucci vede nell'origine haitiana dello zombie l'orrore infinito di una società soggiogata da un regime schiavista potenzialmente eterno e infinito, al di là del tempo e della morte: lo zombie quale paradossale controfigura dell'oppresso, grado zero della vita, dell'umanità, della morte e del proletariato. Pura morte, nuda morte che cammina, lo zombi si vendica di questa schiavitù nelle sue incarnazioni successive, che da un lato lo rendono un emblema della critica al capitalismo, mentre dall'altro esso diventa una macchina da riproduzione, un proletario nel senso letterale del termine, quale ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione: l'oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione è lo zombi che crea altri, potenzialmente infiniti, seguaci, massa che da asservita diventa soggiogante, movimento acefalo, collettivo e organizzato dal basso nella propria assenza di opera. Nelle sue ultime figurazioni, invece, lo zombie sembra essere la molla d'innesco per narrazioni che hanno al proprio centro un'antropologia pessimistica: in una società resettata, in cui le istituzioni collassano, l'essere umano è il vero mostro, animale crudele allo stato di natura.
Tommaso Moscati evidenzia come lo zombie sia fra le figure orrorifiche quella che maggiormente è in grado di problematizzare la questione della diversità e dell'anticonformismo, essendo un concentrato di eccentricità e deformità.
Livio Marchese parla di "complesso dello zombie" per indicare la malattia che affligge l'umanità del terzo millennio, malattia prodotta dalle spore delle immagini in movimento di quell'arte potentissima e arte patogena che è il cinema che, meraviglioso e pericoloso, agendo sugli stati psichici più profondi può liberare e prolungare lo sguardo quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Tra gli anni Sessanta e Ottanta la natura del miglior cinema zombie è stata quella rivoluzionaria di critica nei confronti della società, del nuovo tipo umano e delle nuove relazioni tra esseri umani, mentre ora esso sembrerebbe non andare oltre l'ambizione di soddisfare il bisogno di forzare sempre di più i limiti della rappresentazione dell'orrore, garantendo sfogo catartico e compiacimento.

sabato 19 marzo 2016

filosofia dell'umorismo

Qual è il rapporto tra ridere e filosofare? La storia che Lucrezia Ercoli percorre e ricostruisce nel suo Filosofia dell'umorismo mostra come l'opposizione tra serio e comico non sia altro che l'equivalente di altre contrapposizioni sedimentate nella cultura ufficiale, così che l'umorismo sembra destinato a riecheggiare fuori dalle mura della cultura rappresentando come un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo. Un ospite inquietante, cui spesso è toccato subire il disinteresse teorico e la condanna morale. Così che sull'umorismo, dote in effetti piuttosto rara tra gli esseri umani, sono scivolati anche i più grandi pensatori che "sono riusciti a definire il pensiero, l'essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende dalle scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime" (Umberto Eco).
Dalla serietà, sacralità e potenza ma anche violenza e aggressività che il mito classico riconosce al riso, al riso, nella filosofia antica, di Democrito - impietoso e anche crudele, non è quello della innocente spensieratezza ma quello distaccato e privo di compassione del sapiente che sa - e di Diogene - cinico, blasfemo, osceno, scandaloso e distruttore, dissacra ogni veneranda e terribile autorità; dalla distinzione operata da Aristotele tra un appropriato buon umore, una giudiziosa arguzia che non è né buffoneria né rusticità, e lo stigmatizzabile ridicolo che va tenuto sotto controllo (riconoscendogli così, però, il potere di trasformarsi in un grimaldello che porti alla luce un fondo indomabile che pur giace nel cuore dell'umano), all'ambiguità del riso carnascialesco che ha insieme un ruolo di liberazione ed emancipazione sociale ed esistenziale e anche uno di conservazione di quell'ordine che decostruisce ma di cui esorcizza la dissoluzione definitiva; dall'umorismo che per Baudelaire rappresenta i confini incerti dell'umano, una zona di confine tra la grandezza infinita del divino e l'infinita miseria della bestia, all'arguzia che per Schopenhauer è il godimento di scoprire l'insufficienza della ragione, il piacere della sua sconfitta, che mostra come l'infinita delicatezza delle sfumature dell'esperienza non si adatti alla vita astratta dell'intelletto; dall'umorismo di Jean Paul, che è una filosofia folle e forsennata dallo spirito poetico e libero, a  quello di Pirandello, che riflette sulle crudeli leggi sociali che imprigionano il fluire vitale in una serie infinita di forme fisse e maschere; dalla funzione sociale, di risanamento di una contraddizione e castigo di un comportamento, che ha il riso per Bergson, all'umorismo che per Ritter, quale profonda critica della ragione e della sua pretesa di limitare tramite i propri concetti finiti la forza dell'infinita pienezza della vita, è filosofia; dal riso con cui Nietzsche risponde alla morale e alla metafisica, danzando con lievità al di là di esse, a quello con cui Bataille si  affranca da ogni verità, distrugge ogni trascendenza, decostruisce ogni identità per aprirsi a un agire veramente libero.
Questa storia dell'umorismo ci insegna che è necessario ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità; che "il ridente altro non è che il maieuta di una diversa società possibile" (Umberto Eco); che umorismo e filosofia hanno lo stesso scopo di gettare un'ombra di diffidenza sulle ovvietà del senso comune, sulle premesse ideologiche, sui pregiudizi culturali. Ridere è filosofare.

lunedì 29 febbraio 2016

letture di febbraio

La nuova avventura del duo Hap e Leonard scritta da Joe R. LansdaleHonky Tonk Samurai, vede i due improbabili detective metter su una sgangherata squadra - dei "samurai" pronti a andare fino in fondo, a rischiare la vita, ma desiderosi di salvare la pelle - per risolvere un caso la cui verità, alla fine, forse si sarebbe preferito non conoscerla. 

Lettura seriale anche per Fabio Geda che, insieme a Marco Magnone, dà inizio alla saga adolescenziale Berlin con il primo volume, I fuochi di Tegel.

