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giovedì 20 febbraio 2025

il wargame storico, una public history diffusa

Soldatini di piombo, reggimenti di carta
Il wargame come lo intendiamo oggi ebbe origine intorno alla fine del XVIII secolo presso la corte prussiana: Kriegsspiel, per l’appunto, gioco di guerra. In tale forma, uscirà rapidamente dai salotti degli aristocratici di corte, per entrare nelle caserme dei militari che ne avevano subito intravisto l’utilità. Già in questa prima epoca rinveniamo sui tavoli del Kriegsspiel riproduzioni topografiche, calcoli statistici e accorgimenti come l’inserimento di tabelle casuali ponderate da confrontare con il tiro di quantità e tipologie ben definite di dadi: tutti elementi che ritroviamo ancora oggi nel wargame civile. Né mancavano rievocazioni di battaglie e campagne militari effettivamente avvenute, con scenari scritti sulla base delle fonti dell’epoca. La fama di questo nuovo strumento si diffonde rapidamente nel continente europeo, ma nel mondo anglosassone diventerà uno svago intellettuale da storici e scrittori quali Robert Louis Stevenson, sia nella sua versione su mappa che con l’ausilio di plastici e miniature. A questi si unirà in seguito anche un altro grande autore, H. G. Wells, che in una breve opera, Little Wars (1913), descrive regole relative agli scontri tra soldatini della sua collezione schierati sul pavimento del salotto. Il gioco storico di argomento militare subisce una vera e propria rivoluzione verso il finire degli anni Cinquanta. È infatti nel 1958 che Charles S. Roberts pubblica con la casa editrice Avalon Hill il gioco Tactics II, simulazione di un conflitto tra due nazioni ipotetiche, e nel 1961 Gettysburg, il primo wargame su mappa dedicato a una battaglia storica. Nel 1964 Roberts sostituisce la griglia ortogonale con una più versatile griglia a esagoni e da allora la “mappa esagonata” diverrà una costante di questo genere di giochi. La Avalon Hill sarà in breve tempo affiancata da altre ditte, che incrementeranno il livello di realismo e di ricerca storica.  Fin dalle origini esiste nei wargame una dicotomia tra simulazioni basate su segnalini che si spostano su una mappa (counters) e regolamenti che prevedono lo spostamento fisico di componenti di gioco su plastici tridimensionali: dai primi avremo quelli che vengono definiti boardwargames, dai secondi i miniature wargames. Non si tratta di differenze meramente estetiche, il supporto materiale condiziona il gioco anche dal punto di vista funzionale, imponendo all'attività ludica focus ben diversi. Il gioco su tabellone (hex-and-counter) si rivela eccezionalmente versatile per la descrizione di fenomeni storici complessi, che vanno al di là del mero aspetto bellico. Così, accanto a giochi più prettamente militari compaiono titoli politico-diplomatici come Origins of World War Two (1971) e The Plot to Assassinate Hitler (1976).  Maggiormente legato alla tradizionale raffigurazione bellica appare invece il wargame tridimensionale. La sua dipendenza da un elemento esterno come la presenza di miniature e l’interazione fisica con un plastico del terreno spingono a concentrare l’attenzione sull’hic et nunc della simulazione.  Bi o tridimensionale che sia, il gioco storico appare riconducibile a un comune tentativo di infondere nuova vitalità alla consapevolezza del passato nel grande pubblico. La Storia si mette in gioco
Quali sono i canali attraverso cui il gioco può davvero farsi strumento di crescita culturale?

  1. Il primo impiego del gioco di simulazione nell’ambito di un percorso di avvicinamento alla storia è quello legato a programmi didattici istituzionalizzati. Il gioco di simulazione permette a un docente di affiancare alla lezione su un determinato argomento la spiegazione delle regole del gioco stesso, con l’occasione analizzando i motivi che hanno spinto l’autore a dare un certo valore alle unità, a escogitare una certa meccanica, a definire certi parametri. Per garantire l’imprescindibile approfondimento storico sarà sempre necessario fare ricorso a testi specialistici e a fonti dirette, ma tali materiali - una volta rivisti nell’ambito di un processo interattivo di apprendimento - verranno come “rivitalizzati”.
  2. In una seconda modalità, quella forse più vicina al tradizionale concetto di public history, l’impiego pubblico del gioco storico si affianca a altre forme di rievocazione più frequenti, con partite dimostrative, tornei o lezioni ludico-interattive. Un esempio in tal senso è stato l’incontro tenuto dal game designer Andrea Angiolino presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, durante il quale ha guidato il pubblico in una partita collettiva del suo libro-gioco dedicato alle imprese dei bombardieri e aerosiluranti SM79, commentandola con notazioni di carattere storico sul secondo conflitto mondiale nel Mediterraneo. Per citare un altro caso, per quasi venti anni nei pressi di Parigi si è svolto il Trophée du Bicentenaire, giocando i numerosi scenari del regolamento Jours de Gloire/Triumph & Glory esattamente a 200 anni dalla data storica delle rispettive battaglie rappresentate [Lonato, 1796 - Waterloo, 1815]. Un ulteriore esempio in tal senso è rappresentato da Memoir ‘44, wargame leggero sulla Seconda guerra mondiale che ha ottenuto grande successo nei negozi di souvenir della Normandia proprio durante le celebrazioni del sessantesimo anniversario del D-Day. Ancora, realtà pubbliche di rilevanza culturale e amministrazioni locali dedicate alla salvaguardia delle aree in cui si sono svolti eventi storici e bellici hanno in diversi casi patrocinato o collaborato alla creazione di giochi di simulazione, fornendo materiali e organizzando sopralluoghi sul campo: questo il caso del wargame Radetzky’s March, arricchito dal contributo dell’Associazione Amici del Parco della Battaglia di Novara.
  3. Un terzo modo di esplicarsi del rapporto tra gioco storico e public history è quello per certi versi rimasto più legato alle sue origini. Il Kriegsspiel arriva infatti ai giorni nostri sotto forma di professional wargaming, ossia l’impiego della simulazione da parte di militari e analisti di intelligence. Fu quel che accadde con l’Operazione Desert Shield del 1990, quando a seguito dell’invasione del Kuwait da parte delle truppe irachene, la leadership militare americana fu chiamata a organizzare in tutta fretta un dispiegamento difensivo senza avere predisposto in precedenza alcun piano operativo. Un ufficiale appassionato di wargames propose allora di sfruttare uno scenario ipotetico che descriveva proprio un intervento analogo contenuto in Gulf Strike (1983), trasformato così nel primo gioco di simulazione civile a essere utilizzato nell’ambito di una pianificazione militare reale. Tre sono i settori in cui si esplica l’impiego professionale del gioco di simulazione: definizione di modelli predittivi, addestramento del personale, formazione indiretta. Nel primo caso ci troviamo davvero al cospetto dell’utilizzo più classico del Kriegsspiel: studiare piani operativi e alternative strategiche in esercitazioni su mappa o plastico; un esempio in tal senso è rappresentato dalle simulazioni navali tridimensionali tenute dalla Western Approaches Tactical Unit nel corso della cosiddetta Battaglia dell’Atlantico, dal 1942 al 1945. Il terzo e ultimo impiego operativo del gioco è quello di affinamento delle soft skills: lavoro di squadra, sviluppo dell’empatia, addestramento al problem solving.

