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venerdì 7 gennaio 2022

l'istante e la libertà [2]

A partire dal terzo capitolo, il testo della Bespaloff diviene, come del resto recita il sottotitolo, un saggio su Montaigne, su quell'autore che, rispetto alla scelta agostiniana di rifiutare se stessi per scegliere Dio, preferisce scegliere se stesso. Nulla di luciferino né di faustiano, però, in questa conversione al terreno: l’umanesimo critico di Montaigne non smette mai di biasimare l’orgoglio, di spogliare l’uomo della sua effimera regalità e lo lascia, sul gradino più basso, solamente con la soddisfazione virile di vederci chiaro, o piuttosto di sapere che non ci vedrà mai del tutto chiaro.

Montaigne si impegna a formare l'uomo aiutandolo a risolvere il problema che egli stesso si pone: come convertire all’autentico? La prima parte del compito di tale conversione consiste nell’utilizzare la negazione socratica per smuovere la tirannia dell’abitudine, il dispotismo delle idee preconcette, per dissolvere nella relatività del divenire i concetti e i dogmi che separano l’uomo dal reale. È necessario dissipare nell’uomo ogni apparenza di stabilità, togliergli tutti gli appoggi, distruggere fino alle fondamenta la sua sicurezza.

Non abbiamo alcuna comunicazione con l’essere, poiché ogni natura umana è sempre a metà fra il nascere e il morire, non percependo di sé che un’oscura apparenza e ombra, e un’idea malcerta e fragile. E se, per caso, vi ficcate in testa di voler capire il vostro proprio essere, sarà né più né meno che se uno volesse acchiappare l’acqua: poiché quanto più afferrerà e stringerà ciò che per sua natura scorre dappertutto, tanto più perderà ciò che voleva prendere e stringere in pugno (Saggi, II, 12).

Con questo Montaigne vuole esercitare lo spirito a cogliere il moto, a sopportare l’insicurezza del divenire; vuol far disperare la ragione, per costringerla a conoscere i suoi limiti. Allora, però, può iniziare la seconda parte di questo compito, perché accorgersi di questa situazione è già un sottrarvisi. Dopo aver dissolto l’essere nel divenire, dopo essersi sciolto e aver mollato la presa, si tratta adesso di rimettersi insieme, riprendersi, cioè costruirsi in seno al divenire.

Guardate dentro di voi, riconoscetevi, restate in voi: la vostra intelligenza e la vostra volontà, che si sperpera altrove, riportatela a se stessa; voi scorrete via, vi disperdete: rimettetevi insieme, puntellatevi; vi stanno tradendo, vi stanno disperdendo, vi stanno derubando di voi stessi (III, 9).

Montaigne ci restituisce il gusto di una libertà guarita dalla presunzione, di una libertà che si muove tra due poli: da un lato, l’obbedienza e l’accettazione dell’ignoranza; dall’altro, la fedeltà all’istante, alla verità soggettiva, che implica il dubbio, l’autocritica, l’incertezza, la dialettica delle contraddizioni.


In questo Montaigne non ha torto di richiamarsi a Socrate: la sua è una saggezza in fase di apprendimento, fino alla morte. E tale saggezza ha origine e fine nell’esperienza del presente autentico che la Bespaloff chiama istante, per sottolineare che il punto di arrivo è identico al punto di partenza, che non c'è promessa di sicurezza né stabilità, che non c'è alcuna giustificazione o redenzione finale. Limitatezza, per Montaigne, non è sinonimo di fallimento, né il fallimento, del resto, sinonimo di assurdo.


Montaigne ha dimostrato abbastanza chiaramente che è scrivendo che si rafforza e si forma. 

Non ho fatto il mio libro più di quanto il mio libro abbia fatto me; libro consustanziale al suo autore (II, 18).
È un’impresa spinosa, più di quanto sembri, seguire un incedere vagabondo come quello del nostro spirito; penetrare le profondità opache dei suoi meandri interni; scegliere e fissare tanti minimi aspetti dei suoi turbamenti (II, 6).

Questa impresa non è solo l’esplorazione, bensì ciò che l’opera fa dell’esploratore che si osserva e si sorprende. L’io dell’opera comincia a esistere solo nel momento in cui l'autore gli dà corpo fissando nella scrittura le agitazioni, le contraddizioni della soggettività sfuggente.

