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lunedì 20 maggio 2019

dharma

Erano proprio gli stessi giorni della conferenza di Monaco: regnava un'atmosfera sinistra. [...] Io avevo già preso la decisione che, in caso di guerra, avrei disertato. [...]
Allora pensavo di essere perfettamente lucido, ma lo si è mai quando bisogna decidere qualcosa di grave? Non credo all'imperativo categorico. [...] Pretendere di comportarsi sempre secondo quanto prescrivono delle massime universali è assolutamente insensato, se non assolutamente ipocrita. [...]
Non esiste una regola universale che prescriva a ciascuno come si deve comportare: l'individuo porta in sé il suo dharma [dovere, legge]. [...]
L'unico rimedio è che ciascuno cerchi di determinare il più chiaramente possibile il proprio dharma, che può essere soltanto individuale. Il dharma di Gauguin è stato la pittura. Il mio, come me lo immaginavo nel 1938, mi sembrava evidente: dedicarmi alla matematica con tutte le mie forze. Il peccato sarebbe stato soltanto lasciarmene distogliere.
Non ignoravo il Critone, né la prosopopea delle leggi immaginata da Socrate. Ma fra l'obbedienza suprema che questi tributa alle leggi della patria e la disobbedienza civile [...] non mi sembrava che la prima fosse da preferirsi alla seconda. [...] Del resto [...] non si trattava affatto del diritto di disobbedire a leggi ingiuste, bensì del dovere di disobbedirvi, il che è completamente diverso: il dovere [...] consiste nel disobbedire alle leggi non appena si è convinti, in coscienza, che esse siano fondamentalmente ingiuste, e ciò senza curarsi delle possibili conseguenze.

(André Weil, Ricordi di apprendistato. Vita di un matematico).

sabato 10 giugno 2017

socratico gandalf

Nella Terza Età, il concilio degli dei decise di inviare dall’Ovest nella Terra di Mezzo gli Istari, un gruppo di “stregoni”, al fine di contrastare la crescita dell’ombra di Sauron. Uno, l’ultimo venuto, all’Ovest si chiamava Olorin, che vuol dire sogno, immaginazione, memoria, chiara visione di cose non fisicamente presenti. Tra gli Elfi, nella Terra di Mezzo, fu chiamato Mithrandir, il Pellegrino Grigio, poiché non dimorava in nessun luogo e non ambiva a ricchezze né a seguaci, ma andava sempre di qua e di là per la Terra di Mezzo facendo amicizia con tutte le genti in tempo di bisogno. L’Elfo Guardiano, Cirdan, indovinò in lui il massimo spirito e il più realmente sapiente, e gli affidò il Terzo Anello, Narya il Rosso. Cordiale e sollecito era infatti il suo spirito, egli era colui che si opponeva al fuoco che distrugge con il fuoco che illumina e soccorre.

Pur essendo uno degli Istari Gandalf non si è mai fermato, e si è mescolato a tutte le razze e a tutte le storie degli abitanti della Terra di Mezzo. Amico dei signori degli Elfi e dei re degli Uomini, nemico epocale del maledetto Sauron, godeva molto della compagnia degli Hobbit; nei loro curati giardinetti, dopo un pasto abbondante, amava fumare la pipa e chiacchierare su tutto un po’, mentre il sole dei pomeriggi autunnali sarebbe calato solo – lentamente aprendo le ombre sull’erba appena innaffiata – per dar spazio all’allegria della cena con gli ospiti.
Gandalf sapeva affrontare molte situazioni e trattare con molti caratteri, perché si coinvolgeva ma non si imponeva, perché era profondamente democratico, senza ombra di snobismo ed alterigia. Sapeva cavalcare veloce, maneggiare terribile la spada, amava i boschi verde cupo e i candidi ghiacciai aperti sul cielo infinito, amava i giochi e le fantasie, le leggende e i poemi romantici d’amore e morte.

Nella Contea tutti gli Hobbit sono ignoranti attuali: ma tra di loro alcuni sono anche ignoranti potenziali – coloro che chiudono occhi e orecchie ai grandi avvenimenti della Terra di Mezzo, avvenimenti che però, volenti o nolenti, comunque li coinvolgono – mentre altri sono potenziali sapienti: sono Frodo, Sam, Merry e Pipino, che ascoltano Gandalf, consultano gli Elfi, ammirano gli Uomini, imparano e crescono e saranno gli unici a saper fronteggiare la marea che arriverà a sommergere la stessa pacifica Contea. D’altra parte, ci sono i sapienti attuali, per esempio gli Istari (gli “stregoni”), e tra essi c’è chi è ignorante potenziale, come Saruman Curunir, che corrompe la sapienza posseduta e diventa progressivamente cieco, incapace di imparare dall’esperienza, e c’è chi è anche potenziale sapiente, come Gandalf Mithrandir, che tutti ascolta e da tutti impara, e nel suo socratico “so di non sapere” vive la sua vocazione di ricercatore e di testimone della verità.