“Attaccante Si Ritira”: Le criticità del gioco storico
Esaminate le manifestazioni del rapporto tra gioco storico e public history, non ci resta che esaminare le sue problematiche ma anche i suoi punti di forza. Partiamo dalle prime.
  1. La simulazione è per sua natura una semplificazione. I giochi storici sono frutto della visione che il rispettivo autore ha dei fatti rappresentati e di scelte nel suo processo creativo. Appare così chiaro come un utilizzo combinato e ragionato del rigore della storiografia tradizionale e della libertà del gioco di simulazione possa dare ottimi risultati a patto che l’intera esperienza sia mediata da esperti capaci di evidenziare i punti più critici.
  2. Altre critiche possono appuntarsi sulla opportunità etica. Il gioco di simulazione, per ottenere il suo obiettivo di rappresentare la realtà, deve mettere i giocatori nei panni di tutti i contendenti e per farlo deve “sollevarsi” da qualsiasi valutazione di carattere etico o politico. Questo però non significa che i partecipanti siano incoraggiati a giustificare le opinioni di coloro che rappresentano in gioco. Si recupera anzi la lezione di H. G. Wells sull’impiego del gioco come strumento di comprensione delle storture e dell’ipocrisia del momento bellico, o anche il messaggio contenuto nella Lettera a mio figlio di Umberto Eco.
  3. Infine, esiste un terzo aspetto. Come conciliare le esigenze formative con l’indisciplinatezza insita nel momento ludico.
“Difensore Eliminato”: Le virtù del gioco storico
  1. Il primo di questi elementi è insito alla natura stessa del gioco di simulazione. Gli studiosi di storia militare ben conoscono la diatriba esistente tra due grandi teorici del passato: Antoine-Henri de Jomini e Carl von Clausewitz. Laddove il primo appare più attento all’analisi geometrica dell’applicazione delle forze e all’elencazione delle casistiche tattico-strategiche, il secondo è tra i primi a aver definito l’elemento irrazionale dei conflitti. I wargames si piazzano esattamente nel mezzo. Due sono infatti i componenti base del gioco di simulazione che simboleggiano l’equilibrio raggiunto tra dinamica delle forze e calcolo dei fattori irrazionali: da una parte le griglie sulle mappe o il centimetro usato per le misurazioni, dall’altra il dado che con la sua casualità in vari modi inserisce nel gioco l’aspetto casuale ponderato. Considerando ciò, il gioco di simulazione è in grado di mostrare con estrema chiarezza l’interazione sul campo e negli eventi storici di queste due grandi forze: la pianificazione e l’imprevisto.
  2. Parlando di casualità ponderata, viene facile trattare di un altro elemento di pregio del gioco storico, ossia l’inclusione sempre crescente di fattori storici complessi nella simulazione (controllo politico, dinamiche economiche, rivolte e tradimenti). La simulazione si fa sempre meno lineare e geometrica, andando a approfondire la ricerca storica e indagando sulle cause remote degli eventi anche al di là dei fatti contingenti mostrati dalla simulazione. Lo scotto da pagare per un’integrazione così profonda degli elementi storici complessi è certo un aumento della complessità generale, una diminuzione dell’immediatezza del gioco.

(da Riccardo Masini, Il Wargame storico. Una public history diffusa, in Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica).

