Pages

Visualizzazione post con etichetta hegel. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta hegel. Mostra tutti i post

lunedì 14 luglio 2025

fascismo liberale

Il volume Trump e il fascismo liberale raccoglie e riunisce una serie di scritti di Slavoj Žižek composti tra il giugno 2024 e l'aprile 2025 e dedicati alla figura di Donald Trump e al concetto di fascismo liberale. Quello che sembra essere descritta e analizzata è l'emersione di un progetto politico che punta a ridefinire l'ordine geopolitico mondiale secondo una nuova logica di potenza, scavalcando le mediazioni diplomatiche e le forme multilaterali. Trump non sarebbe allora un imprevedibile outsider - come magari nel 2016 - ma il sintomo maturo di una trasformazione strutturale dell'ordine politico occidentale: dagli attacchi alla stampa al rifiuto di ogni mediazione istituzionale, fino alla normalizzazione di pratiche apertamente autoritarie, il femonemo trumpiano non appare dunque come eccezione ma come forma estrema di ciò che è già diventato norma. Trump non è allora una frattura rispetto all'ordine liberale, ne è piuttosto la radicalizzazione grottesca: libertà come obbedienza volontaria, eccesso come autenticità, violenza come diritto. Perché liberalismo e fascismo funzionano assieme, sono le due facce della stessa medaglia, e l'autoritarismo di Trump è anche il sogno di consentire al mercato di funzionare liberamente nella sua forma più distruttiva, nel più brutale perseguimento del profitto e nel discredito per ogni moderazione etica.

Trump è un leader iperpresente, la cui autorità si fonda sulla volontà, e che disprezza apertamente la cultura, ed è proprio questo teatro ribelle, antisistema, a costituire per molti il punto principale d'identificazione. Ecco perché gli insulti seriali di Trump e le sue menzogne plateali, per non parlare del fatto che sia un criminale condannato, funzionano a suo favore: il suo trionfo ideologico sta nel fatto che i suoi seguaci vivono la propria obbedienza come una forma di resistenza sovversiva. Si può sostenere un leader fascista in ascesa con un atteggiamento di totale obbedienza e sentendosi allo stesso tempo radicali.
Trump non prova nemmeno a mascherare le contraddizioni o i continui cambiamenti di posizione: giorno dopo giorno, dice di getto ciò che gli passa per la mente come risultato della sua pienamente consapevole assunzione del ruolo di Maestro al di là della legge e della logica, un maestro che afferma il proprio potere cambiando continuamente ciò che sostiene. L'opacità assoluta di questi atti rende la sua autorità assoluta.
Lo stile della performance pubblica
di Trump - dire qualunque cosa gli passi per la testa, insultare, infrangere ogni regola di buona educazione - non ha nulla di liberatorio, ma serve solo a rafforzare l'oppressione e la mistificazione sociale: le vere questioni politiche, economiche e ideologiche sono più invisibili che mai. Il problema non è che Trump sia un clown, il problema è che dietro le sue provocazioni c'è un programma, c'è un metodo nella sua follia. Le sue oscenità sono parte di una strategia populista per vendere questo programma fatto di tagli alle tasse per i ricchi, meno sanità e protezioni per i lavoratori ecc
Trump promette libertà, deregolamentazione, più, ovviamente, l'assenza di libertà per chiunque critichi la sua politica, stabilendo ciò che si può definire totalitarismo liberale. Proprio perché il limite istituzionale della nostra libertà è la forma stessa della nostra libertà, conta come questo limite è strutturato, qual è la forma concreta di questo limite. L'inganno di chi detiene il potere consiste nel presentare la propria forma di questo limite come la forma della libertà in quanto tale, così che ogni lotta contro di loro appaia come una lotta contro la società libera in quanto tale. Trump presenta la sua forma di libertà come la forma della libertà in quanto tale, così che qualsiasi critica possa essere rappresentata come un attacco alla libertà stessa, ed egli avrebbe pertanto pieno diritto di difenderla da questi attacchi con ogni mezzo necessario, inclusi il licenziamento dei dissidenti, la loro esclusione dallo spazio pubblico o persino il loro arresto. La libertà trumpiana richiede così un intervento statale ancora più forte di quello invocato dalla cancel culture - di cui i trumpiani sono grandi oppositori -, finendo per fare esattamente la stessa cosa, in modo molto più brutale.

Il regno di Trump non rischia di portare a eventi catastrofici, ma - peggio - il rischio è che la vita continui passando però attraverso una serie di misure che minerà il patto sociale liberal-democratico trasformando il tessuto profondo che tiene insieme ciò che Hegel chiamava Sittlichkeit e Lacan il "Grande Altro": l'insieme non scritto di costumi e regole riguardanti cortesia, verità, solidarietà sociale, diritti delle donne ecc. Questo nuovo mondo apparirà come la normalità, e in questo senso il regno di Trump potrebbe davvero segnare la fine del mondo, di ciò che di più prezioso la nostra civiltà aveva costruito - e questo nuovo mondo sarà multipolare, nel senso che un pugno di Stati forti definiranno ciascuno la propria sfera di influenza e limiteranno la sovranità dei vicini più piccoli: una realtà che ricorda in modo inquietante 1984 di George OrwellIl discorso trumpiano rappresenta dunque una minaccia per la sostanza stessa della nostra vita sociale, contribuendo direttamente alla disintegrazione sociale. La mancanza di buone maniere esclude semplicemente l'altro dalla comunicazione.