Il contrasto tra la suggestione narcisistica e l’esemplarità buona è quello – nel romanzo di Tolkien – tra Saruman e Gandalf. La voce idealizzata di Saruman era un’illusione, ma con tutta la potenza dell’illusione:

«Per alcuni l’incantesimo durava solo finché la voce si rivolgeva a loro personalmente, e quando parlava a qualcun altro essi sorridevano come chi ha indovinato il trucco di un prestigiatore, mentre gli altri sono ancora sbalorditi. A molti bastava udirne il suono per esserne avvinti; vi erano infine i succubi, coloro che rimanevano vittime dell’incantesimo e che ovunque fossero udivano la dolce voce bisbigliare istigandoli».

Pensa, invece, a Gandalf, “capo” senza attributi vistosi, senza pompe né misteri né sceneggiate né minacce né vanità né esibizionismi né uffici prestabiliti né liturgie sacre.
Il re Aragorn Elessar lo sa bene e, alla fine della guerra, si fa incoronare da Gandalf dicendo:

«Lui è stato il fautore di tutto ciò che è stato compiuto e questa vittoria è sua».

Il potere di Gandalf è il dire la verità e – a partire dalle massime universali fino ad arrivare ai consigli pratici e necessari occasione per occasione – il permettere che gli altri abbiano intorno a sé l’ambiente idoneo per pensarla in proprio. Alla fine delle singole storie dei membri della Compagnia, nessuno dipende da Gandalf o cerca di imitare Gandalf: gli hobbit rimangono hobbit, ma più felicemente e pienamente hobbit; gli uomini rimangono uomini ma più pienamente uomini; chi doveva portare l’Anello riesce a portarlo; chi doveva diventare re lo diventa; chi voleva sposarsi si sposa; chi voleva vivere e non morire vive.

E Gandalf parte dai Rifugi Oscuri senza portare via niente dalla Terra di Mezzo: il suo “potere”, veramente efficace, non è, alla fine, nel far dipendere gli altri da sé, ma nel contribuire a farli vivere non dipendenti da nessuno e sempre più amici tra loro.

(da Franco Manni, Lettera ad un amico della Terra di Mezzo)

giovedì 26 dicembre 2013

il sorriso e l'enigma

Nel suo saggio Non ci resta che ridere, Andrea Tagliapietra affronta l'epoca della massa ridente, quell'epoca (la nostra) che segue alle età antica e medioevale (in cui il riso era rispettivamente divino e diabolico, ma comunque sempre trascendente) e radicalizza quella moderna (il cui riso immanente fonda la serietà che modella la struttura della realtà, la sua presa in carico se non la sua docile e acritica accettazione) scivolando "verso la banalità e la grigia quotidianità delle passioni tristi, verso la noia e il trastullo" del riso inautentico, anonimo, finto (Heidegger) dell'ultimo uomo - che "soffre così profondamente da aver dovuto inventare il riso" (Nietzsche) -, quel riso registrato e confezionato delle sit-com, quel riso delle pubblicità e del consumo. 
Un'epoca che rischia la "fine del riso" ha bisogno di ridestare il senso autentico del ridere, di quel "proprio" dell'uomo - come volevano Aristotele ("l'uomo soltanto, fra tutti gli animali, ride") e Porfirio - che è il ridere, diaframmatica e liminare piega tra la ragione e il sentimento, la mente e il corpo, l'interno e l'esterno, il sé e l'altro, che mette profondamente in crisi ogni concezione dualistica di ascendenza cartesiana. Ha bisogno di riconoscere che la drammaturgia del riso mette in atto un perturbante e socratico moto centrifugo che finisce per far riconoscere allo spettatore della scena comica di essere "decentrato rispetto a se stesso, alla sua singolarità e alla presunta stabilità delle sue convinzioni, perché il ridicolo e il comico sostituiscono alla figura della necessità la categoria del caso, dell'accidentalità e della casualità". E ridere per il gioco del caso significa perdere la propria presunta padronanza e mettersi in gioco, relativizzare la realtà mettendola in rapporto di continuità con la possibilità, con il forse potrebbe essere che guasta l'intrasformabilità del reale sostenuta dagli accademici e parlamentari agelasti ("coloro che non ridono", secondo Rabelais) e preserva la ricchezza dell'esperienza umana.
Se ormai "il riso della massa ridente è un'arma spuntata che riconosce la propria debolezza e trasforma la protesta in autoderisione e, quindi, in beffarda e amara rassegnazione", il riso autentico, comico, eversivo, invece, rende percepibile "una frattura, una soluzione di continuità, una sospensione della quotidianità e delle norme logiche" all'interno dell'esperienza della realtà, permettendo di intravedere un'altra dimensione: riconoscendo e cogliendo l'accidentalità e il caso, il riso mette in fibrillazione la realtà, ne destabilizza il significato ideologico come ciò a cui ci si deve adeguare, come ordine costituito cui obbedire, riapre invece i giochi della realtà e permette di pensare la possibilità al posto della necessità e dell'assolutismo. 
E permette di pensarlo non come problema da risolvere, bensì come "enigma che,come tutti i veri enigmi, non chiede soluzione, ma la risoluzione di esserne all'altezza e di saperlo sopportare": il sorriso e l'enigma è il binomio con cui si conclude il saggio di Tagliapietra. "Il sorriso accoglie l'enigma in sé e vi risponde nell'unico modo consentito, ossia dimostrando di esserne all'altezza", di saper sopportare la struttura paradossale della condizione dell'essere umano, la duplicità e l'ambivalenza di chi "luccica di guizzanti enigmi e risate" (Nietzsche).