mercoledì 13 febbraio 2019

filosofia come narrazione complessa

Uno spettro si aggira nel discorso filosofico del Novecento: la letteratura come altra forma di scrittura al di là dei limiti del logos. Un fantasma, quello della letteratura, al contempo desiderato e forcluso dalla filosofia, mai del tutto attraversato per incontrare il reale della scrittura in una nuova forma. Ecco ciò che è stato mancato dalla filosofia, secondo il filosofo Simone Regazzoni
In questo Iperomanzo - saggio da leggersi in coppia con la recente monografia su Derrida pubblicata presso Feltrinelli - Regazzoni prospetta la fine della separazione tra filosofia e mimesis poetica, il cui antico dissidio Platone poneva all'origine della specificità filosofica: un andare verso-l'origine-oltre-la-fine della filosofia attraverso il ricongiungimento tra filosofia e poesia. Ecco l'ingiunzione per la filosofia: misurarsi, fino in fondo, con la propria fine come esaurimento di ciò che la filosofia può pensare in forma argomentativa, reinventare la propria scrittura.
È Nietzsche che aveva iniziato a portare la filosofia oltre se stessa, attraverso una pratica di scrittura che non rimanda più a una qualche verità da scoprire o enunciare. Il mondo divenuto favola non si lascia più concipere, cioè afferrare dal concetto, non si lascia più dire nella forma di un discorso vero. La finzione è un elemento costitutivo della realtà, ed è proprio perché sono venute meno l'idea di realtà e di verità come qualcosa di presente, stabile, afferrabile attraverso il logos, dicibile in un discorso razionale, che la filosofia deve trovare, attraverso la letteratura, una nuova forma di pensiero in grado di misurarsi con la complessità. La filosofia diviene operazione di stile, che con Nietzsche dà vita a pagine tra le più alte che la letteratura tedesca abbia conosciuto. Nel Novecento, Ermeneutica e decostruzione sono state forme di preparazione all'assolutamente nuovo che è la letteratura, tuttavia esse non hanno mai messo davvero in atto la letteratura ma si sono limitate a dichiararla, vale a dire ancora recuperarla in un logos: essa, invece, andrà praticata, scritta. Dunque, occorre alla filosofia un gesto che vada al di là della decostruzione dell'apparato della razionalità metafisica, di cui sono state mostrate le aporie, l'instabilità dei margini, l'impossibilità di funzionare secondo un sogno di purezza che non avrà mai luogo; occorre alla filosofia misurarsi fino in fondo con un mondo vero diventato favola. Oggi, secondo Regazzoni,  pensare la filosofia significa, inevitabilmente, pensare il romanzo: "romanzo" è dunque il nome dell'impasse attorno a cui è ruotata e ruota la questione della fine e del superamento della metafisica come pratica di un pensiero che pensa altrimenti, al di là del monologos, al di là del concetto, al di là della teoria.
Le tappe della storia di questa impasse ricostruita da Regazzoni comprendono, tra gli altri, Barthes, Derrida ed Eco.
Roland Barthes ha dato corpo alla scrittura della preparazione, alla simulazione dell'opera in corso, a uno spazio di indecisione e indistinzione tra teoria e scrittura, saggio e romanzo, filosofia e letteratura. Ma questa preparazione del romanzo sarà solo la storia interiore di un uomo che vuole scrivere e non avrà nulla di un thriller, ahimè - dispiacere, rimpianto, rammarico, pentimento, dello stesso Barthes.
Anche Jacques Derrida, nella sua infinita preparazione all'opera impossibile, nell'infinito intrattenimento della sua filosofia con il fantasma della letteratura, non ha mai scritto il desiderato libro impossibile da scrivere, illeggibile, impensabile per il suo stesso autore. Eppure esso rappresenta il centro vuoto che orienta la scrittura del filosofo francese. La resistenza dell'esistenza al concetto di sistema, la singolarità dell'esperienza nel suo rapporto con la lingua, orientano la filosofia di Derrida come ricerca di una scrittura singolare, idiomatica e autobiografica, che eccede l'orizzonte del senso e l'astrazione della pura teoria: questa è stata la pratica costante di Derrida e la specificità e la grandezza del suo pensiero. Ma il suo limite è stato quello di una strategia testuale segnata da un'idea avanguardistica di letteratura in cui la narrazione è negata, legata a un contesto culturale in cui la letteratura era vista essenzialmente come operazione di stile, gesto di rottura con la forma del romanzo classico.
È la neoavanguardia italiana che comincia a riflettere sui limiti delle strategie di sovversione semantica, di illeggibilità, e rivaluta, in nuove forme, trama, avventura, azione, recuperando la dimensione la narrazione, l'intreccio. Con Il nome della rosa Umberto Eco produce un romanzo sperimentale e insieme popolare, in cui l'avanguardia si compie nel pop e in cui avviene la riunificazione di filosofia e narrazioneil superamento delle impasses teoretiche della filosofia del Novecento avviene così con un thriller che vende milioni di copie in tutto il mondo. Grazie a un intreccio forte, un plot, un mythosEco fa del romanzo uno spazio filosofico, non scrivendo romanzi filosofici nel senso di romanzi con una tesi, come aveva fatto Sartre, ma realizzando, invece, lo spazio per un pensiero filosofico altro: lo spazio in cui pensare ciò che non si può teorizzare, lo spazio di una filosofia che eccede i limiti del logos.
Bisogna partire da Eco, dunque, ma anche andare al di là di Eco stesso: l'ulteriore sfida è quella del polymythos, della molteplicità delle linee narrative e delle trame. La sfida della multitrama è quella che è stata fallita dal cosiddetto romanzo massimalista, nel quale l'esuberanza diegetica segue un principio addizionale e della digressione, un accumulo senza fine che va verso il caos, verso l'esplosione della trama come principio d'ordine. Per eccesso di narrazione, quindi, viene nuovamente meno la trama, ed è questo il limite delle opere di Pynchon, Wallace o Bolaño, cedere sotto il peso della molteplicità del narrabile. 
È necessario, invece, narrare senza perdersi in essa, ed è ciò in cui riesce la più potente invenzione narrativa degli ultimi vent'anni, la nuova serialità televisiva, la complex TV. Ancora una volta, dopo Eco, è dunque nello spazio della popular culture che avviene la sintesi più avanzata e innovativa delle grandi questioni sollevate alla frontiera tra filosofia e letteratura nel corso del Novecento: universi narrativi iper-diegetici, multiplot, che affrontano grandi questioni etiche, politiche, esistenziali, metafisiche. La complessità dell'iperserialità non è solo legata alla molteplicità delle linee narrative, ma anche all'ibridazione di generi e stili, al gioco intertestuale di citazioni e rinvii, che danno vita a un testo stratificato.
Come può, dunque, la filosofia pensare ciò che non si lascia più cogliere nelle maglie del logos, di un discorso teorico che enunci una tesi vera sul mondo? La risposta di Regazzoni è mettendo in discussione l'idea di mondo come totalità dotata di senso, l'idea di unità e unicità del mondo, rompendo con la dimensione di un pensiero che sia uno, con la volontà mono-logica del filosofo che pensa, che esprime il proprio pensiero come uno. Un pensiero polifonico, dunque, che può realizzarsi solo nell'apertura radicale al molteplice data da una modalità di scrittura sistematicamente tesa a produrre pensieri che l'autore non sa di pensare, a produrre mondi con un'autonomia interiore in cui le voci dei personaggi sfuggono al proprio autore.
In questo gioco dei mondi il pensiero sfugge strutturalmente al proprio autore, si fa molteplicità attraverso letture cui l'autore non avrà nemmeno pensato. Questo iperomanzo,  macchina per produrre molteplici interpretazioni, non è altro che la forma di scrittura che si fa carico nel modo più radicale della decostruzione del logos come monologismo, che pensa il gioco dei mondi, che si fa spazio eracliteo di gioco e di conflitto di un pensiero plurale senza sintesi. 
È così che si eredita la decostruzione, rispondendo all'esigenza di una nuova forma di presentazione per la filosofia, all'esigenza di una nuova modalità di pensiero che, giunto al punto di esaurimento del proprio possibile come possibile di un "io penso", si apra a una dimensione altra di scrittura in grado di ospitare un pensiero molteplice. Bisogna attraversare la fine di una forma storica di discorso che ha preteso di distinguersi, in quanto dominio del logos, dalla narrazione-mythos, fine che è nuovo inizio della filosofia come narrazione complessa, come pensiero che si affida alla plurivocità della narrazione come modalità di discorso che si misura con ciò che non può essere detto semplicemente in un discorso dotato di significato ma che deve essere raccolto in una trama, non dedotto ma narrato.
Il romanzo pensa, un pensiero a molti mondi in cui l'ultima parola del pensiero è lasciata all'altro.