Che fare? Secondo il filosofo sloveno, per quanto riguarda l'Europa, essa dovrà (ri)definirsi chiaramente - e qui già sorgono problemi con gli Stati e le forze populiste contrarie all'Europa unita e alla sua eredità emancipatrice. Di questa ridefinizione fanno parte anche l'autonomia militare e la riformulazione della sua politica economica in direzione di un maggior coordinamento e della pianificazione su ampia scala.
Per quanto riguarda la sinistra, il populismo trumpiano è una reazione allo Stato sociale liberal-democratico che si è avviato verso la propria autodistruzione (oltre che verso l'impotenza) nel momento in cui ha concentrato la propria attenzione sulle politiche identitarie: la pseudo-lotta di classe trumpiana è il ritorno del rimosso della sinistra liberal incentrata sulle identità. Il compito è dunque raccogliere gli obiettivi generali dalla sinistra, senza il suo spirito censorio e rancoroso, e dal populismo trumpiano, invece, la volontà irriverente di cambiamento, perché comunque solo attraverso un diverso investimento passionale può emergere qualcosa di nuovo.

lunedì 7 aprile 2025

essere se stessi, essere per gli altri (filosofia di evangelion 1di2)

Di Fausto Lammoglia avevo già letto e apprezzato Filosofia di L'attacco dei giganti, un saggio popfilosofico che non è una lezione di filosofia in cui si studiano i grandi filosofi attraverso un prodotto della cultura pop, ma un dialogo con un prodotto di pop culture per fare insieme a esso e al lettore filosofia. Dello stesso tenore e valore si rivela anche questo appena uscito Filosofia di Neon Genesis Evangelion, che non spiega la filosofia attraverso la serie televisiva anime sceneggiata e diretta da Hideaki Anno e prodotta dallo studio Gainax - capolavoro denso e terribile quanto Essere e tempo di Martin Heidegger -, piuttosto fa attraversare al suo lettore domande profonde da abitare.

Prima domanda: essere se stessi. Partendo dall'imprescindibilità del corpo: Shinji e tutti i piloti non guidano gli Eva da remoto, ma entrano in simbiosi con la loro unità provando dolore fisico tanto da passare più tempo in ospedale che a bordo, e sotto la corazza delle unità Evangelion non ci sono cavi ma carne e sangue tanto che la loro vera natura è la loro animalità e fisicità. Shinji dovrà imparare da e con il suo corpo, riconoscere ciò che sente e prova, per potersi impossessare della sua persona, per imparare a essere se stesso. Rivelatore il fatto che le entry plug siano posizionate nella nuca e che il quinto chakra che connette anima e corpo sia proprio quello del collo (come avviene, del resto, anche in Attacco dei giganti, noto è il debito di stima che Isayama ha con l'opera di Anno).
Per essere se stessi è anche però necessario il riconoscimento attraverso l'altro - come ha chiaramente spiegato Hegel -, e infatti i piloti degli Eva cercano continuamente di essere riconosciuti come portatori di valore. Shinji, pur volendo continuamente fuggire, affronta le prove quali tentativi di recuperare un significato esistenziale agli occhi degli altri - quasi che implori preoccupatevi per me, prestatemi attenzione, siate gentili con me, abbiate cura di me. Asuka cerca di ottenere il suo posto nel mondo brillando in ciò che fa (a scuola, come pilota) e cercando di imporsi come donna (anche se così perde in partenza la sua possibilità di essere riconosciuta come persona poiché alla fine presenta se stessa come oggetto). 

L'incontro con l'altro diventa esperienza di limite e confronto, di revisione e ricostruzione della propria identità. E così la seconda domanda è: essere per gli altri. Come insegna il dilemma del porcospino presentato da Schopenhauer, è molto complesso trovare la distanza adeguata per poter essere se stessi insieme agli altri. La soluzione più semplice per essere riconosciuti sarebbe quella di assecondare l'altro, ma il rischio è così quello di non trovare una propria identità autonoma. Identificando se stessi con le aspettative altrui e sociali, con comportamenti culturalmente codificati, con funzioni strumentali ed etichette lavorative o legate al genere, si finisce per convogliare le energie vitali nella performatività, in modo da aderire quanto più perfettamente ad un ruolo, e ciò porta l'individuo pericolosamente vicino a esplodere o implodere, soverchiato dalla pressione sociale come spiega Marcuse. Si semplifica la vita, si rinuncia a scegliere per evitare le responsabilità che ne conseguono, ma si rimane ingabbiati in un'esistenza inautentica.
I piloti delle unità Eva fanno tutto ciò che fanno per essere riconosciuti e, di conseguenza, per riconoscersi. Convinti di non aver valore di per sé, i piloti trovano un loro significato nelle etichette che hanno ricevuto: l'Eva, la loro funzione, è tutto ciò che hanno, ossia tutto ciò che sono. Combattono per mettersi in mostra, per eccellere, per poter essere lodati, riducendo il loro essere alla loro funzione - ad eccezione di Toji che mostra invece una dimensione relazionale dell'esistenza e non prestazionale. Ma ridursi alla propria performatività, al bisogno di apparire e soddisfare una richiesta proveniente da altri, dissolve la possibilità di essere per sé, come spiega Sennett.
In fondo è tutta questione di distanze. Il cammino di Shinji è il tentativo di trovare un equilibrio tra l'isolamento e la dissoluzione negli altri; l'equilibrio necessario a non ferirsi senza per questo rimanere solo.

domenica 5 gennaio 2025

(re)iniziare da tolkien

I primi due libri letti quest'anno - anno per il quale ho posto l'obiettivo della mia reading challenge di Goodreads a 104 libri in un anno, stante che nel 2024 sono riuscito a leggerne 138 e che i 104 li avevo raggiunti o superati anche nel 2021 e nel 2022 - sono stati due romanzi di J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion e I figli di Húrin.