venerdì 1 novembre 2013

letture di ottobre (III)

Un po' di saggistica in questo mese di nuovo inizio universitario.
Un primo, brevissimo e in definitiva trascurabile, Sono uno spettro ma non lo so di Sergio Benvenuto, un testo senza particolari ed evidenti difetti ma anche un'esperienza di lettura né particolarmente interessante né esteticamente gradevole sulla figura filosofica, simbolica e cinematografica del fantasma e del non morto. Peccato, speravo in qualcosa di più. 
Il secondo è, invece, l'ultimo lavoro di Umberto Curi, L'apparire del bello. Il bello nell'antichità classica (da Omero e i lirici ai filosofi quali Platone, Aristotele e Plotino) è, più che un valore estetico e l'oggetto quindi di una specialistica disciplina, un complesso, non univoco, ossimorico e paradossale ideale di eccedenza più che di presenza, di esperienza straordinaria, di chiamata a valicare un limite, di convocazione oltre le mura di "casa" delle condizioni materiali di vita, di itinerario di mutamento in cui si fondono al bello anche il vero e il virtuoso, di improvviso lampeggiamento e irruzione di un orizzonte altro e meraviglioso/traumatizzante cioè tremendo.

Nell'antichità, del resto, mi ci sono iniziato a (re)immergere parecchio in questo mese, e non potrà che continuare così. 
Due "scurrili" commedie di Aristofane, Gli Acarnesi e Le vespe, contro la guerra e contro il potere fintamente democratico che facendo sgranocchiare briciole al popolo lo rende contento e non solo si conserva ma lo asserve. 
Il dialogo di Platone Gorgia, con il fantastico multiplo parallelismo tra legislazione e giustizia (che politicamente mantengono il benessere dell'anima e ne correggono i mali) e sofistica e retorica, che rispetto alle prime sono come le seduttive e adulatorie cosmesi e culinaria rispetto alla reale e positiva cura del corpo che compete a ginnastica e medicina; ma anche con la straordinaria figura di Callicle, la sua moderna teoria della naturale morale dei forti e migliori piegata dalla legge della moltitudine dei deboli, il suo spiattellare in faccia al solito Socrate i suoi volgari sofismi efficaci solo perché chi dialoga con lui si vergogna di dire ciò che pensa e perciò cade in contraddizione.
Su Socrate e Platone, e proprio sul Gorgia e il Protagora, il saggio di Georgia Zeami e Francesca Presti Daimonicità del lògos, che presenta la mostruosa e demoniaca figura di Socrate, insieme e a un tempo educatore, amante, aperto dialogante, ma anche sapiente e rigido maestro di virtù, nel quale quindi aleggia lo spettro dell'intellettualismo e del moralismo. 