Il ritratto di Descartes realizzato da Steven Nadler con il suo Il filosofo, il sacerdote e il pittore è piuttosto inconsistente e superficiale dal punto di vista filosofico e, insieme, molto poco attraente dal punto di vista letterario e narrativo: una piatta e ridotta biografia concentrata sull'incontro tra il filosofo francese residente nell'Olanda del secolo d'oro e il sacerdote cattolico Bloemaert, e sul probabile ritratto del suo amico che quest'ultimo avrebbe fatto realizzare al famoso Frans Hals, in un'epoca e in un luogo agitato da una febbre ritrattistica, prima della partenza del filosofo per la Svezia, in modo da averne sempre un caro ricordo. Così Nadler ricostruisce la genesi della più nota opera pittorica che ritrae Descartes. E il libro è tutto qui. Deludente.
Lettura derivata dal seminario sulle cartesiane Meditazioni metafisiche che sto tenendo a scuola, e da cui derivano anche le letture dirette dei testi del filosofo francese: Discorso sul metodo e i due trattati Il Mondo. L'uomo. Per questo e per gli altri seminari, la Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes di Emanuela Scribano, la Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele di Giovanni Reale e la Guida alla lettura della Nascita della tragedia di Nietzsche di Gherardo Ugolini.

Sempre in ambito filosofico, le piacevoli Lettere persiane di Montesquieu, il breve intervento di Jacques Derrida sui temi di Incondizionalità e sovranità e quello su sovranità e crudeltà in Stati d'animo della psicanalisi di cui ho già scritto, come ho già scritto anche del libricino popfilosofico di Monia Andreani su Peppa Pig e la filosofia.

Molto gradevoli, soprattutto per gli splendidi disegni di Philippe-Henri Turin, i due volumetti per bambini scritti da Alex Cousseau e con protagonista Carlo, piccolo drago poeta dalle ali e zampe troppo grandi che lo fanno essere impacciato a terra e perciò deriso dai suoi simili ma in grado di oscurare il sole mentre vola, alle prese prima con la scuola di draghi e poi con il ciclope Polifemo

Dal mondo dei fumetti, oltre all'omaggio di Hugo Pratt all'ultimo volo di Saint-Exupéry, continuano i primi cicli narrativi delle nuove testate della Marvel: buoni i debutti del Dottor Strange, scritto da Jason Aaron e disegnato da Chris Bachalo, sulla Via della stranezza e del primo volume del nuovo Capitan America, Sam Wilson, di Nick Spencer, mentre pessimi i New Avengers di Al Ewing dove Tutto è nuovo ma il team non ha la minima attrattiva e le storie non appassionano.
Inoltre, bella l'avventura di Batman e Joker in Europa scritta da Brian Azzarello e disegnata da Matteo Casali e che vede i due percorrere le strade di alcune capitali del vecchio continente - Berlino, Praga, Parigi, Roma - per scoprire di essere intimamente legati ed essenzialmente necessari l'uno all'altro, reciprocamente e insieme veleno e medicina l'un per l'altro.

domenica 31 gennaio 2016

letture di gennaio

Visto il trasferimento toscano torno a Vasco Pratolini con il suo Cronache di poveri amanti: epica umile e pettegolezzi di quartiere, violenza fascista e lavoro manuale, amore e maturità, povertà e festa, gioia e lotta. 

Su suggerimento di Dreca ho letto il primo testo di una trilogia dell'autore marocchino Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia. Il tema dell'identità e del genere incarnato in una creatura incostante e mutevole come la sabbia: Ahmed o Zahra, un uomo dal seno femminile o una donna con la barba mal rasata, l'illusione e la violenza che giustifica e privilegia qualsiasi cosa o una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione, un destino forgiato da una volontà altrui o l'avventura del proprio corpo. Una vita come pelle screpolata a forza di subire mute e di farsi maschere su maschere. 

Con I lauri senza fronde Edouard Dujardin ci immerge nel flusso di coscienza di un giovane studente parigino invaghito di un'attricetta che ne spreme le ristrette finanze: il monologo interiore - prima di Joyce - di una serata di passeggiate, incontri, memorie, progetti, speranze, delusioni. 

Un po' di classici della filosofia e di saggistica: ritorno a Giorgio Colli, a lungo frequentato ai tempi dell'università, con il postumo Apollineo e dionisiacoIndizi sul corpo di Jean-Luc Nancy - che mi ha portato anche a Aristotele con L'anima -, Avances di Jacques Derrida, autore sul quale ho letto anche il non riuscito tentativo di Francesco Garritano di mettere in luce il progetto pedagogico del postmoderno a partire da La formazione come questione in Jacques Derrida.

Qualcosa sull'esistenzialismo, in vista di un corso di approfondimento per potenziare l'offerta formativa scolastica: Esistenzialismo e filosofia contemporanea di Pietro Prini, Esistenzialismo di Eugenio De Caro, L'esistenzialismo di Paul Foulquié, L'esistenzialismo di Guido De Reggiero.

Altra saggistica, molto deludente, il Lacan zen di Leonardo Vittorio Arena e I sei nomi della bellezza con cui Crispin Sartwell traduce in mera chiacchiera il suo tentativo di analizzare le diverse esperienze estetiche nel mondo.

Dall'evento destinato a stravolgere l'universo fumettistico della Marvel, Secret Wars, il volume che raccoglie le vicende fantasy scritte da Jason Aaron e soprattutto magnificamente illustrate da Mike Del Mundo: Weirdworld
E di questo tutto nuovo e differente universo supereroico che emerge, si concludono i primi archi narrativi delle nuove testate: il Reboot dell'invincibile Iron Man scritto da Brian Michael Bendis è divertente e ironico, ricco di azione ed eccessivo, sfacciato e anche gradasso, e soprattutto graficamente esaltante grazie ai disegni di David Marquez; gli straordinari X-Men scritti da Jeff Lemire - con Tempesta come leader e il gradito ritorno del vecchio Logan - si presentano come un gruppo in grado di prendere a calci quanti si oppongono al loro progetto di costruire un Paradiso-X per chi da sempre è temuto e odiato dall'umanità; infine, il Deadpool di Gerry Duggan deve imparare a vivere con il suo nuovo status di eroe più grande e popolare del mondo, di avengers e icona massmediatica, non più un mercenario ma un Milionario chiacchierone; non particolarmente brillanti lo Scontro temporale in cui Charles Soule getta gli incredibili Inumani guidati dai reali Freccia Nera e Medusa, né lo stupefacente Ant-Man di Nick Spencer che si ritrova tra le difficoltà di essere insieme un padre e un eroe e i supereroici Team-Up che tutti amano.

Di Cocktailsofia di Giovanni Giaccone ho già scritto, di Gianluca Cuozzo con Utopie e realtà e dei due saggi di Giovanni Macchia sulla letteratura francese - Baudelaire e la poetica della malinconia e Le rovine di Parigi -, invece, a breve.

venerdì 31 luglio 2015

letture di luglio

Viaggi, studio e caldo tolgono tempo ed energie per la scrittura, quindi solo un piccolo e breve resoconto delle letture mensili. Di alcune di esse, magari, ne parlerò più diffusamente il mese prossimo.