sabato 19 marzo 2016

filosofia dell'umorismo

Qual è il rapporto tra ridere e filosofare? La storia che Lucrezia Ercoli percorre e ricostruisce nel suo Filosofia dell'umorismo mostra come l'opposizione tra serio e comico non sia altro che l'equivalente di altre contrapposizioni sedimentate nella cultura ufficiale, così che l'umorismo sembra destinato a riecheggiare fuori dalle mura della cultura rappresentando come un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo. Un ospite inquietante, cui spesso è toccato subire il disinteresse teorico e la condanna morale. Così che sull'umorismo, dote in effetti piuttosto rara tra gli esseri umani, sono scivolati anche i più grandi pensatori che "sono riusciti a definire il pensiero, l'essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende dalle scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime" (Umberto Eco).
Dalla serietà, sacralità e potenza ma anche violenza e aggressività che il mito classico riconosce al riso, al riso, nella filosofia antica, di Democrito - impietoso e anche crudele, non è quello della innocente spensieratezza ma quello distaccato e privo di compassione del sapiente che sa - e di Diogene - cinico, blasfemo, osceno, scandaloso e distruttore, dissacra ogni veneranda e terribile autorità; dalla distinzione operata da Aristotele tra un appropriato buon umore, una giudiziosa arguzia che non è né buffoneria né rusticità, e lo stigmatizzabile ridicolo che va tenuto sotto controllo (riconoscendogli così, però, il potere di trasformarsi in un grimaldello che porti alla luce un fondo indomabile che pur giace nel cuore dell'umano), all'ambiguità del riso carnascialesco che ha insieme un ruolo di liberazione ed emancipazione sociale ed esistenziale e anche uno di conservazione di quell'ordine che decostruisce ma di cui esorcizza la dissoluzione definitiva; dall'umorismo che per Baudelaire rappresenta i confini incerti dell'umano, una zona di confine tra la grandezza infinita del divino e l'infinita miseria della bestia, all'arguzia che per Schopenhauer è il godimento di scoprire l'insufficienza della ragione, il piacere della sua sconfitta, che mostra come l'infinita delicatezza delle sfumature dell'esperienza non si adatti alla vita astratta dell'intelletto; dall'umorismo di Jean Paul, che è una filosofia folle e forsennata dallo spirito poetico e libero, a  quello di Pirandello, che riflette sulle crudeli leggi sociali che imprigionano il fluire vitale in una serie infinita di forme fisse e maschere; dalla funzione sociale, di risanamento di una contraddizione e castigo di un comportamento, che ha il riso per Bergson, all'umorismo che per Ritter, quale profonda critica della ragione e della sua pretesa di limitare tramite i propri concetti finiti la forza dell'infinita pienezza della vita, è filosofia; dal riso con cui Nietzsche risponde alla morale e alla metafisica, danzando con lievità al di là di esse, a quello con cui Bataille si  affranca da ogni verità, distrugge ogni trascendenza, decostruisce ogni identità per aprirsi a un agire veramente libero.
Questa storia dell'umorismo ci insegna che è necessario ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità; che "il ridente altro non è che il maieuta di una diversa società possibile" (Umberto Eco); che umorismo e filosofia hanno lo stesso scopo di gettare un'ombra di diffidenza sulle ovvietà del senso comune, sulle premesse ideologiche, sui pregiudizi culturali. Ridere è filosofare.

giovedì 22 maggio 2014

il superuomo di massa (4di4)

La storia del romanzo popolare viene oggi scandita in tre grandi periodi:
-    primo periodo, o periodo romantico-eroico: inizia negli anni trenta, è parallelo allo sviluppo del feuilleton, alla nascita del nuovo pubblico di lettori, piccolo-borghese e anche artigiano-operaio.
-    secondo periodo, o periodo borghese: si situa negli ultimi decenni del secolo XIX. Mentre il romanzo del periodo precedente, oltre che popolare, era populistico e in una certa misura “democratico”, questo appartiene all’età dell’imperialismo, è reazionario, piccolo borghese. Il personaggio principale non è più l’eroe vendicatore degli oppressi, ma l’uomo comune, l’innocente che trionfa dei suoi nemici dopo lunghe traversie.
-    terzo periodo, o neo-eroico: inizia ai primi del novecento e vede in scena gli eroi antisociali, esseri eccezionali che non vendicano più gli oppressi ma perseguono un loro piano egoistico di potere: sono Arsenio Lupin o Fantômas.

I tre moschettieri agiscono come superuomini, sovrapponendo la loro capacità di discriminare bene e male alla miope considerazione legalistica delle autorità ufficiali. Monte cristo è un superuomo che decide della punizione di tutti i malvagi senza aver un dubbio sulla legittimità del suo gesto. Il Rodolphe de I Misteri di Parigi è un superuomo che, dall’alto del suo carisma reale, giudica e – decisi da lui – diventano cosa santa anche l’inumana tortura, l’accecamento, la distruzione finale di tutti i prevaricatori, così come il premio ai buoni, che egli anzi riunisce in una fattoria modello dove paternalisticamente dispensa loro felicità e sicurezza (purché non si ribellino alle sue decisioni). Nella fase imperialistica saranno superuomini malefici Rocambole e Fantômas. Caratteristica di tutti costoro è decidere per conto proprio cosa è bene per le plebi oppresse e come vadano vendicate. Mai il superuomo è sfiorato dal dubbio che le plebi possano e debbano decidere per conto proprio e agisce con una violenza repressiva tanto più mistificata in quanto si traveste da Salvezza. Così fallisce il suo illusorio progetto di resistenza e liberazione e diventa un’altra forma del dominio.
(Umberto Eco, Il superuomo di massa)

domenica 18 maggio 2014

il superuomo di massa (3di4)