lunedì 13 febbraio 2012

kyle il filosofo

Kyle in South Park lotta per trovare la cosa giusta da fare in ogni situazione, cerca di trovare e comprendere la vita buona, la vita che deriva dal fare la cosa giusta, la vita che dà senso alla persona che la vive. Come Socrate, Kyle non riesce a trovare la felicità seguendo la tradizione.
Nell’episodio Il racket dei dentini, quando i ragazzi scoprono che la fatina del dentino non esiste, Kyle rimane shoccato e sprofonda sempre di più nello scetticismo: se non può fidarsi della sua fonte di giustificazione, poiché i suoi genitori possono mentirgli su tutto, non può dire con certezza di conoscere alcunché. Potrebbe essere tutto “inventato” quindi “niente è reale”.
Per prima cosa Kyle inizia a dubitare della realtà di altre persone che in precedenza pensava fossero reali. Poi inizia a chiedersi se anche lui sia reale. Per quanto ne sa, Kyle potrebbe condurre una vita di illusione come Neo in Matrix. Senza un modo per giustificare le sue credenze, Kyle è incapace di trovare alcuna certezza sul mondo, compreso se stesso.
Kyle arriva però, alla fine, alla stessa conclusione di Cartesio: «Sapete, oggi ho imparato una cosa. Vedete, la base di ogni ragionamento è l’autoconsapevolezza della mente. Ciò che pensiamo, gli oggetti esterni che percepiamo sono come attori che entrano ed escono di scena. Ma la consapevolezza, che è il palcoscenico stesso, è sempre dentro di noi».

(da William J. Devlin, La passione filosofica dell’ebreo. Kyle il filosofo, in South Park e la filosofia)

lunedì 26 settembre 2011

il cristo hegeliano

More about Vita di GesùGià durante il suo periodo di studi presso l'università di Tubinga, il giovane Hegel inizia a mettere a confronto le immagini di Cristo e di Socrate, due voci della libertà tra un popolo di schiavi o fanciulli, due figure "incivili" e rivoluzionarie. In uno dei suoi primi scritti, Vita di Gesù (1795), Hegel contrappone quasi la figura di Cristo alla religione cristiana, vista come una religione alienante, che impone la rinuncia alla dignità umana e alla libertà, che spinge al ripiegamento ad una vita privata ed educa lo sguardo a rivolgersi al cielo. Il principio autenticamente cristiano sarebbe invece, contrapposto a quello giudaico, quello di un Deus in nobis, inteso come una sorta di identificazione di stampo illuministico tra divinità e ragione, tra fede nella divinità e fede nella ragione. Il punto di riferimento, per Hegel, è qui il Kant de La religione entro i limiti della sola ragione, che contrappone ragione e libertà ai dogmatismi e conservatorismi dei rigidi rituali della religione.
Ma il rigorismo dell'insegnamento morale kantiano è "addolcito" dal giovane Hegel grazie al richiamo al pensiero di Schiller. Per Kant il dovere morale è inestetico, la bellezza umana va conquistata con la dignità della fatica, necessaria all'uomo per debellare l'estraneità e la positività della legge morale: ragione e sensibilità, dovere e inclinazione non possono essere immediatamente in armonia: simbolo di questo ideale agonistico del merito è la figura mitica di Ercole, immagine dell'opera di automiglioramento, trasformazione interiore, perfezionamento. O meglio perfettibilità, poiché questa opera, questo lavoro, sono per Kant "infiniti", visto il male radicale presente nell'uomo, che non è certo puro spirito razionale ma costituito da un "legno storto": per questo la forma della legge morale è l'imperativo categorico "tu devi".
Hegel, pur non facendo proprio l'ideale schilleriano dell'uomo come "anima bella", in cui una naturale grazia armonizza immediatamente ragione e sentimento, non considera la sensibilità alla stregua di un nemico da schiacciare, bensì come una facoltà da conciliare, educare, per far perdere rigidità e positività al dovere, per perfezionare la legge, abolendola come puro statuto esteriore, lettera estranea, ma conservandola e rispettandola nello spirito.
Così gli uomini possono passare da individui servili, oggettivi, scissi, a uomini belli, interi, dialettici e che realizzino una comunità vivente in cui non vigano usanze meccaniche, in cui non sia necessario un Dio trascendente di cui si abbia più paura e venerazione che amore, dal quale si faccia dipendere il destino dell'uomo. Il culto della ragione che si è destata e «il sonno della ragione genera mostri» (Goya– sostituisce quello di un Dio tappabuchi con cui instaurare un rapporto caratterizzato da uno spirito bottegaio, da un ritualismo farisaico, da una fede legalistica e ipocrita.
L'uomo deve essere autonoma guida a se stesso in questo cammino di automiglioramento, deve raggiungere una piena maturità che lo affranchi sia da una religione a lui estranea sia da una sensibilità egoistica e non etica.