Con Tolkien cominciai nell'estate tra la seconda e la terza superiore - quindi a 16 anni, quindi quasi 30 anni fa - durante la quale lessi Il Signore degli anelli. Rilessi la saga negli anni dell'università, insieme a Il Silmarillion e Lo Hobbit. E poi ne feci una terza lettura nel 2020, quando consigliandolo a un mio studente in cerca di epicità scelsi di (ri)fare quel viaggio della compagnia, attraverso le due torri e fino al ritorno del re con lui.
Ora ho riletto per la seconda volta la storia che dalla musica degli Ainur arriva agli anelli del potere e alla Terza Età. Il pretesto per tale rilettura è stato il prossimo incontro del gruppo di lettura che faremo a scuola a febbraio, e che avrà per tema su cui confrontarsi e scambiarsi consigli quello dell'albero. Certo, nella saga tolkieniana gli alberi rivestono un ruolo, a partire appunto dall'inizio dei giorni, momento dal quale il destino dei due alberi di Valinor diventano il perno di tutte le narrazioni. Con loro comincia anche il calcolo del tempo: Nel giro di sette ore, la gloria di ciascuno dei due alberi raggiungeva il pieno e svaniva nel nulla; e ciascuno tornava alla vita un'ora prima che l'altro cessasse di splendere. Sicché a Valinor due volte al giorno era una dolce ora di luce più tenue, quando entrambi gli alberi sbiadivano, e i loro raggi d'oro e d'argento si mescolavano.
Ma avevo voglia di tornare a leggere Tolkien, questa è la verità. Quando Eru, l'Uno, Ilùvatar, convoca gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, per cantare, Melkor tenta di sovrastare l'altra musica con la violenza della propria voce, ma si ha l'impressione che le sue note anche le più trionfanti fossero sussunte dal tema musicale di Eru e integrate nella sua propria, solenne struttura. Effettivamente, spiega l'Uno, nessun tema può essere eseguito, che non abbia la sua più remota fonte in lui, poiché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere suo strumento nell'immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare.
Sembra la teodicea cristiana di Agostino, o quella laica di Hegel. Sembra il Mefistofele del Faust di Goethe, una forza che vuole perennemente il male e opera perennemente il bene.
Quando la musica è tradotta nella creazione di Arda, Ilùvatar parlando a Ulmo, che sarà il Valar signore delle acque, gli fa notare come Melkor abbia mosso guerra alla sua provincia, figurandosi crudi geli smodati, eppure non è riuscito a distruggere la bellezza delle sue sorgenti né quella dei suoi chiari stagni, piuttosto si è data la neve, e l'opera astuta del gelo; e neppure i calori e fuoco illimitati da lui adoperati hanno prosciugato né completamente zittito la musica del marepiuttosto sono nati l'altezza e la gloria delle nubi e delle brume sempre mutanti, il crosciare della pioggia sulla terraInvero l'acqua è ora divenuta più bella di quanto immaginasse il cuore di Ulmo, e in quelle nubi egli è più vicino che mai a Manwë - che sarà il signore del respiro di Arda, il cui diletto sono i venti e tutte le regioni dell'aria -, il suo amico, colui che egli ama.


Quella de I figli di Húrin è una storia già narrata, in forma molto più sintetica, nel Silmarillion. Vicenda di eroismo, di amicizia, di tragedia, di amore per la libertà sopra la vita: Lungo la via può attenderti la morte. Ma, se rimarrai, ti toccherà una fine peggiore: sarai schiavo. Se vuoi essere un uomo quando sarai in età adulta, farai come ti dico, e coraggiosamente.

Questo era il primo dei libri mensili a sorpresa della pila preparata per me da Simona, quello per gennaio.

Ultimo superstite rimase Húrin, il quale gettò lo scudo e afferrò un'ascia di un capitano degli Orchi e la brandì con entrambe le mani. Si cantava che l'arma fumasse del sangue nero delle guardie troll di Gothmog finché questa tutta si dissolse e, ogniqualvolta Húrin menava un colpo, gridava: "Aure entuluva! Il giorno risorgerà!". Settanta volte lanciò quel grido.

.

domenica 14 giugno 2015

derrida - letture primavera estate

Riprendo in mano e torno brevemente a riflettere su due piccoli, densi, saggi di Jacques Derrida letti in questi ultimi mesi primaverili, in propedeutica preparazione per due prossime e più corpose letture estive (Glas e La carte postale).

Il tempo degli addii, lettura di Hegel e Heidegger per dire addio al tempo che non è quello che si crede, per abbandonare in particolare una definizione ben conosciuta, o almeno pretesa tale, dell'avvenire come futuro: l'avvenire, l'a-venire, non è il futuro, non si riduce ad esso. Categoria fondamentale, a riguardo, è quella del "veder venire" che, in effetti, è sì anticipare, presentire, progettare il futuro, attendersi ciò che viene, ma è pure e sempre anche lasciar venire e lasciarsi sorprendere da ciò che non si attende, dalla sorpresa. L'avvenire è chance e caso, anticipazione e irruzione, metamorfosi ed esplosione lacerante, plasticità e plastico, è impadroneggiabile, vertigine, rischio.

Ne Il maestro o il supplemento di infinito sono toccati e legati assieme alcune trame tra i cui fili dà un po' vado infilando le dita. L'identità dell'io che trema in segreto, il dubitare che ci sia un'identità che resta essa stessa, propriamente se stessa, veder/lasciar/far tremare il valore di "proprio" e di "stesso", l'ipseità dello stesso, il potere e l'autorità di ogni signore e maestro. Declinato nel senso della "maestria", se è vero che l'allievo mangia i resti del suo maestro, è però vero che anche quest'ultimo mangia i resti dell'allievo, ne ha bisogno, li desidera, li chiede, ne è privo; e l'uomo non resta il maestro che nella misura in cui è umano, bisognoso, debitore, in condizione di farsi perdonare. 
E al maestro non si deve restituire niente, nessun "grazie". Ingratitudine ed etica. Etica che c'è solo laddove la norma è in difetto e resta da supplire, mentre se ci fosse l'assicurazione e la garanzia della legge ci sarebbero solo programmi, ma nessuna virtù.

martedì 31 marzo 2015

letture di marzo

Molto meglio del romanzo d'esordio, C.U.B.A.M.S.C., questa seconda prova d'autore di Marco Cubeddu, Pornokiller. L'arte scrittoria è stata meglio celata, il citazionismo postmodernista meglio amalgamato nella narrazione, gli eccessi prima stridenti sono stati limati, i personaggi risultano più credibili pur nella loro eccentricità ed estremizzazione. Una pecca, forse, l'eccessiva brevità.

Rimanendo in tema di trilogie, come il mese scorso: concludo con il libro 3 1Q84 di Murakami e con Il male non dimentica la trilogia del male di Costantini; continuo e concludo la saga di Dashner Maze Hunter con il secondo volume La fuga e il terzo La rivelazione; e inizio e concludo anche quella della Roth con Divergent-Insurgent-Allegiant. Murakami Haruki non è davvero al meglio di sé, ma resta in ogni caso un'ottima lettura. Roberto Costantini conclude ottimamente le vicende del suo commissario Balistreri, intrecciando ancora una volta passato e presente, rivelando inattese verità, mostrando prospettive inedite di eventi già narrati. La seconda parte delle avventure dei "corridori di labirinti" di James Dashner non decolla, è meno avvincente della prima, un mero intermezzo verso il finale (tanto perché si devono scrivere trilogie), e la terza e conclusiva non risolleva le sorti di una saga sfilacciata e incoerente, i cui unici elementi positivi sono le numerose morti e l'ambiguità morale. La saga di Veronica Roth, che potenzialmente poteva interessarmi maggiormente di quella di Dashner per i plausibili risvolti filosofico-politici, ha in maniera eccessiva i toni di un dramma adolescenziale.