Engels e Marx scriveranno praticamente La sacra famiglia usando I Misteri come oggetto polemico e come filo conduttore, come documento ideologico. Rodolphe scende tra il popolo, cerca di capire il popolo. Il suo socialismo diventa sempre più partecipato, ora piange sulle sventure su cui fa piangere. Certo il limite è tutto qui: piange e fa piangere; proporrà rimedi, ma ne vedremo il limite sentimentalistico, paternalistico e utopistico. Egli si augura che il popolo non sia più nella miseria, che cessi di essere plebe affamata, spinta al delitto suo malgrado, per diventare una plebe sazia, presentabile, che si comporti come si deve, mentre il borghese e gli attuali fabbricanti di leggi resteranno i padroni della Francia. Riformismo edulcorato, ci si augura che muti qualcosa perché tutto resti come prima. La natura riformistico-piccolo-borghese dell’opera è individuata con molta semplicità nella frase “Ah, se i ricchi lo sapessero!”. La morale del libro è che i ricchi possono saperlo e intervenire a sanare con atti di munificenza le piaghe della società. Ma Marx ed Engels vanno oltre: non si accontentano di individuare in Sue la radice riformistica, ma additano l’animo reazionario, subdolo, legittimista. Non possiamo escludere, però, che I Misteri costituissero il primo grado di rivolta che veniva formulato in modo accessibile e immediato, secondo la migliore tradizione del socialismo utopistico. Sue non ha speculato sul popolo. Vi ha creduto realmente. Vi ha creduto da socialista umanitario e utopista, riflettendo i limiti e le contraddizioni di una ideologia confusa e eminentemente sentimentale. Con Sue muore il feuilleton classico. Il barone Haussmann ha già sventrato Parigi l’anno prima. Ha tolto lo scenario per futuri misteri e soprattutto ha impedito che nelle nuove vie larghe e alberate si possano fare barricate di sorta.
(Umberto Eco, Il superuomo di massa)

giovedì 15 maggio 2014

il superuomo di massa (2di4)

La grande stagione del feuilleton è quella delle rivoluzioni borghesi di mezzo ottocento, con il loro riformismo populista e premarxista. La dinamica sollecitazione-soluzione (o meglio: provocazione-pace) unita con la sua vocazione populistica, fa sì che il romanzo popolare sia un repertorio di denuncia circa le contraddizioni atroci della società (si pensi a I Misteri di Parigi o a I Miserabili) ma che sia al tempo stesso un repertorio di soluzioni consolatorie, una macchina per sognare gratificazioni fittizie che incarna una ideologia riformistica. La società borghese è il regno del fattuale e il romanzo ne è il mutevole e funzionale trattato teologico. Il romanzo conservatore del tardo ottocento e quello reazionario del primo novecento (di cui Arsenio Lupin, nazionalista “professore di energia” è il modello spregiudicato e salottiero) useranno l’armamentario del feuilleton avulso dal suo contesto funzionale: vendette e riconoscimenti agiranno a vuoto, senza più alcun progetto di risarcimento sociale. Se i surrealisti impazziranno per le avventure di Fantômas sarà perché quivi riconosceranno la sagra della gratuità dissennata. La parabola del feuilleton lo vede approssimarsi sempre più a una forma di narrativa di cui è esempio lampante lo stesso perfetto congegno del romanzo poliziesco, in cui l’ordine sociale è sottofondo flebile e pretestuoso appena avvertibile. Il detective di Conan Doyle non è affatto un giustiziere sociale come il Rodolphe di Sue, e nemmeno un giustiziere individuale come Montecristo: coltiva con passione egocentrica la propria abilità.
(Umberto Eco, Il superuomo di massa

domenica 11 maggio 2014

il superuomo di massa (1di4)

Questo libro raccoglie una serie di studi scritti in diverse occasioni ed è dominato da una sola idea fissa. Inoltre questa idea non è la mia, ma di Gramsci. L’idea fissa, che giustifica anche il titolo, è la seguente: “mi pare che si possa affermare che molta sedicente ‘superumanità’ nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma il Conte di Montecristo di A. Dumas” (A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, III, “Letteratura popolare”). Gramsci sta parlando del niccianesimo degli stenterelli imperante ai suoi tempi e dice chiaramente e polemicamente: il vostro superuomo non viene da Zarathustra bensì da Edmond Dantès. Se si pensa a Mussolini, che divulgatore del superomismo nicciano era al tempo stesso autore di narrativa d’appendice, si vede che l’ipotesi gramsciana colpiva nel segno. Sviluppare l’ipotesi gramsciana significava andare alla ricerca degli avatars del superuomo di massa, e così fanno questi saggi, da Sue sino a Salgari o a Natoli, per finire ai tempi nostri con un superuomo raccontato in termini di spy thriller – ed è James Bond. Non per questo la storia del superuomo di massa è da ritenersi conclusa. Rimangono innumerevoli casi in cui esso riappare. Si veda per esempio sul mio Apocalittici e integrati lo studio sul Superman dei fumetti. E poi sarebbe interessante vedere i nuovi superuomini cinematografici e televisivi, ispettori con le Magnum. E l’apparizione della Überfrau, dalla Wonder Woman dei fumetti già anteguerra alla recentissima Bionic Woman. Eccetera eccetera eccetera, benemerita schiera di cui già aveva detto una volta per tutte Gramsci: “il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce al tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare a occhi aperti… lunghe fantasticherie sull'idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati…”
(Umberto Eco, Il superuomo di massa)