Classici della letteratura: La donna in bianco di Wilkie Collins, Henry James con Lo scolaro, La fiera delle vanità di William Thackeray, Samuel Richardson con Pamela, Passaggio in India di Edward Morgan Forster
E letteratura contemporanea con Neil Gaiman, The Ocean at the End of the Lane, The Silkworm di Robert Galbraith/J.K. Rowling.
Ancora Aristotele, questa volta con l'Etica Nicomachea. E, sempre in ambito filosofico, Slavoj Žižek con il suo ultimo Problemi in paradiso, Canone inverso di Tommaso Ariemma, Stefan Zweig con Il demone di Nietzsche e La porta stretta di Umberto Curi.
Perla del mese, la Star Wars Trilogy (ri)scritta in stile shakespeariano - quindi in pentametro giambico - da Ian Doescher.

martedì 30 giugno 2015

letture di giugno (II)

Il classico di Vladimir Nabokov, Lolita, è un romanzo scritto straordinariamente bene, con un personaggio protagonista e narratore allucinato e lucidissimo, inquietante, perturbante e vicinissimo, passionale e razionale, indimenticabile.

L'ultimo di Stephen King, Revival, è un romanzo - tra il Frankenstein di Mary Shelley e il Necronomicon di H.P. Lovercraft - gradevole e senza grandi pretese di uno dei più grandi affabulatori contemporanei.

Interessante il percorso tracciato da Alberto Castoldi tra letteratura e arte sul tema del Bianco: colore ambiguo, divino e spettrale; colore del dramma della creatività, pulsionalità e potenzialità, che coniuga la sublimazione estetica e la mostruosità intesa come negazione e assenza, tema della lotta per il possesso della pagina o della tela, da conquistare attivamente ma, insieme, dalla fascinazione vampirizzante; colore che è spazio di percorsi ed esplorazioni ma in cui, anche, perdersi e naufragare, deposito di idee sacro e terrificante; colore ostile, violento, pericoloso, minaccioso, perturbante, mistico, pieno e vuoto.

Immersione nella filosofia antica con l'Aristotele de La metafisica ("Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza") e della forse non autentica ma certamente plausibile Lettera ad Alessandro sul governo del mondo ("Non scrivo queste parole all'uomo che si è impadronito di un potere di cui non è degno, ma all'uomo che ha praticato questo detto: 'mi sarei ritenuto degno più del biasimo che della lode'").


Interessante il breve discorso dedicato da Peter Sloterdijk a quel fatale/fatidico evento filosofico - e non solo - che porta il contingente nome di Friedrich Nietzsche: Il quinto «vangelo» di Nietzsche. Sulla correzione delle buone notizie riconosce nel filosofo tedesco, oltre a un nome nella lista dei classici, soprattutto un maestro di generosità "solare" - propenso a prodigare incondizionatamente e capace di tramontare senza rimpianti - e il marchio di un prodotto immateriale di successo quale l'individualismo.

Deludente e men che mediocre l'esperienza di lettura di Liberi servi, testo esegetico da parte di Gustavo Zagrebelsky della dostoevskijana Leggenda del Grande Inquisitore: il saggio è prolisso (almeno rispetto al valore e alla profondità del contenuto), farraginoso, zeppo di citazioni eccessivamente lunghe dall'opera di Dostoevskij.

lunedì 24 marzo 2014

la pubblicità come discorso morale

La tesi del bel saggio di Emanuele Coccia, Il bene nelle cose, è che le merci siano "la figura estrema del bene, l'ultimo nome che l'Occidente ha dato al bene" e, di conseguenza, che la pubblicità sia "un immenso esperimento dell'immaginazione morale collettiva contemporanea, quello assieme più vasto, più pervasivo, più visibile" e "un'immensa riflessione iconica e concettuale sul mondo e i suoi elementi, e assieme sulla felicità umana, le sue forme, le sue possibilità". Questo amore dell'uomo per le cose, quest'amore effimero di un uomo che vive di cose e per le cose, è affrontato dall'autore in modo interessante, originale e serio, evitando posizioni apocalittiche (moralistiche)  e indagandolo, invece, con "uno sguardo più indulgente e meno paranoico di quello dei maestri del sospetto e assieme più rigoroso"; ma non si cade, ovviamente, neanche in posizioni integrate. Si riconosce, piuttosto, che il desublimato universo morale della pubblicità è perfettamente analogo ad altre forme di morale pubblica, esposta sui muri o in spazi pubblici, che nulla hanno di tratti sublimi: "la celebrazione di una battaglia di sterminio di un popolo nei bassorilievi romani non è necessariamente più nobile e sublime che l'invito a riconoscere in una borsa il segreto della nostra felicità".   
Proprio dai muri parte l'analisi di Coccia, perché è su di essi che storicamente vita spirituale e vita materiale divengono inseparabili, è su di essi che si incarnano la memoria e l'autocoscienza di una città, che è soprattutto "un essere di superficie che non smette di darsi a vedere, di comunicare l'immagine di sé, di parlare di se stessa". Se la politica è la forma suprema di architettura (Aristotele) e l'architettura è sempre l'organo di un sogno pubblico, i muri sono "cosa politica" e "fantasmagoria diventata pietra" (Benjamin), sono lo "spazio di proiezione e di produzione fantasmagorica" pubblica e condivisa - tanto per scritture e immagini ufficiali, quanto per umori del popolo, opinioni individuali, proteste e ribellioni - nel quale insieme la città si costituisce materialmente e si fa autocoscienza, riflettendo su se stessa, sul proprio ethos collettivo e sulla propria moralità concreta (Hegel): "è in questo spazio che ogni cittadino apprendeva i saperi politici condivisi, le regole pubbliche, i valori civici universalmente riconosciuti, l'assiologia della polis". In questa antica tradizione di una "morale su pietra" si iscrive, dunque, la pubblicità, essendo l'ultima trasformazione di questo sapere pubblico del bene e del male che oriente le nostre scelte e definisce i nostri costumi. 
Ancora, secondo Coccia la pubblicità è il dialetto principale con cui le città della nostra epoca formulano la morale contemporanea che ha ormai "assunto il fatto che il destino dell'uomo è una vita tra le cose e che questa vita tra le cose non potrà, mai, essere trascesa". Essa è, quindi, il sintomo della rivoluzione morale che afferma la vita ordinaria, l'immanenza della felicità, la presenza del bene sulla terra, "un bene che coincide con l'infinità delle forme che la materia e gli elementi possono assumere", con le cose stesse, la loro forma e colore e profumo: "la pubblicità è la moralizzazione integrale del mondo umano". "Quella veicolata dalla pubblicità è una morale integralmente intramondana: non promette salvezza da questo mondo ma definisce i modi in cui le cose del mondo si fanno felicità oggettiva".