Jo Nesbø mi piace sempre di più. La ragazza senza volto conferma la capacità dello scrittore norvegese di raccontare storie complesse e avvincenti, tessere trame rizomatiche e fatte anche di sentieri che si perdono o interrompono e false piste, costruire e far evolvere personaggi, affrontare temi. Harry Hole è un vero eroe, rotto dalle decisioni, un non-criminale per circostanze e sfumature, non un uomo retto per pigrizia ma capace, invece, di indagare la differenza e lo scarto tra giustizia e legge - pagandone le conseguenze in termini di responsabilità, colpa, ingratitudine. Non è solo un autore di thriller.

E ancora letteratura di genere e seriale, con EX² - Patrioti, di Peter Clines, seguito di Supereroi vs. Zombie che si rivela un po' meglio del primo capitolo e che lascia possibilità per eventuali seguiti; con la seconda avventura dell'agente segreto di Ian Fleming, James Bond, alle prese in Vivi e lascia morire con voodoo, tesori pirata, squali, emancipazione negra nel mondo criminale; e con il secondo volume della saga di Tom Ripley, Il sepolto vivo, di Patricia Highsmith.


Ottima la mia personale prima esperienza di lettura con John Steinbeck, che ho voluto cominciare con il titolo di ispirazione sheakespeariana L'ìnverno del nostro scontento. Insieme leggero e riflessivo, ironico e amaro, lo scrittore americano racconta di Ethan Hawley, discendente di gloriosi balenieri e nobili primi pellegrini, ridotto a mero commesso di negozio d'alimentari, e del suo tentativo di trasformare l'inverno dello scontento suo e, forse soprattutto, della propria famiglia nella radiosa estate del successo, del prestigio, dell'onore e, quindi, del denaro: perché non dovrebbe prendersi anche lui la sua parte di bottino, come fanno tutti? Lo spirito della pirateria è ancora vivo nell'impulso dei tempi moderni ad arraffar grana, non importa come; e se i soli a star a sentire i dubbi di coscienza del protagonista sono i barattoli di sottaceti nel negozio in cui lavora, mentre moglie, figli, amici, gli chiedono cosa aspetta a diventar ricco, quali scelte potrà mai fare lo scontento Hawley per garantire ai suoi l'estate che forse meritano?

Saggi filosofici: Hegel, probabilmente di Gianfranco Dalmasso; Contro i diritti umani di Slavoj Žižek; Iron Man and Philosophy, a cura di Mark D. White.

domenica 9 novembre 2014

evento

Salendo a bordo del saggio di Slavoj Žižek sull'Evento, si transita per diverse stazioni attraverso le quali il filosofo sloveno riflette sulla definizione dell'oggetto in esame, partendo da prime approssimazioni quali quella di effetto che sembra eccedere le proprie cause, di mutamento nel modo in cui la realtà ci appare, di trasformazione sconvolgente della realtà stessa.
L'evento è un mutamento o disgregazione della cornice (frame) stessa attraverso la quale la realtà ci appare, percepiamo il mondo e ci impegniamo in esso; esso è un re-incorniciamento (reframing), dato che solo una cornice fantastica, fantasmatica, ci rende capaci di esperire il reale delle nostre vite come una totalità significante: l'incorniciamento (enframing) è l'atteggiamento propriamente umano verso la realtà, il nostro relazionarci con essa. L'evento rappresenta quindi una nuova apertura epocale in senso heideggeriano, l'emergere di un nuovo mondo, di un nuovo orizzonte di significato.
Ancora, l'evento è la rottura del normale corso delle cose, è caduta quale peccato felice (felix culpa) che è condizione stessa del bene; è, in senso hegeliano, ferita autoinflitta che tenta di curarsi, che mina, nega e trasforma l'intera realtà inerte e stabile, che crea - quale assoluto contraccolpo - ciò da cui si ritira, ciò che si lascia indietro, come lama nella carne. L'evento è, allora, anche rottura della simmetria, in cui le cose emergono quando l'equilibrio è distrutto, quando qualcosa va storto.
In campo filosofico, secondo Žižek esistono tre eventi nella storia del pensiero occidentale, tre intrusioni traumatiche di qualcosa di nuovo che risulta inaccettabile per la visione predominante, tre momenti di follia e tre tentativi di contenere e controllare questo eccesso, di ri-normalizzarlo e re-inscriverlo nel normale corso delle cose: Platone e l'istantaneo e improvviso incontro con la verità dell'Idea, una verità che fa male e che sconvolge la vita quotidiana, evento fragile e fuggevole, da trattare con la delicatezza di una farfalla, che ci appare attraverso esperienze fugaci, in momenti miracolosi in cui un'altra dimensione trapela nella nostra realtà. Cartesio e l'emergere della pura soggettività da una rottura nella grande catena dell'essere, da un radicale auto-ritrarsi - quasi psicotico o mistico - nella "notte del mondo" in cui l'immediato contesto naturale della realtà si eclissa, esperienza di un abisso traumatico. Hegel e l'Assoluto come auto-sviluppo, come risultato della propria stessa attività, come crimine universale che pone se stesso come ordine e legge, come rivolta tenebrosa e audace che congiura per essere moralità e civiltà, in definitiva come evento che include nella propria verità anche la finzione o fantasia, che modifica il passato creando retroattivamente la propria stessa possibilità, le proprie cause e condizioni.
Per la psicanalisi di Lacan, invece, l'evento è l'irrompere del Reale, il ritrovarsi a tu per tu con la Cosa, un trauma in grado di destabilizzare l'ordine simbolico; e, ancora, l'insorgenza improvvisa di un nuovo ordine simbolico, di un nuovo "Significante-Padrone", cioè di un significante che struttura un intero orizzonte di significato, creando il proprio stesso passato.
Come per Alain Badiou, un evento è una contingenza che i trasforma in necessità, dando origine a un principio universale che richiede fedeltà e duro lavoro per un nuovo ordine, che si tratti di un innamoramento personale o di una rottura politica radicale.