lunedì 26 marzo 2012

platone suona sempre due volte

More about Platone suona sempre due volteNella prefazione di questo saggio sulla filosofia del noir Platone suona sempre due volte – si riconoscono le origini di questo genere nella sensibilità, acuta soprattutto nella letteratura americana di metà Ottocento, che il “viaggio” dell'uomo nella natura poteva tranquillamente finire in un disastro, come nel caso del Moby Dick di Melville, così come lo spirito imprenditoriale yankee poteva benissimo degenerare nel rozzo materialismo de L’uomo di fiducia – dello stesso autore. Anche Poe aveva collocato l’esito del viaggio trascendentale in una prospettiva piuttosto problematica e i suoi racconti mettono in questione il potere della ragione umana. L'universo noir è altrettanto caotico quanto quello di Poe, e il cinema noir lo rende con le sue caratteristiche opposizioni costanti di luci e ombre, con le sue abituali angolazioni oblique della macchina da presa, infine con i suoi personaggi ritratti in posizioni sgraziate e non convenzionali.
La proposta generale degli autori è che il noir possa essere visto come una sensibilità o un modo di guardare al mondo conseguente alla morte di Dio, e che sia un tipo di risposta o di riconoscimento artistico americano a questo mutamento sismico della comprensione del mondo. Ciò che secondo Nietzsche rende la verità problematica e la definizione impossibile – l’abbandono delle essenze, la conseguente metafisica del flusso, il rifiuto di qualsiasi cosa permanente e immutabile nell’universo, cioè la morte di Dio – è lo stesso fenomeno che fa del noir ciò che è, una visione del mondo a dir poco labirintica.
Nelle mani di autori come Conan Doyle il classico e mitologico Minotauro è diventato il criminale, intrappolato in un “labirinto del crimine”, il gomitolo è diventato la matassa degli indizi e, ovviamente, il nobile Teseo è diventato il formidabile investigatore Sherlock Holmes. Watson, infatti, descrive costantemente il mondo del crimine come un “labirinto” (o a volte un “dedalo”) e osserva in continuazione quanto sia necessario trovare “il bandolo della matassa”.
Secondo Eco esistono tre tipi di labirinto. Il primo è il classico labirinto greco, da cui è possibile entrare e uscire senza troppe difficoltà e in cui l’unico vero problema è costituito dal Minotauro. Il classico labirinto greco toccava tutte le giuste corde della mentalità medievale: il mondo è estremamente ingannevole, arduo da conoscere e proprio pericoloso, ma non c’è da preoccuparsi, perché con il “filo della fede” si può eludere il diavolo e fuggire dal labirinto di questa vita terrena approdando sicuri alle porte del Paradiso. 
Il labirinto manierista è multi planare, distorto, con rampe di scale, botole e specchi, niente è quello che sembra e non c’è nemmeno bisogno di un Minotauro, giacché il labirinto della modernità è il suo stesso Minotauro. La sfida vera e propria è guadagnare l’uscita tra frammentazione, scetticismo e pluralismo, e questo avverrà possedendo la versione moderna del filo di Arianna che è la ragione. 
Il labirinto rizomatico non possiede né inizio né fine ma cresce e si espande, non c’è un perimetro e non c’è via d’uscita ma ogni filo di Arianna non fa altro che condurre più addentro.
Mentre il labirinto del detective classico rappresenta un labirinto manieristico, quello del detective noir è un labirinto rizomatico. Il mondo del detective classico è ordinato e significativo, le aberrazioni sociali sono temporanee e le capacità superiori di ragionamento deduttivo del detective ne fanno rapidamente giustizia. Un mondo del genere riflette il senso vittoriano dell’ordine e la convinzione nella supremazia della scienza. Gli scrittori hard-boiled, invece, lo sostituirono con un mondo corrotto e caotico, dove il sommo valore del detective è la mera capacità di sopravvivere con un briciolo di dignità. Questo cupo labirinto della notte è ovunque e in nessun luogo, e il detective hard-boiled ne percorre le migliaia di corridoi nascosti. All’interno di questo sconfinato labirinto dell’essere non esiste luogo sicuro in cui rifugiarsi, né una porta nascosta della salvezza, né, in ultima analisi, alcuna possibilità di fuga. Il detective hard-boiled lo sa bene, e accetta consciamente il suo destino di isolamento nello sconfinato labirinto rizomatico del male.

sabato 17 dicembre 2011

il piacere di avere paura

Ampliando l'idea di Bruno Bettelheim secondo cui le fiabe per bambini rappresenterebbero un rito di passaggio adolescenziale «Una particolare storia può rendere ansiosi certi bambini, ma una volta che essi hanno ottenuto una maggiore dimestichezza con le fiabe gli aspetti paurosi sembrano scomparire, mentre gli elementi rassicuranti diventano ancora più dominanti. Lo scontento originario dell'ansia si trasforma allora nel grande piacere dell'ansia dominata e affrontata con successo. I genitori che vogliono negare che il loro figlioletto ha desideri omicidi e vuole fare a pezzi cose e addirittura persone credono che al loro bambino debba essere impedito di covare pensieri del genere (come se fosse possibile)» (Le fiabe e le paure dei bambini, in Il piacere di avere paura – e adattandola ai racconti dell'orrore della serie a fumetti Dylan Dog, Roberto Manzocco sostiene nel suo saggio che il loro fascino «potrebbe ruotare attorno ad una forma di rito di passaggio post-moderno: in sostanza i mostri e lo splatter ci fanno sentire vulnerabili, ci tolgono il terreno da sotto i piedi, portano l'orrore fin dentro di noi, in modo da farcelo assaporare e casomai vincere – senza alcun pericolo. Le storie di paura e di orrore sono quindi esperimenti mentali che ci consentono di rafforzare le nostre difese psicologiche e dunque di crescere».
Oltre che a questa ipotesi, l'autore si richiama anche ad altri studi e analisi, filosofici e psicologici, sui temi dell'orrore, della violenza e della crudeltà. La psicologa inglese Kathleen Taylor autrice di Cruelty. Human evil and the human brain sottolinea come il piacere e la soddisfazione procurati dal sadismo vicario della crudeltà fruita e mediata derivino dal potere emotivo e dal senso di vertigine che essa induce, similmente a ciò che succede sulle montagne russe o sulle giostre; mentre lo psicologo americano David Buss sostiene in The murderer next door. Why the mind is designed to kill – che a livello inconscio è presente dentro di noi un'aggressività smisurata che riceve una soddisfazione di tipo vicario da certi generi di rappresentazione. Secondo il filosofo americano Noël Carroll autore di The Philosophy of Horror, saggio in cui presenta il "mostro" come quell'essere interstiziale e contaminato, inclassificabile e indefinibile una volta per tutte perché capace di infrangere le categorie con cui normalmente separiamo, ad esempio, l'interno e l'esterno, l'io e il tu, il vivo e il morto –, invece, «non il sangue e la violenza in sé, ma la propria capacità di assorbire l'orrore e dominare l'ansia e il disgusto» è ciò che si trova di piacevole nel genere horror.
Un altro elemento che Manzocco presenta nella sua analisi è il rapporto tra horror ed erotismo, l'erotizzazione dello splatter. E il filosofo di riferimento è, in questo caso, Georges Bataille, che ne L'erotismo scrive: «Se la bellezza, il cui compimento rifiuta l'animalità, è appassionatamente desiderata, ciò accade perché il possesso introduce in essa l'impurità animale. La si desidera per poterla corrompere. Non in sé e per sé, bensì per la gioia gustata nella certezza di profanarla. Nel sacrificio, la vittima veniva scelta in modo che la sua perfezione rendesse sensibile la brutalità della morte. La bellezza umana, nell'unione dei corpi, introduce la contrapposizione tra l'umanità più pura e l'animalità vergognosa degli organi. Del paradosso del laido che si contrappone nell'erotismo alla bellezza, i Quaderni di Leonardo da Vinci forniscono questa incisiva espressione: "L'atto dell'accoppiamento e le membra di cui esso si serve sono d'una tale laidezza che se non vi fosse la bellezza dei volti, gli ornamenti dei partecipanti e lo slancio sfrenato, la natura perderebbe la specie umana". Leonardo non s'avvede che le attrattive di un bel viso o di un bell'abito giocano nella misura in cui questo bel viso preannuncia ciò che l'abito dissimula. L'importante è di profanare quel volto, la sua bellezza. Di profanarlo in primo luogo mettendo a nudo le parti segrete di una donna, poi introducendovi l'organo virile. Esattamente come la morte nel sacrificio, la laidezza dell'accoppiamento comunica angoscia. Ma maggiore è l'angoscia e più forte è la coscienza di superare i limiti, che dà origine a un trasporto gioioso. Il fatto che le situazioni mutino a seconda dei gusti e delle abitudini, non può evitare che generalmente la bellezza (l'umanità) di una donna concorra a rendere sensibile l'animalità dell'atto sessuale. Nulla di più deprimente, per un uomo, della bruttezza di una donna, sulla quale la laidezza degli organi o dell'atto non risalti. La bellezza ha soprattutto valore perché la bruttezza non può essere profanata, laddove l'essenza dell'erotismo risiede appunto nella profanazione. L'umanità, significativa del divieto, è trasgredita nell'erotismo: è trasgredita, profanata, guastata. Maggiore è la bellezza, più profonda è la profanazione». L'idea del filosofo francese – espressa anche nella raccolta di saggi Il labirinto è che nell'uomo esista un eccesso irresistibile alla distruzione che opera in perfetto accordo e sincronia con l'incessante e inevitabile rovina e dissoluzione del divenire della realtà universale: «è il desiderio in noi di consumare, di rovinare, di dare alle fiamme tutte le nostre risorse; è la felicità che ci procurano la consumazione, il falò, la rovina che ci appaiono divini, sacri e che soli decidono in noi atteggiamenti sovrani, vale a dire gratuiti, superflui, non servendo che a se stessi, non essendo mai subordinati a risultati ulteriori». Bataille spiega dunque la fascinazione dell'orrore in termini di potenza e accordo gioioso con l'inarrestabile divenire.
In continuità con la gratuità e la sovranità di cui parla Bataille quali elementi di piacere presenti nell'orrore, l'autore richiama, in seguito, l'analisi che Roger Caillois presenta ne I giochi e gli uomini delle quattro categorie da lui riconosciute di giochi: agon (competizione), alea (casualità), mimicry (immedesimazione), ilinx (gorgo). Questi ultimi sono quelli che consistono in una sorta di smarrimento, di spasmo che annulla la realtà circostante, «distrugg[e] per un attimo la stabilità della percezione e f[a] subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico». È il caso di certe attrazioni da luna park, che – nonostante provochino spavento, nausea, urla di terrore, fiato mozzato, sensazione di torsione degli organi interni – sono anche fonte di una paradossale forma di godimento. A guidare questo piacere prodotto da una situazione brutta o, meglio, inquietante è lo stesso «principio che governa ogni vicenda di fantasmi e di altri eventi soprannaturali, in cui ci spaventa o ci fa orrore qualcosa che non va per il suo verso giusto» (Umberto Eco, Storia della bruttezza). È il perturbante – analizzato da Freud sulla base, tra l'altro, di Schelling –, l'incerto, l'inconsueto, a indurre una leggera e piacevole forma di gorgo, vertigine.