martedì 12 aprile 2011

barbara gordon e la perfettibilità morale

La storia di Barbara Gordon illustra i temi chiave della perfettibilità morale, teoria filosofica rintracciabile ovunque ci siano vicende relative al progresso morale di individui. Il tema centrale della perfettibilità morale è che il sé può migliorare e che una vita veramente morale è quella in cui il sé tenta continuamente di progredire. Altre tematiche riguardano il ruolo che i modelli e gli amici giocano nella propria ricerca di un progresso morale, e i continui pericoli di un inappropriato conformismo nella propria avventura morale, nello sviluppo di un sé morale ben distinto.
In Batgirl: Anno uno, abbiamo un accesso diretto ai pensieri di Barbara Gordon: «Voglio entrare in azione. Qualcosa che mi faccia uscire da dove sono, da dove non voglio essere». Questo momento nella vita di Barbara è accostabile a un passaggio del saggio Sulla libertà del filosofo John Stuart Mill: «In questi tempi, dalle classi più alte alle più basse della società, ognuno vive come sotto l’occhio di un ostile e terribile censore. Non ci si chiede cosa preferisco? Cosa si adatta al mio carattere e alle mie attitudini? Cosa permetterebbe al meglio che c’è in me di avere spazio e possibilità per crescere e prosperare?». La via di uscita da questa condizione meno che desiderabile è porre attenzione ai propri desideri. Barbara Gordon chiaramente fa esperienza di una pressione a conformarsi a ciò che suo padre vuole e che la società in generale si aspetta da una giovane donna della sua età, e trova questa condizione indesiderabile: «Devo trovare un altro cammino. Indovinare il mio proprio futuro, uno unicamente mio. Non una pagina del libro di un altro. Posso diventare qualcosa di più, qualcosa di più alto. Uscita dal guscio in cui ero, emergerò migliore. Mi alzerò con nuove ali. Come una falena, o un pipistrello».
Barbara ha bisogno, come tutti, di un modello, un paradigma, un mentore che la aiuti a rappresentarsi chi è, o meglio chi vorrebbe essere. Il ruolo di un modello nella ricerca per una vita morale ha una lunga storia che può essere fatta risalire almeno a Socrate e ai suoi seguaci. Questi erano essenzialmente giovani che percepivano nella vita di Socrate un orientamento verso il bene verso cui anche loro erano trascinati. Ma ci sono dei pericoli nel basarsi su un simile rapporto. Fondamentale è che il modello non deve essere emulato. Friedrich Nietzsche nel suo saggio su Schopenhauer come educatore afferma: «È difficile creare in qualcuno una condizione di intrepida autoconoscenza perché è impossibile insegnare l’amore; perché è solo l’amore che può concedere all’animo non solo una visione chiara, discriminante e auto-sprezzante di sé, ma anche il desiderio di guardare oltre se stesso e ricercare con tutte le proprie forze un più alto sé ancora celato». Ricercare un sé più alto ma ancora celato è esattamente ciò che Barbara Gordon sta facendo. La parola iniziale di Batgirl: Anno uno è “maschere”. La maschera rivela l’identità. La maschera metaforica che indossa all’inizio è precisamente quella che nasconde il suo più alto sé. È ciò che potremmo chiamare la maschera da “Barbara Gordon”, il guscio che circonda la bibliotecaria e nipote del tenente James Gordon. È solo quando indossa la maschera da Batgirl che inizia il suo viaggio verso un più alto sé, il sé futuro, quello che non conosce ancora. È in Batman che Barbara cerca un riconoscimento, gli chiede di accettare il suo desiderio per un sé migliore. Ha bisogno che il suo desiderio venga riconosciuto, ha bisogno di sapere che esso ha un senso per gli altri come sorta di conferma che ne abbia per lei. Allo stesso tempo, mentre è chiaro che Batman è il suo modello, è altrettanto chiaro che il cammino individuale di Barbara non può essere semplicemente una copia di quello di Batman. il percorso di ognuno deve essere radicato nelle esperienze e nei desideri individuali, e il ruolo di Batman come modello è quello di rimandare indietro a Barbara l’immagine della legittimità e della specificità del suo proprio desiderio per un sé migliore.
Sarebbe un malinteso, però, ritenere che esista un unico giusto sé, un unico sé più alto e migliore che è l’obiettivo finale della ricerca, che la ricerca possa finire, il gioco terminare. Perché tanta gente dovrebbe lottare con forme inappropriate e in autentiche di conformismo se la genuina individualità fosse così chiara e semplice da raggiungere? Barbara – anche una volta divenuta Batgirl – riconosce che il sé che spera di raggiungere, che è in cammino per raggiungere, è provvisorio. L’ultima frase di Batgirl: Anno uno esprime la fragilità del presente e ironicamente presagisce il futuro: «Nonostante il mio grande e immutato rispetto per gli oracoli, ho deciso di rinunciare a predizioni e portenti. C’è ciò che potrebbe essere e c’è la vita che conduco in questo momento». In Oracle: Anno uno, Barbara inizia il lungo processo di recupero dalle ferite inferte dal Joker – sulla graphic novel di Alan Moore The Killing Joke – al suo corpo e alla sua mente e di trasformazione in Oracolo, e questo passa necessariamente attraverso un allontanamento da Dick Grayson, precedentemente assistente di Batman come Robin che ha ora assunto la nuova identità di Nightwing. Barbara decide che non può più vederlo, avendo compreso che Dick è diventato semplicemente un altro Batman. Barbara ha diagnosticato la possibilità latente in una versione deformata della perfettibilità morale, quella in cui la ricerca per un sé più alto si trasformi nel divenire niente più che una semplice copia del sé più alto di un’altra persona. Vedere Nightwing non smette di ricordarle ciò che era prima, le presenta qualcosa come un modello retrogrado che la spinge indietro verso il cammino passato. Così Barbara riconosce il modo in cui il passato stesso può intrappolarci in una sorta di conformismo, o ciò che John Stuart Mill chiamava un costume, uno schema  abituale.
A volte non è il riconoscimento e la guida di un modello ciò di cui abbiamo bisogno, ma qualcuno che semplicemente ascolti i nostri tentativi di capire noi stessi, di arrivare a una qualche misura di autocoscienza. Un amico è precisamente quella persona che in ogni momento sa accompagnarti nel tuo viaggio ascoltandoti con orecchie limpide, incoraggiandoti e supportandoti quando è ciò che ti serve. L’amicizia stimola a migliorare, spinge nella direzione della crescita, verso un sé non raggiunto ma raggiungibile.