Non c’è descrizione difficile quanto la descrizione di se stessi, né certo altrettanto utile. Bisogna bene pettinarsi, bisogna bene mettersi in ordine e rassettarsi per presentarsi in pubblico. Ebbene io mi faccio bello continuamente, perché mi descrivo continuamente (II, 6).

Riconoscendo l’impossibilità di descriversi senza farsi belli, di comunicarsi senza trasformarsi, Montaigne non sostituisce un essere fittizio a un essere reale, ma al contrario, ciò implica che solo attraverso la voce e l’intervento stilistico è possibile la vittoria dell’io autentico sull’io in via di disgregazione perpetua. Perché l'io autentico possa apparire, è necessario allentare il legame tirannico che assoggetta l’individuo al momento, alla mentalità, alla moda esterna. La risposta definitiva della saggezza di Montaigne è la grazia, come libertà conquistata, come frutto di un allenamento paziente come quello del ballerino, e a volte rigido come quello dell’asceta. Montaigne insegna modestamente a non trasformare la vita in un inferno. Ed è già molto difficile.

lunedì 3 gennaio 2022

l'istante e la libertà

Uno degli ultimi libri letti nel 2021 è stato l'ultimo lascito scritto, il progetto incompiuto e pubblicato postumo (nel 1950), di Rachel Bespaloff, autrice nota soprattutto per uno splendido saggio sull'Iliade.
In L'istante e la libertà la Bespaloff giustappone le descrizioni che dell'istante fanno Agostino (Confessioni), Montaigne (Saggi) e Rousseau (Fantasticherie del passeggiatore solitario), così da rivelarci le somiglianze e le divergenze tra questi tre poeti della soggettività e dell'istante, tre filosofi che partono dall'individuo che sono in prima persona, dalla loro propria vicenda in una svolta decisiva della storia, e che presentano l'istante quale dimensione temporale di pienezza, pace, possesso di sé in un presente autentico.
Se Agostino nella conversione si strappa da un mondo che ha nutrito, se non colmato, la sua brama appassionata, e attraverso un reale sacrificio, una lotta all'ultimo sangue, scambia i piaceri con la felicità e il rientro in sé; per Montaigne, invece, rientrare in se stessi non vuol dire lasciare il mondo quanto, piuttosto, riscoprirlo e farlo proprio mediante l'intelligenza e i sensi, non vuol dire la sottomissione dell'io ma la sua educazione attraverso il dubbio e il tempo. La grazia, nel filosofo francese, è quella della creatura padrona di se stessa. 
Montaigne fa proprio l'ideale di bellezza in cui la perfezione promette il piacere, quale le arti, la poesia e la cultura del suo tempo fanno a gara a celebrare, ma vi aggiunge ciò che gli impedisce di diventare una menzogna: la prova del tempo; la vecchiaia, la malattia, la singolarità dei destini individuali, la crudeltà, la morte.

E con Rousseau ascoltiamo tutt'altra voce, quella di un essere senza rifugio, che la realtà oltraggia, che si allontana dal mondo che vorrebbe rifare, che trova l'estasi dell'istante né attraverso la grazia divina né attraverso uno sforzo di attenzioni ma per un concorso di circostanze favorevoli che porta al puro sollievo della consapevolezza di esistere e della felicità di essere.
Abbiamo, così, il pellegrino e la bellezza sacra, l'esploratore e la bellezza umana, l'esiliato e la bellezza magica. Abbiamo, tuttavia, anche il fondo comune di un senso dell'esistere come modo privilegiato di svelamento dell'essere attraverso la conoscenza di sé che sorge nel rapimento di una pienezza che mette in gioco una libertà indipendente dal fare, unicamente legata all'evidenza interiore dell'essere e del nulla - senso dell'esistere che, all'opposto può affiorare anche nell'angoscia dell'intuizione della finitezza come nella ennui di Pascal, nello spleen di Baudelaire, nella nausée di Sartre.