giovedì 31 luglio 2014

letture di luglio (II)

Seconda metà del mese ampiamente dedicata alla lettura di saggistica: ho già scritto sia su Il corpo preso con filosofia di Tommaso Ariemma,  sia su Immagini e figure della metropoli di Valeria Giordano, sia infine su Noi che abbiamo l'animo libero di Giulio Giorello ed Edoardo Boncinelli
Sempre di quest'ultimo ho letto anche Il cervello, la mente e l'anima, interessante, semplice ma non superficiale introduzione di un biologo e genetista alle scoperte scientifiche sull'intelligenza umana. 
Sullo stesso genere di argomento mi sono dedicato anche alla lettura di L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, gli interessanti, divertenti e commoventi racconti di Oliver Sacks sui suoi pazienti con deficit, eccessi, trasporti o semplicità neurologici; e anche a quella di di Anelli nell'io, per scoprire cosa c'è al cuore della coscienza secondo Douglas Hofstadter, autore di cui otto anni fa avevo estremamente apprezzato il bel volume in cui intrecciava in una eterna ghirlanda brillante i fili della logica contemporanea e dell'intelligenza artificiale (Gödel), della musica (Bach), dell'arte bizzarra (Escher). Il risultato è stato deludente, forse anche per le alte aspettative, non so. Ma il saggio mi è sembrato ridondante, eccessivamente prolisso (per quanto la scrittura possa non essere di fredda saggistica, ma avere uno stile più letterario, comunque Hofstadter non scrive da romanziere e dopo un po' i suoi lunghi elenchi e i suoi racconti mi risultano pesanti) a livello formale, e, forse peggio, a livello contenutistico forzoso, con un argomentazione che procede per analogie capziose e non sempre stringenti. Davvero un peccato.
Di tutt'altra valutazione la lettura dei brevi saggi e frammenti di G.W.F. Hegel raccolti in Il bisogno di filosofia (1801-1804) e, soprattutto, la rilettura del Crepuscolo degli idoli di Friedrich Nietzsche, ancora e sempre un capolavoro.

Ma spazio anche alla narrativa, con Le correzioni di Jonathan Franzen, gran bel romanzo
sull'educazione dei figli e l'emancipazione dai genitori, i cambiamenti e le abitudini, le imposizioni e le rivolte, la ristrutturazione neurale e la riscrittura di sceneggiature, le rivoluzioni politiche e i riassesti del mercato globale, le riparazioni casalinghe e le riconversioni industriali.
E con Nove gradi di libertà, di David Mitchell, romanzo d'esordio dell'autore di quell'Atlante delle nuvole trasposto in un meraviglioso film dai fratelli Wachowski. Storie - ambientate in Giappone, Asia centrale, Russia, Europa, New York - in cui a dominare è l'effetto farfalla, l'estrema sensibilità e dipendenza dalle condizioni iniziali dello svolgersi degli eventi, il caos che è il vero ritmo del mondo, l'intreccio e l'incrocio di tutte le vite umane che non sono poi così separate come il loro grande numero potrebbe far supporre, la serendipità e l'imprevisto che può determinare svolte inattese, improbabili.

martedì 27 maggio 2014

la squadra e i giocatori

Il calcio è un gioco di squadra, non è un gioco individuale. Spesso gli allenatori di calcio dicono (legittimamente) che non basta, per formare una squadra vincente, comprare i migliori giocatori. La somma dei migliori giocatori non dà quasi mai lo spirito della squadra più forte. Qual è il legame tra la squadra e i suoi componenti? Per capire questa correlazione confrontiamoci con la definizione dello Stato che Hegel dà. Hegel dice che lo Stato è Das Erste, il principio, è il primo principio rispetto alla società civile e alla famiglia. Questa affermazione è apparsa paradossale. Tutti si rendono conto che la famiglia e la società civile vengono prima dello Stato. Lo Stato nasce all’interno di un processo che presume come componenti essenziali i gruppi più elementari. Come deve essere inteso questo “venir prima” dello Stato? Certo non in senso cronologico, al contrario va inteso in maniera più sottilmente finalistica. Lo Stato rispetto alle sue componenti è il primo principio perché la famiglia e la società civile (le parti) realizzano il proprio fine, la propria destinazione naturale solo se si commisurano allo Stato (la totalità). I giocatori vengono prima della squadra di calcio, ma se i giocatori (le parti) nel loro gioco non realizzano se stessi all’interno della squadra (la totalità), questa non potrebbe mai essere vincente ed esprimere la sua primarietà in un gioco irresistibile e vincente.
Kant elabora un concetto di creatività veramente straordinario. Il filosofo fonda e legittima la creatività sul presupposto delle regole. Non esiste una creatività che sia totalmente trasgressiva, che non obbedisca a nessuna regola. Il rapporto tra creatività e regole esalta in egual misura queste due dimensioni. Anche questo modello filosofico funziona per capire l’organizzazione di una squadra di calcio. Pensiamo a come sia difficile inserire un fuoriclasse, una personalità calcistica che tende a non rispettare le regole e gli automatismi che una squadra gradualmente si è conquistata nel tempo. Questo modello di una creatività che si esalta sulla base delle regole riesce a rispondere alla duplice esigenza di mantenere alto lo spirito complessivo della squadra e di rispettare contemporaneamente il ruolo di una personalità straordinaria. 
Da un lato lo Stato hegeliano, dall’altro la creatività kantiana, ci aiutano a capire qual è il rapporto tra una squadra di calcio e le sue componenti.