giovedì 26 dicembre 2013

il sorriso e l'enigma

Nel suo saggio Non ci resta che ridere, Andrea Tagliapietra affronta l'epoca della massa ridente, quell'epoca (la nostra) che segue alle età antica e medioevale (in cui il riso era rispettivamente divino e diabolico, ma comunque sempre trascendente) e radicalizza quella moderna (il cui riso immanente fonda la serietà che modella la struttura della realtà, la sua presa in carico se non la sua docile e acritica accettazione) scivolando "verso la banalità e la grigia quotidianità delle passioni tristi, verso la noia e il trastullo" del riso inautentico, anonimo, finto (Heidegger) dell'ultimo uomo - che "soffre così profondamente da aver dovuto inventare il riso" (Nietzsche) -, quel riso registrato e confezionato delle sit-com, quel riso delle pubblicità e del consumo. 
Un'epoca che rischia la "fine del riso" ha bisogno di ridestare il senso autentico del ridere, di quel "proprio" dell'uomo - come volevano Aristotele ("l'uomo soltanto, fra tutti gli animali, ride") e Porfirio - che è il ridere, diaframmatica e liminare piega tra la ragione e il sentimento, la mente e il corpo, l'interno e l'esterno, il sé e l'altro, che mette profondamente in crisi ogni concezione dualistica di ascendenza cartesiana. Ha bisogno di riconoscere che la drammaturgia del riso mette in atto un perturbante e socratico moto centrifugo che finisce per far riconoscere allo spettatore della scena comica di essere "decentrato rispetto a se stesso, alla sua singolarità e alla presunta stabilità delle sue convinzioni, perché il ridicolo e il comico sostituiscono alla figura della necessità la categoria del caso, dell'accidentalità e della casualità". E ridere per il gioco del caso significa perdere la propria presunta padronanza e mettersi in gioco, relativizzare la realtà mettendola in rapporto di continuità con la possibilità, con il forse potrebbe essere che guasta l'intrasformabilità del reale sostenuta dagli accademici e parlamentari agelasti ("coloro che non ridono", secondo Rabelais) e preserva la ricchezza dell'esperienza umana.
Se ormai "il riso della massa ridente è un'arma spuntata che riconosce la propria debolezza e trasforma la protesta in autoderisione e, quindi, in beffarda e amara rassegnazione", il riso autentico, comico, eversivo, invece, rende percepibile "una frattura, una soluzione di continuità, una sospensione della quotidianità e delle norme logiche" all'interno dell'esperienza della realtà, permettendo di intravedere un'altra dimensione: riconoscendo e cogliendo l'accidentalità e il caso, il riso mette in fibrillazione la realtà, ne destabilizza il significato ideologico come ciò a cui ci si deve adeguare, come ordine costituito cui obbedire, riapre invece i giochi della realtà e permette di pensare la possibilità al posto della necessità e dell'assolutismo. 
E permette di pensarlo non come problema da risolvere, bensì come "enigma che,come tutti i veri enigmi, non chiede soluzione, ma la risoluzione di esserne all'altezza e di saperlo sopportare": il sorriso e l'enigma è il binomio con cui si conclude il saggio di Tagliapietra. "Il sorriso accoglie l'enigma in sé e vi risponde nell'unico modo consentito, ossia dimostrando di esserne all'altezza", di saper sopportare la struttura paradossale della condizione dell'essere umano, la duplicità e l'ambivalenza di chi "luccica di guizzanti enigmi e risate" (Nietzsche).

domenica 10 novembre 2013

letture di novembre (I)

Chi ha dato fuoco a La biblioteca scomparsa di Alessandria? Cesare, quando per rompere l'assedio in cui era stretto diede fuoco alle navi nel porto e l'incendio divampò anche nei magazzini limitrofi e in depositi di libri? Il vescovo Teofilo, in uno di quei roghi di libri pagani che erano parte della cristianizzazione? L'emiro inviato dal califfo Omar, obbedendo all'ordine per cui se i libri della biblioteca si accordano con il libro di Allah se ne può fare a meno, mentre se sono ad esso difformi non c'è bisogno di conservarli, così che essi furono distrutti bruciandoli - e vi occorsero sei mesi - per riscaldare i bagni pubblici della città? E poi, dove era collocata in realtà questa biblioteca? Luciano Canfora conduce il lettore attraverso la storia e le testimonianze della regia biblioteca di Alessandria, con uno stile chiaro e semplice ma forse un po' carente dal punto di vista narrativo e romanzesco.

Meno brillante delle precedenti produzioni, sia per trama narrativa che per inventiva grafica, ma comunque più che gradevole, Dodici di Zerocalcare.

L'immersione nella cultura classica antica continua con due tragedie di Euripide: l'Ippolito, antisocratica tragedia in cui il ragionamento non ha efficacia quale farmaco e rimedio per gli affanni degli uomini, che possono anche sapere e conoscere il bene, ma a volte non si sforzano di farlo; lo Ione, drammone a lieto fine tutto orchestrato dall'Ambiguo dio Apollo e dai suoi responsi oracolari veri ma affatto chiari, necessariamente enigmatici messaggi e tempestosi suoni fraintendibili dall'uomo perché il dio non può apparire ad egli in tutto il suo fulgore, sarebbe pericoloso guardarlo o ascoltarlo, non è concesso ai mortali farlo.
Legata alla cultura classica è in realtà anche la lettura di Prolegomeni per una popsophia, visto che in questo breve pamphlet Umberto Curi deduce la legittimità di diritto della fattuale commistione tra filosofia e cultura popolare dalle origini stesse della filosofia, che nasce pop perché si sviluppa nella relazione vitale con i problemi presenti nella comunità, dalla vita trae alimento e alla vita costantemente ritorna; perché è affine e non opposta al mythos, al raccontare dalla risonanza emotiva e sentimentale e dall'indubbio e gratuito piacere; perché nasce (secondo Platone e Aristotele) dalla meraviglia e dallo sgomento, come risposta a un'inquietudine sentita e patita dall'uomo; perché non c'è cosa più filosofica e seria della poesia, che permette di procurarsi le prime nozioni, di imparare e di ragionare mentre, allo stesso tempo, si prova piacere.