 

domenica 27 novembre 2011

l'indagatore dell'incubo

More about Dylan Dog«Se, come noi, avete passato l'adolescenza a intossicarvi regolarmente con le avventure dell'Indagatore dell'Incubo» – Dylan Dog – e se, diversamente dal suo assistente Groucho, non ritenete proprio che la filosofia sia quella «scienza con la quale o senza la quale tutto resta tale e quale», allora il saggio di Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrorre filosofia, è sicuramente una buona e interessante lettura, capace di far emergere la sensibilità poetica e filosofica, di stampo esistenzialista, con cui la serie Bonelli tratta della condizione umana e delle sue situazioni più "estreme" – l'angoscia, l'amore, la morte, la ricerca della verità, l'assurdità della vita – «fino a guardare nietzscheanamente nell'abisso, con la speranza che quest'ultimo, in un momento di distrazione, non si accorga di noi». 
Tanti sono gli ingredienti che fanno di Dylan Dog un fumetto tanto apprezzato da pubblico e critica. L'autore, nel primo capitolo del suo saggio, tenta un'analisi proprio della materia di cui sono fatti gli incubi della serie.
Innanzitutto ciò che Umberto Eco definisce la "sgangherabilità", ossia l'essere composto da una serie di elementi, di punti fissi, che «possono essere isolati e riproposti all'infinito, ricombinati in modo diverso e con l'aggiunta di sempre nuove variabili». Come Nero Wolfe ha le sue orchidee e Colombo il suo impermeabile sgualcito, il suo cane, sua moglie, come serie televisive come Star Trek hanno i loro "pezzi" ricomponibili a piacere, così è anche per la serialità fumettistica dell'Indagatore dell'Incubo.
Poi c'è il citazionismo, ovvero il disseminare di omaggi a film, opere letterarie, musica, i racconti dei vari albi: l'immaginario collettivo, gli elementi "mitologici" sedimentati nella cultura popolare, sono non solo citati ma adoperati, prelevati, trasfigurati, cioè rielaborati e reinterpretati.
Altri elementi sono l'oltrepassamento del "quarto muro" e l'auto-referenzialità. Come nelle opere teatrali di Bertold Brecht, in cui gli attori si rivolgono direttamente al pubblico producendo un effetto straniante e stridente, di alienazione, come nei comics di She-Hulk o Deadpool, coscienti di essere personaggi dei fumetti e quindi capaci di interagire direttamente con i lettori e di sfondare gli spazi bianchi tra le vignette, in Dylan Dog questo elemento metafinzionale è rappresentato soprattutto da Groucho, le cui battutte sono rivolte ai lettori. Nel numero 25 della serie, Morgana, accade invece che Dylan Dog si ritrova a leggere il proprio fumetto, il cui disegnatore ha, tra l'altro, le medesime fattezze di Angelo Stano (illustratore della serie).
Rilevante anche il fatto che la serie affronti tematiche sociali, assumendo posizioni anti-borghesi: dopo «un ciclo di storie più spiccatamente horror, con mostri, depressione esistenzialista, sangue e crudeltà» e un altro «di tipo onirico, che mescola surrealismo e universi paralleli, il tutto allo scopo di fuggire dalla banalità quotidiana», arriva per la serie «un processo di normalizzazione o di autocensura» cui corrisponde «lo slittamento verso il sociale e l'edulcorazione dell'horror». È però da sottolineare «la possibilità che Dylan, grazie a buonismo, animalismo, coscienza sociale e quant'altro, si sia guadagnato un posto nella inquietante "Grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa" teorizzata da Jovanotti». In questo processo, come sostiene anche Claudio Paglieri, il problema di Dylan Dog è quello di «non essere più "contro". La sua rabbia si è annacquata: non fa venire mal di fegato ai bourgeois con le sue accuse, non fa più nascere voglie di censura ai politici né scandalizza i genitori con i nudi e lo splatter. È stato assorbito, è entrato a far parte della maggioranza» (Mi chiamo Dog. Dylan Dog).
L'ultimo e definitivo ingrediente è la capacità di lasciar filtrare nella coscienza dei lettori «la consapevolezza del morire e gli interrogativi ad essa legati», l'offrire «la possibilità di parlare di qualcosa che la contemporaneità ha fatto di tutto per rimuovere, di parlare dell'esistenza umana in tutti i suoi aspetti strutturali, di gettare una nuova luce, insolita e inquietante, sulla vita quotidiana, di vedere da un'angolatura spaesante lo scorrere e il ripetersi dei nostri giorni».
Quest'ultimo elemento è, probabilmente, il più propriamente filosofico. La condizione umana così com'è descritta in Dylan Dog sembra effettivamente rispecchiare l'inappellabile definizione che ne dà il filosofo Albert Caraco, citato nell'introduzione da Manzocco: «nudi fuori e vuoti dentro, con l'abisso sotto i piedi, il caos sopra la testa» (Breviario del caos). E gli strumenti filosofici con cui l'autore conduce la sua analisi sono fondamentalmente quelli presi a prestito dall'esistenzialismo di Karl Jaspers e del cosiddetto primo Heidegger. Dal primo il concetto di "situazione limite", che comprende strutture fondamentali della nostra esistenza quali la nascita, la morte, il dolore, l'amore: «nei confronti del nostro esserci hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo» (Filosofia). Dal secondo, invece, quello di "tonalità emotiva", condizione emotiva generale e profonda – di disperazione, noia o stupore – che ci spinge a interrogarci sul senso ultimo di tutte le cose: «"perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla?" È la prima di tutte le domande. Capita a ciascuno di noi di essere sfiorato dalla forza nascosta di questa domanda. In certi momenti di profonda disperazione, quando ogni consistenza delle cose sembra venir meno e ogni significato oscurarsi, la domanda risorge» (Introduzione alla metafisica).