mercoledì 21 ottobre 2020

filosofia come allenamento

La palestra di Platone è l'ultimo, straordinario testo del filosofo Simone Regazzoni.
La philosofia, amore per il sapere, è anche se non soprattutto philoponia, amore per la fatica, è essere disposti a faticare per cambiare se stessi, per elevarsi.
Ma non essendo l'uomo una mente disincarnata, puro pensiero, res cogitans separata dal proprio corpo vivente, la filosofia non può permettersi di assumere una postura asservita al dominio della sola parola e della razionalità, deve invece ripensarsi come cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita che coinvolge il plesso di mente-e-corpo, come invito ad abbandonare la propria dipendenza da uno stile di vita comodo e cogliere invece l'occasione per allenarsi come un dio (Sloterdijk).
Così è la filosofia in origine, con Platone, filosofo lottatore che pensa nei luoghi in cui si lotta, pensa il proprio discorso nei termini propri della lotta e quando articola in chiave politica la propria filosofia pone l'allenamento in palestra e la lotta come elementi fondamentali per la formazione di maestri e allievi.
Così può e deve tornare a essere, considerando il corpo vivente come spazio di lotta, potenza, benessere, conflitto, pensiero, elevazione, auto-creazione, gioia. La sfida è atletica, estetica, cognitiva, etica e politica insieme, e consiste nella cura di sé (Foucault) come allenamento e combattimento permanente, al fine di essere in grado di fronteggiare, con coraggio, gli eventi, di accedere a un'altra intensità di esistenza (Badiou).
Certo non c'è nessun combattimento senza aggressività e senza il rischio di fare o di farsi male, ma è proprio questo male che si impara a maneggiare, gestire, contenere, pensare: non c'è etica degna di questo nome, se non ci si allena all'uso della forza che ogni vivente possiede in sé, se non ci si prende cura della pulsione di morte, con la pulsione a combattere o di aggressività che ogni soggetto porta con sé. Come anche Montaigne scrive sull'educazione dei fanciulli, è necessario avvezzarli al sudore e al freddo, al vento, al sole e ai rischi affinché essi possano fare ogni cosa, e non desistano dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma per mancanza di volontà.
Attraverso la fatica, e facendo prova dell'essere-esausto, facendo prova del limite, ci si supera per divenire altro da sé: l'elevazione non è un mero potenziamento di sé, accrescimento di sé, ma un divenire in sé altro da sé, un miglioramento, perfezionamento, potenziamento vitale, un divenire-animale (Deleuze) che è accesso alla pienezza della potenza del proprio corpo vivente. Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé. Il soggetto, in questo senso, si costituisce nell'allenamento, l'allenamento è il processo attraverso cui il soggetto costituisce continuamente se stesso al di là di sé: l'allenamento è una pratica di soggettivazione continua che produce un potenziamento vitale. Si è in lotta continua con se stessi per andare al di là di sé. Attraverso allenamento e ripetizione si arriva allo stile, forma incarnata e adatta alla propria singolarità, forma della propria forza e della propria vita, elevazione, intensità, godimento, gioia.
Questo body-building con cui si costruisce il proprio corpo, è anche un lavoro sulla vita ed è contemporaneamente un brain-building, data la neuroplasticità del cervello sulla cui materialità e sui cui processi di pensiero agiscono i movimenti del nostro corpo. Allenarsi è un processo di trasformazione radicale che coinvolge la totalità dell'essere umano, è un trasformarsi, elevarsi, perfezionarsi per essere migliori rispetto a ciò che si è, è una lotta contro la vita mediocre e una tensione verso l'eccellenza.



domenica 21 settembre 2014

letture di settembre (II)