domenica 1 aprile 2012

il cavaliere oscuro e la filosofia

Il volume Batman and Philosophy è probabilmente uno dei migliori della serie Pop Colture and Philosophy che io abbia letto, sia probabilmente per una mia personalissima predilezione per questa creazione fumettistica, sia però anche per una innegabile affinità tra il Cavaliere Oscuro e le sue storie e alcune tematiche e tonalità emotive tipicamente filosofiche.
Nella prima parte del testo gli autori si interrogano sul quesito se il Cavaliere Oscuro agisca sempre bene. Perché, ad esempio, Batman non uccide il Joker? “Lasci morire tante persone perché non ne uccidi una?”, chiedono Jason Todd e Hush a Batman. L’argomento in favore dell’uccisione del Joker sarebbe tipicamente utilitarista, ma i supereroi in genere non sono utilitaristici. Come si può essere sicuri che ucciderà ancora, e quindi che si stanno salvando delle vite? Sarebbe lecita una sorta di pre-punizione come quella narrata nelle vicende di Rapporto di minoranza da Philip K. Dick. Altre possibili questioni poste sono se sia giusto o meno formare e addestrare un Robin, se l'odio di Batman verso i cattivi possa essere definito virtuoso – egli si preoccupa che possa piacergli troppo, procurargli soddisfazione personale e gioia, anche se al contempo lo porta a sacrificare cose essenziali alla felicità della vita.
Gli interventi della seconda parte sono incentrati sul rapporto tra legge, giustizia e ordine sociale. Nell'arco narrativo di No Man's Land (Terra di nessuno) – che segue Contagio e Cataclisma , in cui la situazione sembra quella dello stato di natura descritto da Hobbes, si mette in luce come il principale nemico di Batman sia il caos, l’anarchia, come egli si presenti quale il difensore dell’ordine sociale. Egli è anche, però, il simbolo della giustizia e dell’ordine al di là dei diritti e della legge, contro il monopolio dello Stato, quale detentore dell'autorità e della legge, dell’uso legittimo della violenza: ne Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller si afferma esplicitamente che “Un uomo è sorto per mostrarci che il potere è, ed è sempre stato, nelle nostre mani. Siamo sotto assedio – Ci sta mostrando che possiamo resistere”.
Nella terza parte del volume si affrontano i temi etici che stanno alla base delle origini del crociato incappucciato. Ad esempio, la promessa che è a fondamento delle origini di Batman, la missione assunta sui cadaveri dei propri genitori, fa sì che il suo desiderio non sia semplice vendetta, che sia meno personale, e lo porta, invece, ad assumere un ruolo analogo a quello svolto dal padre come medico, il tutto per assicurare un’eredità alle vite dei suoi genitori: il Cavaliere Oscuro non prova solo a distruggere le forze malvagie di Gotham, ma anche a costruire qualcosa, e questo scopo costruttivo lo distingue da altri eroi come il Punitore o Rorschach
Nella quarta sezione, invece, la domanda è sull'identità di Batman, interrogandosi ad esempio sulla decisione consapevole da parte di Bruce Wayne di creare l’identità di Batman, nata dall'incontro tra Bruce e il pipistrello e dalla scelta di abbracciarlo, che ricorda un po' la parabola del pastore e del serpente nello Zarathustra di Nietzsche,  oppure chiedendosi se Batman avrebbe potuto essere il Joker.
La quinta parte presenta un tono esistenzialista, affrontando i temi della morte, dell'angoscia e della libertà. Viene analizzato, ad esempio, il senso di colpa per la morte dei genitori provato da Bruce. Sentito come soffocante, esso inizialmente dischiude ad un livello fondamentale dell’esistenza come colpa dell’essere, a un senso di nullità. Questa fragilità ha però il potere di trasformare la vita: la colpa si trasforma da semplice biasimo a comprensione che ognuno è colpevole perché deve prendere una posizione e dare testimonianza su chi è e come vive. Scegliendo di liberare se stesso dalla tipica risposta alla sua personale tragedia, cioè rabbia cieca e vendetta, Bruce interpreta l’evento della morte dei propri genitori come un richiamo a ribellarsi contro una vita di vittimizzazione, commiserazione e cinismo. Così facendo Bruce redime una tragedia senza senso affrontando l’insensatezza della violenza in sé, così la colpa che inizialmente lo aveva condannato diventa un richiamo ad essere se stessi, e così Batman diventa l’autentica coscienza di Bruce, accettando che essere è essere ansiosi su chi si è.
Nella sesta ed ultima parte, infine, il tema è quello dei molti ruoli dell'Uomo Pipistrello. Si affronta il tema della natura dell'amicizia analizzando il rapporto tra il Cavaliere Oscuro e Superman. Superman e Batman sono amici, ma danno all’amicizia l’un per l’altro un diverso significato, poiché il primo ne ha un concetto che sembrerebbe ripreso da Aristotele (amicizia come rapporto tra due eguali, tra due uomini buoni che si amano puramente e semplicemente per quello che sono, per i rispettivi caratteri, spingendosi a migliorarsi  senza false adulazioni: se venisse il momento, Superman sa che Batman sarebbe l’unico ad usare volontariamente l’anello di kryptonite contro di lui, e questo anello è allora una testimonianza di questo aspetto dell’amicizia, che serve a mantenere Superman buono), mentre il secondo una visione più simile a quella nietzschiana fondata sul rispetto dovuto a un rivale, e considerando Superman un suo pari ma in quanto a potenza, ammirando in lui un monumento vivente di ciò che l’uomo potrebbe essere, ma a cui deve insegnare (e la lotta è il terreno migliore) a non credere alla propria invulnerabilità, a non essere arrogante, impartendogli la lezione imparata dall’assassino dei suoi genitori.