venerdì 4 novembre 2011

kant e l'ornitorinco

More about Kant e l'ornitorincoSpesso, di fronte a un fenomeno sconosciuto, si reagisce per approssimazione: si cerca quel ritaglio di contenuto, già presente nella nostra enciclopedia, che bene o male sembra rendere ragione del fatto nuovo. Un esempio lo troviamo in Marco Polo, che a Giava vede dei rinoceronti. Ma si tratta di animali che lui non ha mai visto. Siccome la sua cultura gli metteva a disposizione la nozione di unicorno, come appunto di quadrupede con un corno sul muso, egli designa quegli animali come unicorni.
L’ornitorinco viene scoperto in Australia a fine Settecento. Nel 1798 un naturalista invia al British Museum la pelle impagliata di un animaletto che i coloni australiani usavano chiamare watermole, duck-mole, o duckbilled platypus. L’animale fa pensare subito al becco di un’anatra innestato sulla testa di un quadrupede e ritenuto opera dei diabolici tassidermisti cinesi, abilissimi nell’innestare, per esempio, una coda di pesce in corpi di scimmia per creare dei mostri sirenoidi. Nel 1800 viene descritto come un animale con triplice natura di pesce, di uccello e di quadrupede e nominato paradoxus perché incategorizzabile. Nel 1802 si vede che l’animale viene a galla per respirare e si pensa a un mammifero, ma non ha ghiandole mammarie con capezzoli ed è oviparo come uccelli e rettili. Nel 1803 si crea la categoria dei monotremi: non sono mammiferi perché non hanno ghiandole mammarie (in realtà vengono scoperte nel 1824, ma sono senza capezzoli, hanno dei pori che secernono latte), non sono uccelli perché non hanno ali, non sono rettili perché sono a sangue caldo e non possono essere neppure pesci. Il dibattito continua e solo nel 1884 si stabilisce che i monotremi sono mammiferi e ovipari.
Il primo tentativo di capire quello che si vede è inquadrare l’esperienza in un sistema categoriale precedente. Ma allo stesso tempo le osservazioni mettono in crisi il quadro categoriale, e allora si cerca di riadattare il quadro. Kant dice che i concetti empirici non possono venire definiti una volta per tutte come i concetti matematici, ma ammettono un primo nucleo intorno al quale poi si raggrumeranno (o si ordineranno armoniosamente) le successive definizioni.
Se lo schema dei concetti empirici è un costrutto che cerca di rendere pensabili gli oggetti e se dei concetti empirici  non si può dare sintesi mai compiuta, perché nell’esperienza si possono scoprire sempre nuove note del concetto, allora gli schemi stessi non potranno che essere revisibili, fallibili, destinati a evolversi nel tempo. Se i concetti puri dell’intelletto potevano costituire una sorta di repertorio intemporale, i concetti empirici non possono che diventare storici, o culturali.
Kant non ha detto questo, ma pare difficile non dirlo se si porta alle sue ultime conseguenze la dottrina dello schematismo. Naturalmente a questo punto anche il trascendentalismo subirà la sua rivoluzione copernicana. La garanzia che le nostre ipotesi siano giuste non sarà più cercata nell’a priori dell’intelletto puro bensì nel consenso, storico, progressivo, temporale, della Comunità. Il trascendentale si storicizza, diventa un accumulo di interpretazioni accettate dopo un processo di discussione, selezione, ripudio.

(da Umberto Eco, Kant e l'ornitorinco

Oppure si può dare il caso che, come ho visto su un'immagine postata da un mio ormai ex-studente su facebook, questa paradossale creatura che è l'ornitorinco derivi da una fusione à la Dragonball tra un'anatra e un castoro. O l'esito di un matrimonio inter-specie.




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