(Elio Matassi, La filosofia del calcio)



lunedì 24 marzo 2014

la pubblicità come discorso morale

La tesi del bel saggio di Emanuele Coccia, Il bene nelle cose, è che le merci siano "la figura estrema del bene, l'ultimo nome che l'Occidente ha dato al bene" e, di conseguenza, che la pubblicità sia "un immenso esperimento dell'immaginazione morale collettiva contemporanea, quello assieme più vasto, più pervasivo, più visibile" e "un'immensa riflessione iconica e concettuale sul mondo e i suoi elementi, e assieme sulla felicità umana, le sue forme, le sue possibilità". Questo amore dell'uomo per le cose, quest'amore effimero di un uomo che vive di cose e per le cose, è affrontato dall'autore in modo interessante, originale e serio, evitando posizioni apocalittiche (moralistiche)  e indagandolo, invece, con "uno sguardo più indulgente e meno paranoico di quello dei maestri del sospetto e assieme più rigoroso"; ma non si cade, ovviamente, neanche in posizioni integrate. Si riconosce, piuttosto, che il desublimato universo morale della pubblicità è perfettamente analogo ad altre forme di morale pubblica, esposta sui muri o in spazi pubblici, che nulla hanno di tratti sublimi: "la celebrazione di una battaglia di sterminio di un popolo nei bassorilievi romani non è necessariamente più nobile e sublime che l'invito a riconoscere in una borsa il segreto della nostra felicità".   
Proprio dai muri parte l'analisi di Coccia, perché è su di essi che storicamente vita spirituale e vita materiale divengono inseparabili, è su di essi che si incarnano la memoria e l'autocoscienza di una città, che è soprattutto "un essere di superficie che non smette di darsi a vedere, di comunicare l'immagine di sé, di parlare di se stessa". Se la politica è la forma suprema di architettura (Aristotele) e l'architettura è sempre l'organo di un sogno pubblico, i muri sono "cosa politica" e "fantasmagoria diventata pietra" (Benjamin), sono lo "spazio di proiezione e di produzione fantasmagorica" pubblica e condivisa - tanto per scritture e immagini ufficiali, quanto per umori del popolo, opinioni individuali, proteste e ribellioni - nel quale insieme la città si costituisce materialmente e si fa autocoscienza, riflettendo su se stessa, sul proprio ethos collettivo e sulla propria moralità concreta (Hegel): "è in questo spazio che ogni cittadino apprendeva i saperi politici condivisi, le regole pubbliche, i valori civici universalmente riconosciuti, l'assiologia della polis". In questa antica tradizione di una "morale su pietra" si iscrive, dunque, la pubblicità, essendo l'ultima trasformazione di questo sapere pubblico del bene e del male che oriente le nostre scelte e definisce i nostri costumi. 
Ancora, secondo Coccia la pubblicità è il dialetto principale con cui le città della nostra epoca formulano la morale contemporanea che ha ormai "assunto il fatto che il destino dell'uomo è una vita tra le cose e che questa vita tra le cose non potrà, mai, essere trascesa". Essa è, quindi, il sintomo della rivoluzione morale che afferma la vita ordinaria, l'immanenza della felicità, la presenza del bene sulla terra, "un bene che coincide con l'infinità delle forme che la materia e gli elementi possono assumere", con le cose stesse, la loro forma e colore e profumo: "la pubblicità è la moralizzazione integrale del mondo umano". "Quella veicolata dalla pubblicità è una morale integralmente intramondana: non promette salvezza da questo mondo ma definisce i modi in cui le cose del mondo si fanno felicità oggettiva".

lunedì 27 gennaio 2014

in segreto trema l'identità dell'io - kill matsu'o (II)

Il filosofo francese Jacques Derrida collega l'impossibile, paradossale, aporetica, eccessiva, esagerata – che passa la misura e si espone alla dismisura – esperienza del (per)dono, la follia del (per)dono, che «mette in crisi logos e nomos, ma forse anche topos» – ed è, quindi, atopos, che «significa ciò che non è nel suo luogo e al suo posto (“mezzodì alle quattordici”), ed è dunque lo straordinario, l’insolito, lo strano, lo stravagante, l’assurdo» (uncanny) –, al costituirsi del soggetto: «La semplice intenzione di donare, in quanto comporta il senso intenzionale del dono, basta a ripagarsi. La semplice coscienza del dono si rinvia subito l’immagine gratificante della bontà o della generosità, dell’essere-donante che, sapendosi tale, si riconosce circolarmente, specularmente, in una sorta di auto-riconoscimento, di approvazione di se stesso e di gratitudine narcisistica. E ciò si produce dal momento in cui c’è un soggetto. Il divenire-soggetto tiene allora conto di se stesso, entra come soggetto nel regno del calcolabile. Lì dove ci sono soggetto e oggetto, il dono sarebbe escluso. Un soggetto non donerà mai un oggetto a un altro soggetto. Ma il soggetto e l’oggetto sono effetti arrestati del dono: arresti del dono. Alla velocità nulla o infinita del circolo» (Donare il tempo).


Il soggetto sarebbe un effetto arrestato del dono, si auto-riconoscerebbe circolarmente, sarebbe una pausa, una stasi, un arresto, ma la alla velocità nulla o infinita del circolo che «non lascia riprendere il respiro, né riposo. Può sempre sconvolgere, almeno, il ritmo istituito di tutte le pause (e il soggetto è una pausa, una stasi [stance], l’arresto stabilizzatore, la tesi o piuttosto l’ipotesi di cui si avrà sempre bisogno), può sempre perturbare i sabati, le domeniche… e i venerdì» («Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto). Senza pause – né sabati, né domeniche, né venerdì – e «in segreto trema l’identità dell’“io”» (Donare la morte). Questo tremore derridiano presenta una evidente differenza rispetto alla formazione del soggetto per come è presentata da Hegel. La lezione hegeliana ci insegna che il soggetto, nella qualità di autocoscienza, «consiste nel mostrarsi come negazione pura della propria modalità oggettiva, cioè nel mostrare di non essere legato a nessuna esistenza determinata» – anche mettendo alla prova la propria libertà e a rischio la propria vita, arrivando a dimostrare di non tenere alla vita, di disprezzarla in un certo senso, a «dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte» –, così che in esso «la coscienza è stata intimamente dissolta, ha tremato fin nel suo più remoto recesso, e tutto quanto c’era in essa di fisso è stato scosso», è stato fatto vacillare, tanto che l’essenza stessa dell’autocoscienza è «questo assoluto divenire-fluida di ogni sussistenza», il lavorio di un «dileguare trattenuto» (Fenomenologia dello Spirito). Ma le vicende dei mutanti e la filosofia di Derrida ci insegnano che la questione della costituzione del soggetto non si arresta ad una lotta a morte in cui «un trionfo conserva in sé le tracce di una battaglia» o «una vittoria viene strappata nel corso di una guerra tra due avversari al fondo inseparabili» (Donare la morte) per cui di tale guerra conserva la memoria.