giovedì 16 febbraio 2012

la spinta morale di marge

Marge risulta la più stabile pietra di paragone della moralità. Per risolvere i suoi dilemmi morali, Marge lascia semplicemente che la ragione guidi la sua condotta verso un calibrato e ammirevole bilanciamento tra gli estremi. Aristotele descrive le virtù come giusto mezzo tra due estremi viziosi, uno per eccesso e uno per difetto, e Marge è una persona genuinamente coraggiosa, non una temeraria; per quanto riguarda la temperanza tende a essere più spartana che indulgente eppure non è spilorcia ma generosa tanto quanto la condizione finanziaria instabile della sua famiglia glielo permette; non è opprimente ma non è neanche permissiva. Marge è moderata in tutto ciò che fa: proprio come Aristotele comprende l’importanza del giusto mezzo per una vita virtuosa e agisce scegliendo un bilanciamento tra gli estremi viziosi.
Nonostante la virtù sia sfuggente, Aristotele crede che per chi la trova la ricompensa sia molto alta. Come afferma all’inizio dell’Etica Nicomachea, il fine ultimo della vita umana è la felicità (eudaimonia, distinta dal piacere) e Aristotele afferma che le virtù sono desiderabili perché promuovono la felicità a lungo termine di coloro che le possiedono. Non va frainteso come un mero appello ai propri bisogni egoistici, perché l’uomo è un animale sociale e la sua felicità a lungo termine dipende in gran parte dalla famiglia e dagli amici. Non possiamo raggiungere l’eudaimonia senza l’aiuto degli altri e quindi molte virtù hanno valore proprio perché ci aiutano a coltivare legami profondi con parenti e amici, legami che sono indispensabili per vivere bene. La felicità di Marge ne è un esempio. Ciò che conta di più per lei è il benessere di suo marito e dei suoi figli. È quindi attraverso la felicità della sua famiglia che Marge raggiunge la propria eudaimonia. Vivendo la sua vita secondo le virtù aristoteliche, Marge crea relazioni sociali forti che la rendono profondamente felice.
Secondo Aristotele «è evidente che nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura». Tuttavia abbiamo un’abilità naturale nell’acquisire la virtù attraverso l’abitudine: «Compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate, diventiamo moderati, facendo cose coraggiose, coraggiosi». Le persone virtuose possono quindi rappresentare importanti modelli per il nostro sviluppo morale. Anche Marge sa quanto è importante il suo modello per lo sviluppo morale di Lisa e quello più lento e più disordinato di Bart.
Marge segue la ricetta aristotelica della felicità e della vita morale, e con grande successo. Il bene che cerca di fare quando prende le decisioni è il bene della sua famiglia e quindi il suo. Non si può negare che Marge sia dotata di virtù e neanche che da queste le derivi la felicità. A Marge piace essere coraggiosa, onesta e temperante perché queste qualità l’aiutano ad aiutare la sua famiglia. La sua felicità giustifica la sua vita di virtù aristotelica.

(da Gerald J. Erion e Joseph A. Zeccardi, La spinta morale di Marge, in I Simpson e la filosofia)


mercoledì 15 febbraio 2012

homer e aristotele

Aristotele ci ha fornito una categorizzazione logica di quattro tipi di carattere. Abbiamo il virtuoso, il continente, l’incontinente e il vizioso.
Se Lisa è virtuosa, i suoi desideri andranno di pari passo con la sua giusta decisione e la sua giusta azione. Lenny, che è continente, è capace di dare seguito con l’azione alla sua decisione, ma lo fa andando contro i suoi desideri. L’incontinente è capace di formulare la decisione corretta su cosa fare, ma la sua volontà è debole: Bart soccombe al proprio desiderio e non agisce in modo adeguato. Per quanto riguarda il vizioso, non abbiamo invece né lotta contro i propri desideri né debolezza di volontà, perché la decisione del vizioso è moralmente sbagliata e i suoi desideri l’assecondano pienamente: Nelson è vizioso.
La ragione gioca un ruolo cruciale. Il virtuoso non può essere stupido o ingenuo. Deve possedere capacità di ragionare criticamente che gli permettano di distinguere le differenze nelle situazioni e quindi di essere capace di reagire di conseguenza. Sul ruolo della ragione pratica (phronesis) Aristotele insiste molto: se uno fosse virtuoso per istinto, non possiederebbe la virtù “propriamente detta” ma al massimo la virtù “naturale”. Secondo Aristotele «occorre che chi compie [le azioni] lo faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè innanzitutto che siano compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di esse stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile» (Etica Nicomachea, 1105a30-1105b). L’agente deve sapere che la sua azione è virtuosa, deve agire volontariamente e deve farlo perché l’azione è virtuosa.
Homer rispetto ai suoi appetiti corporei non solo non è virtuoso, ma è decisamente vizioso. È anche un bugiardo patentato. È inoltre insensibile ai bisogni e alle pretese degli altri. Anche le sue abilità di padre e marito lasciano molto a desiderare. Inoltre gli manca la sola virtù intellettuale necessaria a un carattere etico, ovvero la phronesis, la saggezza pratica, la facoltà di muoversi nel mondo con intelligenza, con moralità e con una meta in vista. A Homer sembrano mancare persino le più minime capacità di inferenza, ha capacità di ragionamento minime. Non dobbiamo tuttavia essere troppo duri con Homer, perché qualche volta agisce in modo ammirevole: si dimostra affettuoso e amorevole, in certe occasioni mostra anche del coraggio e dà prova di gentilezza. In alcuni momenti sembra persino rendersi conto dei propri limiti.
Cosa dobbiamo pensare di tutto questo? Non è un modello di virtù, ma certamente non è malevolo. La reazione più dura che abbiamo nei suoi confronti è di pietà. L’educazione, la famiglia, il gene dei Simpson, c’è ben poco che Homer possa fare per migliorarsi. Non ha la stabilità di carattere che contraddistingue il virtuoso: infatti, anche se a volte Homer agisce in modo corretto, le ragioni per cui lo fa in genere sono sballate, o quanto meno ambigue (dobbiamo anche ricordare che in molti casi in cui Homer fa la cosa giusta, deve combattere contro i suoi desideri di fare altrimenti, e che a volte, nonostante sappia cosa dovrebbe essere fatto, sceglie di fare la cosa sbagliata, esibendo debolezza di volontà).
Homer non è virtuoso. Quando si va sul cibo e le bevande cade apertamente nel vizio e nelle altre sfere dell’azione umana ondeggia sempre tra continenza e incontinenza.
La qualità di Homer è la sua “umanità a tutto tondo”, che comprende l’amore per la vita e per il godimento della stessa, nei suoi elementi di base, senza dare troppo peso, se non nessuno, a ciò che pensa la gente, la mancanza di malvagità nel suo comportamento da bambino, l’essere aperto, onesto, persino brutale su chi lui è, cosa vuole e cosa pensa degli altri. Homer ha un tratto degno di ammirazione perché nonostante i suoi mezzi finanziari ed economici modesti, nonostante viva in una città come Springfield, riesce a conservare il suo amore per la vita.