(da James B. South, Barbara Gordon and moral perfectionism, in Superheroes and philosophy)

 

lunedì 21 marzo 2011

humpty dumpty, maestro di logica

I Sofisti dell’antica Grecia hanno molto in comune con molte delle loquaci creature che Alice incontra nelle sue avventure. Ma Alice stessa emerge come una sorta di eroina socratica nella sua insistenza nell’usare la ragione per scoprire la verità piuttosto che sfruttare le risorse di una logica puramente formale per ridurre il mondo a un volontario non-senso, per giustificare conclusioni totalmente arbitrarie. Il motivo eristico del dimostrarsi migliore del proprio avversario nell’argomentazione è più evidente che mai nell’incontro di Alice con Humpty Dumpty: “Perché te ne stai seduto lì tutto solo?”, chiede Alice. “Perché non c’è nessuno con me”, grida Humpty Dumpty, “Pensavi che non conoscesi la risposta a questo?”. La risposta è perfettamente logica ma in nessun modo informativa. L’attenzione non è posta sul significato della domanda, ma solo sulla forma in cui è posta. 
C’è una distinzione tra significato e forma di nuovo nel seguente dialogo: “Ecco una domanda per te”, annuncia Humpty Dumpty, “Quanti anni hai detto che hai?”. Alice fa un rapido calcolo e risponde “Sette anni e sei mesi”. “Sbagliato!”, esclama trionfante Humpty Dumpty, “Non hai mai detto una parola a riguardo!”. “Pensavo che intendessi quanti anni hai”, spiega Alice. “Se avessi inteso ciò, lo avrei detto”. 
La connotazione, il significato di una parola nell’effettivo parlato, è spesso differente dalla denotazione, la definizione letterale da dizionario. Allo stesso modo ragionano altri abitanti del Paese delle Meraviglie. “Cosa vuoi comprare?”, dice la Pecora alzando lo sguardo dal suo lavoro a maglia. “Ancora non lo so”, risponde Alice gentilmente, “Vorrei prima guardarmi tutto intorno, se posso”. “Puoi guardare davanti a te, e da entrambi i lati, se vuoi”, dice la Pecora, “ma non puoi guardarti tutto intorno – a meno che tu non abbia occhi dietro la tua testa”. Alla replica di Alice all’offerta di “più the” della Lepre Marzolina –  “Non ne ho avuto per niente”, replica Alice in tono offeso, “non posso prenderne di più” – questa risponde: “Intendi che non puoi prenderne meno”, dice la Lepre Marzolina, “è molto facile prenderne più di niente”.
Ma il trionfo e non la verità è l’obiettivo di Humpty Dumpty. Egli vince i due scambi precedenti restringendo il significato delle parole e delle frasi a livello letterale o denotativo, ma poi le svincola da ogni significato fissato: “Quando uso una parola”, dice Humpty Dumpty in tono di disprezzo, “essa significa solo ciò che ho scelto significhi – né più né meno. La questione è chi deve essere il padrone – questo è tutto”. L’intenzione di Humpty Dumpty non è mai stata quella di scoprire il vero significato di ciò che viene detto, ma solo quella di esercitare una sorta di falsa padronanza.
Questo trattamento delle parole come oggetti di dominio piuttosto che strumenti di scoperta governa molto di ciò che avviene nel Paese delle Meraviglie, come il processo nel quale la Regina di Cuori domanda “La sentenza prima, il verdetto poi”. Le argomentazioni sono dettate da un verdetto predeterminato. Vengono sempre prima le conclusioni, le prove e gli argomenti dopo, all’opposto che in un vero dialogo.

