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lunedì 7 aprile 2025

essere se stessi, essere per gli altri (filosofia di evangelion 1di2)

Di Fausto Lammoglia avevo già letto e apprezzato Filosofia di L'attacco dei giganti, un saggio popfilosofico che non è una lezione di filosofia in cui si studiano i grandi filosofi attraverso un prodotto della cultura pop, ma un dialogo con un prodotto di pop culture per fare insieme a esso e al lettore filosofia. Dello stesso tenore e valore si rivela anche questo appena uscito Filosofia di Neon Genesis Evangelion, che non spiega la filosofia attraverso la serie televisiva anime sceneggiata e diretta da Hideaki Anno e prodotta dallo studio Gainax - capolavoro denso e terribile quanto Essere e tempo di Martin Heidegger -, piuttosto fa attraversare al suo lettore domande profonde da abitare.

Prima domanda: essere se stessi. Partendo dall'imprescindibilità del corpo: Shinji e tutti i piloti non guidano gli Eva da remoto, ma entrano in simbiosi con la loro unità provando dolore fisico tanto da passare più tempo in ospedale che a bordo, e sotto la corazza delle unità Evangelion non ci sono cavi ma carne e sangue tanto che la loro vera natura è la loro animalità e fisicità. Shinji dovrà imparare da e con il suo corpo, riconoscere ciò che sente e prova, per potersi impossessare della sua persona, per imparare a essere se stesso. Rivelatore il fatto che le entry plug siano posizionate nella nuca e che il quinto chakra che connette anima e corpo sia proprio quello del collo (come avviene, del resto, anche in Attacco dei giganti, noto è il debito di stima che Isayama ha con l'opera di Anno).
Per essere se stessi è anche però necessario il riconoscimento attraverso l'altro - come ha chiaramente spiegato Hegel -, e infatti i piloti degli Eva cercano continuamente di essere riconosciuti come portatori di valore. Shinji, pur volendo continuamente fuggire, affronta le prove quali tentativi di recuperare un significato esistenziale agli occhi degli altri - quasi che implori preoccupatevi per me, prestatemi attenzione, siate gentili con me, abbiate cura di me. Asuka cerca di ottenere il suo posto nel mondo brillando in ciò che fa (a scuola, come pilota) e cercando di imporsi come donna (anche se così perde in partenza la sua possibilità di essere riconosciuta come persona poiché alla fine presenta se stessa come oggetto). 

L'incontro con l'altro diventa esperienza di limite e confronto, di revisione e ricostruzione della propria identità. E così la seconda domanda è: essere per gli altri. Come insegna il dilemma del porcospino presentato da Schopenhauer, è molto complesso trovare la distanza adeguata per poter essere se stessi insieme agli altri. La soluzione più semplice per essere riconosciuti sarebbe quella di assecondare l'altro, ma il rischio è così quello di non trovare una propria identità autonoma. Identificando se stessi con le aspettative altrui e sociali, con comportamenti culturalmente codificati, con funzioni strumentali ed etichette lavorative o legate al genere, si finisce per convogliare le energie vitali nella performatività, in modo da aderire quanto più perfettamente ad un ruolo, e ciò porta l'individuo pericolosamente vicino a esplodere o implodere, soverchiato dalla pressione sociale come spiega Marcuse. Si semplifica la vita, si rinuncia a scegliere per evitare le responsabilità che ne conseguono, ma si rimane ingabbiati in un'esistenza inautentica.
I piloti delle unità Eva fanno tutto ciò che fanno per essere riconosciuti e, di conseguenza, per riconoscersi. Convinti di non aver valore di per sé, i piloti trovano un loro significato nelle etichette che hanno ricevuto: l'Eva, la loro funzione, è tutto ciò che hanno, ossia tutto ciò che sono. Combattono per mettersi in mostra, per eccellere, per poter essere lodati, riducendo il loro essere alla loro funzione - ad eccezione di Toji che mostra invece una dimensione relazionale dell'esistenza e non prestazionale. Ma ridursi alla propria performatività, al bisogno di apparire e soddisfare una richiesta proveniente da altri, dissolve la possibilità di essere per sé, come spiega Sennett.
In fondo è tutta questione di distanze. Il cammino di Shinji è il tentativo di trovare un equilibrio tra l'isolamento e la dissoluzione negli altri; l'equilibrio necessario a non ferirsi senza per questo rimanere solo.

lunedì 21 maggio 2012

critica come passione durevole

Il libro vorrebbe essere una professione di libertà, e più precisamente una rivendicazione della propria consapevole scelta di insubordinazione ragionata, di rifiuto di partecipare alla propria stessa alienazione all'interno della gabbi d'acciaio globale, seguendo l'invito di Horkheimer a evitare la "pacificazione personale del filosofo in un mondo disumano" (Teoria tradizionale e teoria critica).
Occorre subito chiarire che l'orizzonte in cui ci muoviamo è costituito dal rifiuto incondizionato del proprio mondo storico e dalla complementare tensione verso un futuro diverso e migliore, seguendo le suggestioni della blochiana "ontologia-del-non-ancora". A differenza della fede, che rende inattivi e induce alla docile accettazione del "mondo-così-com'è", il principio di speranza è antiadattivo e rivolto alla prassi: spezzando la mistica della necessità e facendo balenare l'idea di un futuro alternativo, esso, con il suo "ottimismo militante", risveglia dal torpore e spinge a un'azione orientata a far sì che il futuro intenzionato trovi cittadinanza tra le pieghe del reale. Il principio di speranza ci ricorda che l'"essere-secondo-possibilità" è la stoffa di cui è intessuto il reale e che, di conseguenza, si dà sempre l'opportunità di "essere-diversamente-da-come-si-è", di riprogrammare la sintassi del mondo quand'anche esso, come oggi accade, venga proclamato intrasformabile.
Nel contesto dell'odierna alienazione globale, non esiste alcuna etica possibile se non di opposizione e di resistenza, un'etica cioè che, ispirata al monito di Adorno circa la falsità dell'intero, dia luogo a un consapevole rifiuto della totalità in cui si è proiettati. In questa strategia foucaultiana di "indocilità ragionata" (Illuminismo e critica), di consapevole disobbedienza all'ordine del mondo e di rivendicata libertà di "dire-di-no", sono nostri preziosi alleati tanto il Marcuse del "Grande Rifiuto" quanto il più prosaico scrivano Bartleby e il suo ostinato I would prefer not to. Si tratta di maturare una coscienza infelice rispetto all'esistente che permetta di "innalzarsi sopra la propria particolarità" empirica e di "dar luogo a una passione durevole", critica e antiadattiva, che induca all'adesione alla propria potenziale universalità emancipata, invocando - secondo la prospettiva di Bloch - "ciò che non c'è ancora, cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale" (Spirito dell'utopia).

(Diego Fusaro, Minima mercatalia)

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