La vera questione del soggetto non è nell’autonomia e nella libertà, quanto piuttosto «nell’eteronomia del «ciò mi (ri)guarda» anche laddove io non vedo niente, non so niente, non ho l’iniziativa, laddove non ho l’iniziativa su ciò che mi ingiunge di prendere delle decisioni – che nondimeno saranno le mie, e che dovrò assumermi da solo» (Donare la morte). Psylocke si chiede il perché della sua pulsione a fermare Wolverine, il cosa le importasse di Matsu’o, cosa ciò le (ri)guardasse, cosa stava facendo; confessa di aver visto se stessa nella mente di Wolverine e che i ricordi di lui le dissero chi era, ed anche in questa avventura è proprio dalle parole di Matsu’o che è determinata quella pausa, quell’arresto, quella stasi che è il soggetto, quando egli le rivela: «Sapevo che saresti stata tu, Elizabeth. Gli inglesi sono sempre affidabili». Non solo per queste parole, ma per quello che ha fatto e fa del corpo e dei resti di Psylocke, Matsu’o è per la mutante degli X-Men l’altro per eccellenza. L’altro dispone di me, di un io senza difese, e proprio questo sarebbe l’io, sarei io: vulnerabilità, esposizione incondizionale all’altro, quasi impotente, disarmata, senza protezione alcuna. Il soggetto non è sovrano, non è indipendente, autonomo, pienamente presente a sé, ma quello del godimento pieno e puro di sé non sarebbe altro che un sogno, una fantasia, un fantasma. La sovranità del soggetto libero – nel suo concetto più e meglio accreditato –, autodeterminato, emancipato, affrancato, dall’illimitato potere, onnipotente, è decostruita.

Ciò significa aprire la possibilità di pensare in maniera diversa il sé. Oltre ad essere la storia di una furiosa ricerca di vendetta, Kill Matsu’o è anche la ricerca di un nuovo soggetto, della natura dell’identità. «Ora so chi sono»: sul flash-forward, che anticipa la fine del fumetto, di queste parole interiori che Psylocke dice a se stessa, intese senza alcun apparente rumore, articolate senza movimento apparente, come nel circuito chiuso di un serpente che si morde la coda, tutta la vicenda che viene a spiegarsi e dibattersi si apre e si chiude allo stesso tempo ma con stacco e non senza danni. E la tavola finale dell’ultimo capitolo del fumetto mostra la mutante intenta a spazzolarsi i capelli e bere una tazza di tè: «il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè, e neppure la leziosa innocenza del cacao», e rappresenta «una gradita opportunità di tregua a fieri guerrieri», che entrano nella stanza del tè solo dopo aver lasciato «la spada nella rastrelliera»  – come l’immagine mostra aver fatto anche Psylocke –, giacché tale luogo è sopra ogni altra cosa la Dimora della Pace, oltre che della Fantasia, del Vuoto e dell’Asimmetrico (in quanto consacrata al culto dell’Imperfetto, e perciò si lascia in essa volutamente qualcosa di incompiuto). Deposta, dunque, la katana dell’hegeliana lotta a morte per il desiderio di riconoscimento e di signoria, di sovranità, Psylocke si mostra esposta alla decostruzione del proprio io, dell’assolutamente se stessa. Ora sa chi è, cos’è l’io, che l’io è questa pausa, questa stasi nella stanza del tè, è il perenne mutamento che ritorna su se stesso come un serpente che si morde la coda, che «si ritorce su se stesso come il drago» o «si addensa e si squarcia come fanno le nuvole» (Kakuzo Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè) – «il fiume scorre, e l'acqua non è mai identica a se stessa. Anche le nuvole sono in continuo movimento; e il sole e la luna sono eterni viaggiatori», puoi leggere nel capitolo intitolato Drago di nuvola, tigre di vento del manga scritto da Kazuo Koike e disegnato da Goseki Kojima Lone Wolf & Cub (Lupo solitario e il suo cucciolo). Ora sa che l’io è ospitalità incondizionata all’altro da sé, che l’io trema, si ritorce, si squarcia, affetto da un fattore di mutazione che non è assoluta, libera, sovrana, autonoma, ma piuttosto eteronoma, guidata e diretta come da un gene X, da una “cosa” se non sconosciuta certo mal conosciuta dal cosiddetto io. L’uomo sarebbe, quindi, l’essere più perturbante, «il più unheimlich», afferma Derrida, perché «qualcosa che ci espelle dall’Heimliche, dalla tranquillità rassicurante del domestico. Il proprio dell’uomo sarebbe insomma quel modo di non essere a casa propria con sicurezza (heimisch), fosse anche presso di sé nel senso della propria essenza» (La Bestia e il Sovrano. Volume I).

lunedì 28 gennaio 2013

lenin è (non) morto

Provando a interpretare il sogno che Trotskij stesso annota nel suo diario relativo a un incontro e dialogo con Lenin, da tempo morto, Slavoj Žižek, in uno scritto contenuto in Politica della vergogna, riconosce che possono esistere due diversi modi di leggerlo.
Un prima possibile lettura è quella per cui «Lenin morto che non sa di essere morto rappresenta il nostro ostinato rifiuto di rinunciare ai grandiosi progetti utopistici e di accettare le limitazioni della nostra situazione: Lenin era mortale e fece errori come chiunque altro, perciò è giunto per noi il momento di lasciarlo morire, di mettere a riposo questo osceno fantasma che ossessiona il nostro immaginario politico, e di affrontare i problemi in modo pragmatico e non ideologico».
Ma c'è un anche un altro senso in cui «Lenin è ancora vivo: è vivo in quanto incarna ciò che Alain Badiou chiama, in modo sfacciatamente platonico, l'"Idea eterna" dell'emancipazione universale, l'immortale lotta per la giustizia che nessuna disfatta e nessuna catastrofe riescono a uccidere».
Come Hegel poté definire la Rivoluzione francese "una splendida aurora" (Lezioni sulla filosofia della storia) senza che ciò gli impedisse una fredda analisi di come quell'esplosione rivoluzionaria di libertà dovesse necessariamente trasformarsi in un terrore autodistruttivo, così Žižek vuole fare con la Rivoluzione d'ottobre, non ritornare a Lenin ma ripetere Lenin. «Ripetere Lenin è accettare il fatto che "Lenin è morto", che la sua soluzione particolare è fallita, e anche in modo mostruoso, ma che c'era in essa una scintilla d'utopia degna di essere salvata. Ripete Lenin significa che si deve distinguere tra quanto Lenin ha effettivamente fatto e il campo di possibilità che ha aperto, la tensione tra ciò che fece concretamente e un'altra dimensione. Significa ripetere non ciò che Lenin HA FATTO, ma ciò che NON È RIUSCITO A FARE, le sue possibilità PERDUTE».  


giovedì 2 febbraio 2012

è lecito raddrizzare questo mondo alla deriva?