(da Raja Halwani, Homer e Aristotele, in I Simpson e la filosofia)



giovedì 21 aprile 2011

il coraggio dell'atto etico (2di2): un altro genere di coraggio

L’atto etico espone dunque – in quanto atto di rottura radicale – il soggetto al rischio della morte simbolica e/o reale. Slavoj Žižek in alcune pagine de Il soggetto scabroso, commentando Lacan, lega atto etico e pulsione di morte, in quanto l’atto etico non si produce secondo le regole dell’orizzonte socio-simbolico dato, ma è il rischio di un gesto che rompe con il grande Altro, che si priva della sua assicurazione rischiando, così, la morte simbolica e/o reale: «Lacan ha riconcettualizzato la pulsione di morte freudiana come forma elementare dell’atto etico. Per Lacan, non c’è atto etico vero e proprio senza il rischio di questa momentanea “sospensione del grande Altro”, della rete socio simbolica che garantisce l’identità del soggetto: si assiste a un atto autentico solo quando il soggetto rischia un gesto che non è più “coperto” dal grande Altro». Ecco la differenza, sostenuta nella saga di Harry Potter, tra ciò che è giusto e ciò che è facile. Ma l’esposizione a questo limite del dover morire come elemento essenziale dell’atto etico non ha nulla dello sprezzo della morte o del pericolo, è un’esposizione angosciata ma risoluta che è cura della morte che alimenta la vita etica come pratica della libertà: «La morte, improvvisa e definitiva, era con loro come una presenza» (Harry Potter e i doni della morte).
Nel dialogo tra Harry e il ministro della magia al termine del funerale di Silente,  Harry ribatte che Silente «avrà veramente lasciato la scuola solo quando non ci sarà più nessuno che gli sia fedele» (Harry Potter e il principe mezzosangue). È il legame tra giustizia e fedeltà allo spettro dell’altro scomparso, a coloro che non sono più presenti viventi, di cui ha parlato Jacques Derrida: «Non c’è rispetto e quindi giustizia possibile, senza questo rapporto di fedeltà o di promessa, in un certo modo, con quello che non è più vivente. Non ci sarebbe esigenza di giustizia né responsabilità senza questo giuramento spettrale» (Ecografie della televisione).
Voldemort, disposto a tutto pur di salvarsi la vita – anche a uccidere e frantumare la propria anima –, non sa accettare di dover morire, per questo non è capace di atti etici ma solo di calcoli per salvare la propria vita: «L’incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l’ordine della fenice) gli dice Silente. Questa incapacità ha sempre impedito a Voldemort di accedere, nel corso della sua vita, alla vita stessa nel suo valore. La vita, infatti, come ha scritto Derrida, non vale niente se non vale più della vita, più del semplice fatto biologico di vivere. Il limite dell’enorme potere di Voldemort consiste nel non avere la forza per accedere a quella libertà appassionata ed effettiva che Heidegger chiamava, in Essere e tempo, “libertà per la morte”. Cosa che invece sa fare Harry: «Tu sei il vero padrone della morte» – dice Silente a Harry – «perché il vero padrone non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della morte).
Il coraggio evocato da Silente è quello di esporsi e rendersi vulnerabili alla morte, o come dice Aristotele al «dolore distruttivo, letale»: «E dunque si crede, in sostanza, che sia proprio del coraggio avere un certo atteggiamento relativamente alla morte e al dolore che le si accompagna» (Etica Eudemia). Il coraggio non esclude, semplicemente, la paura che fa tremare il corpo: il coraggioso, certo, non è un vile, ma non è nemmeno il temerario. Harry, nel momento di andare incontro alla propria fine, «non riusciva più a controllare il proprio tremito. Non era poi tanto facile morire. Pensò che non sarebbe riuscito a continuare e nello stesso momento seppe che doveva» (Harry Potter e i doni della morte). Ecco l’atto etico nella sua forma più pura: incondizionata esposizione all’evento della morte, la forza di una certa debolezza come forza di rendersi vulnerabili alla morte.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

mercoledì 13 aprile 2011

aristotele e gli amici del cavaliere oscuro

Nell’Etica Nicomachea Aristotele fa un’affermazione che è stata utilizzata da Jeph Loeb nella sua saga di Batman intitolata Hush: «Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche avesse qualunque altro bene». Bruce Wayne è un miliardario la cui vita è assolutamente piena di beni materiali. Ma anche lui ha bisogno di qualcos’altro.
Il concetto greco di amicizia è un po’ più vasto della categoria relazionale cui si fa adesso riferimento con quel termine. Aristotele sostiene che esistono tre differenti tipi di amicizia. Un’amicizia di utilità, in cui per entrambe le parti in causa deriva un beneficio pratico dalla relazione, che è stretta proprio per quel beneficio. Un’amicizia di piacere, fondata su un mutuo godimento tratto dalla compagnia l’un dell’altro. Un’amicizia perfetta o completa, un’amicizia di virtù, stretta tra persone veramente virtuose, unite da ciò che è bene e che sono tra loro dei pari, senza interessi egoistici e con, invece, l’altruismo che fa volere di donare all’altro e vederlo fiorire: «Un anima in due corpi».
Il rapporto tra Batman e Robin contiene evidentemente degli aspetti di un’amicizia di utilità e piacere, ma manca di una certa egualità o bilanciata reciprocità: infatti, Robin decide di assumere una nuova identità come Nightwing e lasciare sia Batman sia Gotham City. Così può nascere una nuova forma di amicizia fra pari, o quasi pari, basata primariamente sul piacere e volta nella direzione di un’amicizia completa – pur se non sembra mai arrivare alle altezze di un tale livello. Il rapporto tra Harvey Dent e Batman si sviluppa come un’amicizia di utilità, prima che un tragico evento mandi le cose in tutt’altra direzione. Anche il rapporto col tenente di polizia James Gordon è un esempio di amicizia di utilità. Mentre il rapporto con Catwoman è chiaramente un’amicizia di piacere. Con Alfred è forse il forte senso di missione provato da entrambi ad impedire alla loro amicizia di essere del più alto livello: Alfred è devoto nel suo essere il maggiordomo, e Bruce sarà quindi sempre il signore, così che l’egualità non potrà mai essere raggiunta.
Tutti questi sono amici di Batman, ma qualcuno riesce a soddisfare i requisiti per la più elevata forma di amicizia? Nel diventare Batman, Bruce Wayne ha sacrificato alcune cose, una delle quali è la possibilità di donarsi interamente a un’altra persona. Aristotele ha detto che gli uomini buoni, in un certo senso, sono amici a se stessi. Se c’è una specie di amicizia perfetta disponibile per Bruce, o Batman, è forse questa, la solitudine della relazione con se stesso. Non un’anima in due corpi, ma un’anima in due identità.