Primo ma non ultimo romanzo di Don Winslow da me letto, Il potere del cane non è solo la storia della guerra al narcotraffico ma anche lo straordinario intrecciarsi delle vite e delle vicende di personaggi indimenticabili, dai protagonisti ai comprimari: Art Keller, polizioto che ha votato la sua vita alla crociata contro il traffico di droga; la famiglia Barrera che gestisce il cartello dei narcos messicani, il vecchio boss, Tio, lo "zio", e i suoi nipoti Adan e Raul, l'argento e il piombo, la mente finanziaria e il braccio armato; la prostituta d'alto bordo Nora Hayden; Padre Parada, sacerdote cresciuto tra il popolo e teologo della liberazione; il killer per caso e nonostante tutto Sean Callan e il freddo e crudele esecutore Fabian "El Tiburon" Martinez, Lo Squalo.
"Com'è che si dice: 'Mi ammazzeranno, ma mica mi mangiano'? Non è vero: possono fare tutte e due le cose, ma ciò non significa che tu debba calarti le braghe. Non devi lasciarti mettere al tappeto, devi costringerli a farlo. Si romperanno tutte le ossa delle mani per cercare di buttarti giù, ma tu devi fargli sapere che hai lottato, devi fare in modo che si ricordino di te ogni volta che si guardano allo specchio". E non ci si può che ricordare di tutti questi individui che hanno lottato, a volte vincendo o più spesso perdendo, con la violenza, la crudeltà, il male, il dolore, la morte, la necessità, il potere del cane.
Per le abituali letture filosofiche, abbiamo il piacevole (soprattutto da leggersi in due ad alta voce, magari anche in spiaggia) Un'estate con Montaigne, che raccoglie gli interessanti "tagli" scelti e commentati da Antoine Compagnon per una trasmissione radiofonica sui Saggi del filosofo francese; e la raccolta di scritti e interventi di politica e impegno civili di Michel Foucault che coprono il periodo 1975-84, riuniti nel volume La strategia dell'accerchiamento.

sabato 10 agosto 2013

questa è libertà

Nei Discorsi del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau è riscontrabile una formidabile quantità e frequenza di riferimenti al valore e all'esemplarità dell'antica Sparta. L'educazione degli Spartani - che anche secondo Montaigne allevano i fanciulli "come se a questa generosa giovinezza, sdegnosa di ogni altro giogo, si dovessero fornire, invece dei nostri maestri di scienza, solo maestri di valore, prudenza e giustizia" (Saggi) - viene esaltata come la migliore possibile, istituita secondo il principio per cui è preferibile che i ragazzi "imparino quello che debbono fare quando saranno uomini, e non ciò che devono dimenticare" (Discorso sulle scienze e sulle arti). 
La legge della città greca sui figli dei propri cittadini "rende forti e robusti quelli che son bene costituiti, e fa perir tutti gli altri", e se ciò sembra disumano o crudele, ci si può chiedere se sia preferibile quella diversa delle nostre società, "in cui lo Stato, rendendo i figli di peso ai padri, li uccide indistintamente prima della nascita" (Discorso sull'origine della disuguaglianza fra gli uomini).
Sempre in questo secondo Discorso, l'ennesimo riferimento al mito di Sparta introduce questo passo che esalta una selvaggia libertà contro una raffinata e calma civiltà.

"Come un corsiero indomito arruffa il crine, batte la terra col piede e si dibatte impetuosamente al sol avvicinarsi del morso, mentre un cavallo domato soffre paziente lo scudiscio e lo sprone, così l'uomo barbaro non piega la testa al giogo, che l'uomo incivilito porta senza mormorare, e preferisce la più tempestosa libertà a una soggezione tranquilla. Non dunque dall'avvilimento dei popoli asserviti si devon giudicare le disposizioni naturali dell'uomo per o contro la schiavitù, ma dai prodigi che fan tutti i popoli liberi per garantirsi dall'oppressione. Io so che i primi non fanno che vantar di continuo la pace e la quiete di cui godono in catene, e che miserrimam servitutem pacem appellant [chiamano pace una infelicissima schiavitù, Tacito, Historiae]; ma quando veggo gli altri sacrificar piaceri, quiete, ricchezza, potenza e la stessa vita alla conservazione di quel solo bene, così disprezzato da quelli che l'han perduto; quando veggo animali, nati liberi e aborrenti la prigionia, rompersi la testa contro le sbarre della loro prigione; quando veggo moltitudini di selvaggi tutti nudi disprezzar le voluttà europee e sfidar fame, fuoco, ferro e morte, per non conservare che la loro indipendenza, io sento che non spetta agli schiavi di ragionar di libertà".