(da George A. Dunn, Brian McDonald, Six impossible things before breakfast, e Daniel Whiting, Is there such a thing as a language?, in Alice in Wonderland and Philosophy)

venerdì 18 marzo 2011

platone, nietzsche, popper e il mito del pipistrello

Il Cavaliere Oscuro, quarto episodio della serie di film ispirata all'eroe dei fumetti Batman, ha tutto quello che è possibile trovare in un film. La struttura classica di eroe e deuteragonista è ovviamente lì, impersonata da Batman e Joker. Non manca nemmeno il coro della tragedia greca, rappresentato dai due interlocutori dell'Uomo-pipistrello, il maggiordomo Alfred e il manager Lucius. Gli attori sono belli e carismatici, c'è una storia d'amore e non manca il Rocambole, con inseguimenti, esplosioni, voli notturni, botte da orbi a metà tra 007 e un videogioco. Le scene sono girate magistralmente e la storia alterna suspense, imprevisti, ironia, tensione.
Volendo proprio divertirsi in percorsi ipertestuali, sbizzarrendosi a fare collegamenti, Il Cavaliere Oscuro può rappresentare una grande metafora della lotta tra Sistemi Filosofici. In che senso?
Ebbene, in questo film, si presentano tre diverse visioni della vita. Harvey Dent, il nuovo Procuratore distrettuale, ha le idee chiare sul Bene e il Male, sulle regole da seguire, ed è pronto al sacrificio personale. Joker è un anarchico pazzoide: non vuole i soldi né il potere, ma si diverte uccidendo senza freni morali, con grande teatralità e intelligenza. Batman e il tenente Gordon ammirano Dent, sanno più o meno qual è il Bene cui tendere, ma si rassegnano a sporcarsi le mani, a utilizzare mezzi a volte non ortodossi, mantenendo un difficile equilibrio tra regole inviolabili e adeguamento dei mezzi ai fini.
È un confronto tra titani: Platone, Nietzsche e Popper si combattono in un agone in cui idealismo, nichilismo nella sua variante decostruttivista ed empirismo critico sono i vessilli.
Joker è allo stesso tempo Dadà e Derrida, il filosofo poststrutturalista francese. Derrida, che si ispira a Nietzsche, Freud e Heidegger, afferma che la filosofia occidentale è sempre andata alla ricerca di un Senso ultimo, attraverso la contrapposizione binaria di due elementi di cui uno buono e l'altro decadente (logos e scrittura è l'accoppiata che più lo intriga). Tutto sbagliato, non c'è senso, viviamo in una aporia senza un Centro di Gravità e concetti come verità, essenza, presenza, la soggettività dell'io vanno demistificati. Ma questa aporia non è negativa, è «la gioiosa affermazione del gioco del mondo e dell'innocenza del divenire». Senza freni, giocoso, immorale, esistente in quanto creatore al di sopra degli altri, in una parola, Joker.
Dent è un anziano Socrate, il più platonico. Alla ricerca del Bene ultimo, sa che il mondo terreno, quello quotidiano, è una pallida imitazione di quello delle Idee, l'Iperuranio dove risiede la Giustizia-insé. Ma lui, Filosofo-Giustiziere cerca di raggiungerlo, pronto al martirio pur di non commettere ingiustizia. Peccato che quando il sistema dei puri crolla, il puro possa diventare massimamente impuro.
Infine abbiamo Popper e tutta la cricca di empiristi per lo più anglosassoni e scozzesi come David Hume. Essi vivono tra conseguenze inintenzionali dell'operato umano e se ne rendono conto. Batman assesta colpi alla Mafia, ma scatena la violenza incontrollata di Joker. Gordon si serve dei poliziotti più efficienti chiudendo un occhio sulla loro corruttibilità e ottiene perciò dolori e sconfitte. E i due non sono nemmeno sicuri del Fine Ultimo: una Gotham perfetta? Non si arrischiano a immaginarla, ricercano tra tentativi e errori un metodo, falsificabile e senza garanzia di permanenza («Il fatto che il Sole sorga ogni giorno non ci assicura che sorgerà domani» avrebbe chiosato Hume), ma la loro filosofia è proprio questa, una ricerca senza fine, cercando di violare il meno possibile i diritti degli altri (che non coincidono necessariamente con il Diritto Positivo).
Non vi convince? Beh, guardate dentro voi stessi: ognuno di noi ha dei momenti in cui si sente nel Giusto e si aggrappa a un suo Centro di Gravità, altri che lo portano a trasgredire e giocare, trovando in se stesso, piccolo superuomo, l'arte creatrice che lo esalta. E poi, nella maggior parte del tempo, si attiene a dei principi di buon senso e umanità, imparando dai propri sbagli e cercando vie nuove.
Questa tripartizione Platone la identificava nell'anima appetitiva, in quella irascibile e in quella razionale. Freud nell'Ego, Superego ed Es. Chi non ha voglia di rileggere questi Maestri del Pensiero può però andare a vedersi Il Cavaliere Oscuro: come avrebbero detto anche loro, «it's a great fun».