(da Matt Morris, Batman and friends: Aristotle and the Dark Knight's inner circle, in Superheroes and philosophy)


giovedì 7 aprile 2011

dio, il diavolo e matt murdock

Non ci sono molti riferimenti a Dio nelle principali storie di supereroi. Una delle poche eccezioni a ciò è rappresentata dalla vita e la fede di Matt Murdock, almeno per come è stato rappresentato negli anni in alcune delle più importanti storie di Daredevil. Ci sono abbastanza indizi nella classica storia delle origini di Devil concepita da Frank Miller e negli interessanti sviluppi della sua vita come giustiziere mascherato portati avanti soprattutto da Kevin Smith.
La fede di Devil  sembra riflettere la sensibilità di un uomo cresciuto in una famiglia almeno nominalmente religiosa, se non di fede genuina, piuttosto che manifestare l’articolata e ferma prospettiva di un uomo adulto convertito ad una visione del mondo religiosa. La fede è una parte profonda e spesso inconfessata del suo assetto mentale, che sembra influenzare le sue credenze, i suoi atteggiamenti e le sue azioni in modo sottile, piuttosto che costituire una parte del suo pensiero cosciente e lucido. Qual è la relazione tra una vita di fede religiosa e il senso della missione di un giustiziere mascherato? È il cattolicesimo di Devil una fonte di forza interiore e una guida, o è piuttosto una causa di debolezza e confusione? La fede religiosa acceca Devil sugli aspetti più duri del mondo, o può essere come un radar che gli consenta di distinguere realtà che altrimenti gli sfuggirebbero? Bisogna distinguere attentamente tra la religiosità come forma esteriore di comportamento e schema di pensiero basati su nient’altro che abitudini e superstizioni, e un’autentica fede come profondo impegno e disposizione dello spirito.
La fede non è solo l’inginocchiarsi di persone timorose, una gruccia e difesa contro un mondo terrificante. Alcuni dei più grandi ed estremi esempi di impavido eroismo riguardano persone con una forte fede religiosa. Un uomo senza paura – come è per definizione Devil – è, forse, un uomo dalla forte fede. Bisogna fare un’importante distinzione: Devil sembra non avere “paura di” – quel senso di terrore che comprende il pensiero di venir danneggiato, quella potente emozione che può spengere il pensiero e bloccare l’azione, paralizzare –, ma sperimentare solo la “paura che”, possibile movente di azioni coraggiose e decisive.
Aristotele credeva che ogni virtù fosse un giusto mezzo tra due vizi, così che il vero coraggio starebbe tra la codardia e la spericolatezza, la precipitazione, non sarebbe l’assenza di paura ma l’abilità di agire a sostegno di grandi valori a dispetto di ogni paura che si può provare. Un uomo senza paura non è semplicemente un uomo cieco ai rischi e quindi incline ad azzardi autodistruttivi. C’è una scena interessante nella graphic novel di Frank Miller Daredevil: The Man without Fear che pone proprio questa questione. Dopo una folle corsa in macchina in cui la giovane e selvaggia Elektra coinvolge Matt, i due stanno sul bordo di una scogliera ed Elektra dice: «Qui è dove apparteniamo. Sempre sul bordo. Gli altri conducono vite sicure e intorpidite. Ma tu – quando ti ho visto sul tetto, l’ho capito – sei come me. teso fino al limite – e oltre». Ha ragione Elektra? Devil è proprio come lei? È il suo essere senza paura necessariamente la fonte di azioni irrazionali, irresponsabili e autodistruttive, oltre il limite? Sembra piuttosto che la prudenza, la razionalità pratica, gli permettano sempre perfettamente di sapere dove tracciare una linea di confine. La fede religiosa garantisce a Devil una buona guida nell’ambito dei valori, una buona visione nel mondo dei fatti, e una fonte sia di incoraggiamento sia di limitazione nel tentativo di sostenere la giustizia: è, dunque, una forma di forza spirituale.
Questa fede, che fa a Devil da rete di sicurezza, proviene dalla madre, come mostra la sua preghiera nella storia di Miller Born Again: «La febbre cresce in lui. Nessuna forza terrena può fermarla. Ha perso troppo sangue. Il suo corpo non può combattere. Morirà. Ma ha così tanto da fare, mio Signore. La sua anima è tormentata. Ma è l’anima di un uomo buono, mio Signore. Ha solo bisogna che gli venga mostrata la Tua via. Dopo si ergerà tuo e porterà luce a questa città avvelenata. Sarà una lancia di luce nelle tue mani, mio Signore». La fede spirituale di Maggie è la forza dietro ciò che nella storia è considerata la rinascita fisica di Matt. Ed è essenzialmente anche dietro il suo impulso spirituale. In The Devil’s Distaff di Kevin Smith, la madre racconta a Matt una storia simile alla scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio, suggerendo che, in base a ciò che guadagneremmo e perderemmo credendo o meno, sarebbe molto peggio vivere come se Dio non esistesse per poi scoprire di essersi sbagliati. Quando Matt comprende il ragionamento filosofico contenuto in questa semplice favola della madre, è commosso e in qualche modo placato nel suo spirito precedentemente tormentato e dubbioso. Matt sembra riconoscere la grandezza e la miseria dell’uomo di cui scriveva Pascal, il suo essere grande come Dio e insieme incredibilmente piccolo e deludente. Gli estremi di bene e male che sono avviluppati nel comportamento umano sono incredibili. Matt sembra sentire che l’uomo è creato per essere qualcosa di più che una vittima o un carnefice in Hell’s Kitchen. Facendo eco alle meditazioni di Pascal nella storia Guardian Devil, Matt parla nel suo cuore con Dio dicendo: «Ogni notte, metti su uno spettacolo immortale per me… mi mostri la disparità tra la magnificenza dell’uomo e le sue azioni, eoni di evoluzione, e noi ancora ricerchiamo gli angoli più bui per i nostri impulsi più bassi. Quanto deve essere deludente per Te vederci al nostro peggio… se anche esisti».
Nel numero #169 di Daredevil (Devils, scritto da Miller), un detective arriva a suggerire a Devil che avrebbe dovuto uccidere o lasciar morire il suo arcinemico Bullseye. Devil replica: «Uomini come Bullseye governerebbero il mondo se non fosse per una struttura di leggi create dalla società per tenerli sotto controllo. Nel momento in cui un uomo prende la vita di un altro nelle proprie mani, questi sta rifiutando la legge e lavorando per distruggere questa struttura. Se Bullseye è una minaccia per la società, è la società che deve fargliene pagare il prezzo, non tu. E non io. Io lo voglio morto. Detesto ciò che fa, ciò che è. Ma non sono Dio, non sono la legge, e non sono un assassino». Devil dimostra una vera fede spirituale e abbastanza onestà da ammettere i propri dubbi, ma anche abbastanza perseveranza da non permettere a questi dubbi di avere il sopravvento nella sua vita.

(da Tom Morris, God, the Devil, and Matt Murdock, in Superheroes and philosophy)

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