A illustrare il tutto, tavole tratte dalla graphic novel di Frank Miller 300.

sabato 24 settembre 2011

io sono un gatto

Discutendo di nuovo, come ogni anno, della critica mossa da Montaigne nei suoi Saggi alla visione presuntuosa e arrogante di un uomo che è «la piú disgraziata e la piú fragile di tutte le creature e tuttavia la piú orgogliosa», che «s'immagina di porsi al di sopra della sfera lunare e di poter mettere il cielo sotto i suoi piedi» e che «per la vanità di questa stessa immaginazione si eguaglia a Dio, si attribuisce le possibilità divine, attribuisce a se stesso ogni privilegio e si separa dalla massa delle creature», e quindi ricordando di come il filosofo francese avesse fatto l'esempio della sua gatta per spiegare tutto ciò – «quando gioco con la mia gatta chissà se essa mi prende come suo passatempo cosí come faccio io per essa?» –, questa volta la mente va alla letteratura giapponese e allo splendido incipit del romanzo Io sono un gatto di Natsume Soseki.

"Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l'ho. Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo disperatamente in un posto umido e oscuro. È lì che per la prima volta ho visto un essere umano. Si trattava di uno di quegli studenti che vivono a pensione presso un professore - mi hanno poi detto - e che fra tutti gli uomini sono la specie più perversa. Si racconta che costoro ogni tanto acchiappino uno di noi, lo mettano in pentola e se lo mangino. Però in quel momento, non sapendolo, non ebbi paura. Provai soltanto un senso di vertigine quando lo studente mi mise sul palmo della mano e di colpo mi sollevò per aria. Appena ritrovai una certa stabilità lo guardai in faccia, era il primo individuo appartenente alla specie umana che vedevo in vita mia. Che creatura curiosa, pensai, e quest'impressione di stranezza la conservo tuttora. Tanto per cominciare il viso, invece di essere coperto di peli, era liscio come una teiera. In nessuno degli innumerevoli gatti che ho conosciuto in seguito ho mai riscontrato una tale deformità. Come se non bastasse, nel bel mezzo della faccia aveva una protuberanza esagerata. Con due buchi dai quali ogni tanto uscivano sbuffi di fumo. Mi sentii soffocare, stavo per svenire. Solo di recente ho saputo che era tabacco, una cosa che agli uomini piace fumare".

In alcune delle sue osservazioni attente e distaccate sullo strano genere umano, poi, questo gatto sostiene che evidentemente, in origine, la natura avrebbe creato gli uomini e li avrebbe messi in questo mondo tutti uguali, come dimostrerebbe il fatto che ognuno di essi nasce completamente nudo. E "se fosse nella loro natura contentarsi dell’uguaglianza, dovrebbero essere soddisfatti di crescere e invecchiare nudi. Ma un giorno uno di questi uomini nudi probabilmente si è detto: visto che siamo tutti uguali, qual è l’utilità dello studio? Che risultato danno lo sforzo e la fatica? In qualche modo vorrei distinguermi dalla massa, vorrei essere unico e inconfondibile. Dovrei indossare qualcosa che stupisca tutti. Dopo aver riflettuto una decina d’anni per trovare quel che faceva al caso suo, il nostro uomo inventò finalmente delle corte braghe, se le infilò immediatamente e se ne andò in giro pavoneggiandosi e cercando di intimidire la gente".

martedì 21 giugno 2011

occhi di gatto

«Agli occhi del gatto tutto è del gatto» è un proverbio inglese che mi ha inconsapevolmente citato una studentessa l'anno scorso mentre la interrogavo sull'immagine dell'uomo nel periodo umanistico/rinascimentale. 
Discutendo della critica mossa da Montaigne nei suoi Saggi alla visione presuntuosa e arrogante di un uomo che è «la piú disgraziata e la piú fragile di tutte le creature e tuttavia la piú orgogliosa», che «s'immagina di porsi al di sopra della sfera lunare e di poter mettere il cielo sotto i suoi piedi»  e che «per la vanità di questa stessa immaginazione  si eguaglia a Dio, si attribuisce le possibilità divine, attribuisce a se stesso ogni privilegio e si separa dalla massa delle creature», ricordavo di come il filosofo francese avesse fatto proprio l'esempio della sua gatta per spiegare tutto ciò: «quando gioco con la mia gatta chissà se essa mi prende come suo passatempo cosí come faccio io per essa?».
 

Leggendo Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, mi imbatto in un «gatto dell'isola di Man, fermo al centro del prato come se anche lui interrogasse l'universo».
 

Solo piccole risonanze.

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