(da Alessandro De Nicola, Platone, Nietzsche, Popper e il mito del Pipistrello, su "Il Sole 24 Ore" del  23 luglio 2008)

sabato 5 marzo 2011

solo aria calda o gioventù corrotta?

Sia Socrate sia South Park sono stati accusati di empietà e corruzione dei giovani; ma, come Socrate, South Park non fa male a nessuno: la filosofia e South Park, al contrario, istruiscono le persone e forniscono loro gli strumenti intellettuali necessari per diventare saggi, liberi e buoni.
I genitori di South Park corrompono i figli molto più di quanto potrebbe mai fare un programma televisivo.
In parte ciò che rende South Park filosoficamente interessante è il contrasto tra la stupidità malvagia di Cartman e la virtù non conformistica e riflessiva di Kyle e Stan: i due amici raggiungono una posizione virtuosa in parte negoziando e ascoltando i diversi punti di vista prima di giungere alla loro conclusione attraverso le domande e il ragionamento, e spesso la loro conclusione ammette che c’è della verità in ogni posizione, ma anche che la sua prospettiva limitata rimane pericolosa. Stan e Kyle, a differenza di Cartman, imparano a guardare le cose dal punto di vista altrui attraverso la loro continua conversazione.
Pensare comporta vedere le cose con gli occhi altrui, nel dialogo e nella riflessione. Si tratta quindi di un dialogo sia interno che esterno, ed è solo attraverso questo dialogo che la riflessione critica e la bontà diventano possibili. Vivere bene significa basarsi sulla pluralità, è l’amicizia ciò che aiuta a essere buoni.

(da William W. Young III, La flatulenza e la filosofia. Molta aria calda, o la corruzione della gioventù?, in South Park e la filosofia)

giovedì 3 marzo 2011

le missioni di neo e socrate

Questioni e missioni
Neo è in missione per salvare la razza umana inintenzionalmente schiava dell’intelligenza artificiale. Anche Socrate è in missione, una missione per conto di (un) dio – Apollo –, rivelata al suo amico Cherofonte dall’oracolo di Delfi. La missione che Socrate deve scegliere di accettare era di “risvegliare” la gente della sua città, Atene.
Trinity dice a Neo: «È la domanda a guidarci». La loro domanda: «Che cos’è Matrix?». Anche Socrate, come Neo, ha «un chiodo fisso nel cervello» e una domanda guida: «Qual è la vita migliore?». Per entrambi, il domandare è foriero di guai. Socrate si ritrova sotto processo, accusato di empietà e di corruzione della gioventù; Neo è accusato dagli Agenti di aver «commesso ogni crimine informatico concepibile e attualmente perseguibile».
Allo stesso modo di Neo, l’avventura eccezionale di Socrate è scaturita dalle parole di un oracolo.
Che cosa ha detto l’Oracolo?
L’Oracolo ha predetto a Morpheus che troverà l’Eletto, l’unico in grado di interrompere il dominio di Matrix e di liberare l’umanità con la verità. Quindi Morpheus scollega Neo e, dopo riabilitazione fisica e kung fu fighting, lo conduce dall’Oracolo per la conferma. Neo oppone resistenza a questa grande possibilità, e rifiuta l’idea che la sua vita sia in certa misura predestinata. Anche Socrate, analogamente, oppose resistenza al proprio destino. Socrate ci dice di essersi proposto allora di confutare le parole profetiche dell’Oracolo.
L’Oracolo nel corso del loro incontro elargisce dei consigli schietti. Indicando una scritta sulla porta della propria cucina, chiede a Neo se sa cosa significhi. È latino, gli dice, significa: “Conosci te stesso”. Questo motto è di fatto la chiave per comprendere il senso della profezia dell’Oracolo. La stessa frase era scritta in greco nel tempio di Apollo a Delfi.
La conoscenza di se stessi è la chiave, e senza di essa non possiamo avere accesso a nessun’altra conoscenza veramente tale.

(da William Irwin, Computer, caverne e oracoli: Neo e Socrate, in Pillole rosse. Matrix e la filosofia)

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