Il personaggio di Watchmen Rorschach sembra esemplificare la teoria retributiva della punizione, secondo la quale il male deve essere punito non perché così facendo il mondo sia un luogo migliore, ma semplicemente perché è male e merita una punizione. Ma perché il male deve essere punito? Chi determina cosa è male? Chi determina qual è la punizione appropriata o adatta? E nella nostra ricerca di dispensare la meritata giustizia, non rischiamo di diventare noi stessi i mostri contro cui combattiamo? È solo vendetta o c’è qualcosa di nobile nel ripagare un criminale per il suo crimine?
Secondo il retribuzionismo la giustificazione per punire una persona è data semplicemente dal fatto che il ritorno di sofferenza per l’azione cattiva è in sé moralmente buono. È chiaramente una teoria non consequenzialista, non giustificata cioè dai risultati (riabilitazione, sicurezza o altri desiderabili risultati). Kant ha affermato che la punizione “deve sempre essere inflitta [al criminale] solo perché egli ha commesso un crimine” (La metafisica dei costumi), non per il bene stesso del criminale, non per il bene della società. Il criminale non deve essere trattato come semplice mezzo, non si possono usare le persone per gli scopi della società, “un essere umano non può mai essere trattato solo come un mezzo per gli scopi di un altro”. La punizione deve rispettare i criminali come agenti morali, cioè chi sbaglia deve essere riconosciuto responsabile delle proprie azioni, devono essergli riconosciute la dignità e il rispetto perché è autonomo. “La legge della punizione è un imperativo categorico, e guai a chi cercasse di fare in modo di liberare il criminale dalla punizione o di ridurne l’ammontare per possibili benefici che ciò potrebbe comportare, perché la giustizia cessa di essere giustizia se può essere comprata anche per qualsiasi prezzo” (Fondamenti della metafisica dei costumi).
La punizione ripara il tessuto sociale rotto dall’azione criminale, “è la cancellazione del crimine e la restaurazione della giustizia” (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto). È necessario punire perché valutiamo noi stessi e la società, perché rispettiamo l’intima dignità in ognuno di noi e desideriamo riaffermare questi valori su cui le nostre vite e la nostra società sono fondati. C’è molto più che vendetta.
Se Rorschach lasciasse proseguire Veidt con il suo piano, la giustizia sarebbe comprata, non servita. Rorschach rifiuta ogni compromesso, rifiuta di svendere la giustizia. “È meglio sacrificare la vita che rinunciare alla moralità. Non è necessario vivere, ma è necessario, finché viviamo, farlo onorevolmente” (Kant, Lezioni di etica).
La punizione è più che un rispondere al dolore col dolore, riguarda la restaurazione dell’ordine e l’affermazione di valori fondamentali. Ma chi determina una adeguata punizione? Rorschach è brutale e probabilmente noi non vogliamo spingerci così in là come lui. Egli è troppo sicuro e orgoglioso, è giudice, giuria ed esecutore insieme. Il problema col retribuzionismo non è l’idea ma la sua applicazione.



sabato 31 dicembre 2011

l'arte di chiudere il becco alle donne

Ma dove sono le donne? Dove sono le filosofe? Dove sono le donne, con le loro idee piene di fascino. Di filosofe proprio non se ne vedono. Vi sono donne alla guida di nazioni, imperi, partiti. Conosciamo poetesse, scrittrici... ma le filosofe? Ce ne sono tantissime, ma sono tutte dipinte! Basta alzare lo sguardo sui muri della Sorbona, si vedono ovunque pomposissime allegorie femminili nel grande anfiteatro firmato dal pittore neoclassico Puvis de Chavannes. Ma da dove arrivano quelle muse che dovrebbero ispirare studenti e professori? Soprattutto dai bordelli parigini. La Verità forse si chiamava Ninì e, sotto le spoglie della Prudenza, professori e studenti potevano riconoscere la Grande Fernanda. Misoginia? I filosofi si sono limitati a rispecchiare la misoginia della loro epoca, l'hanno elaborata e le hanno dato una forma. Sul tema monotono della debolezza della donna, hanno ricamato e costruito un concetto della "natura" femminile come incapace di concettualizzare. Certo, la filosofia non è l'unica attività non femminilizzata: poche sono le donne direttrici d'orchestra o fantine; e che io sappia non ci sono donne lottatrici di sumo. Una volta una donna tentò di occupare il seggio di san Pietro, nondimeno il magistero papale resta un'attività prettamente virile. È certo che non si tratta di una dimenticanza, né di un banale ritardo. Le donne sono espressamente pregate di non autoinvitarsi nella cerchia esclusiva dei pensatori. La filosofia è l'arte di chiudere il becco alle donne.
Eppure provate a parlare di debolezza delle donne a qualcuno che vive nel mondo di Medea, delle Baccanti, delle Menadi, delle Amazzoni, delle cacciatrici di Artemide! Donna è il nome di un'energia sovrumana che può far tremare di paura. Classi femminili, classi pericolose! Ammetterete che sarebbe il caso di riunirsi tra uomini per prendere dei provvedimenti, decretare l'eccellenza di una vita moderata e instaurare la filosofia come amore della saggezza, del pensiero ordinato e del linguaggio articolato. A proposito delle baccanti, per conoscerle, vi do un consiglio: fate caso ai capelli. La baccante ha i capelli sciolti. Una donna in ordine e curata ha sempre i capelli raccolti. Quando li scioglie significa che la Forza è in lei, la forza del desiderio amoroso – è nell'alcova, e solo per l'amante che le donne un tempo si scioglievano i capelli – oppure è la forza di un dio pericoloso che non rispetta niente, né le trecce né lo chignon, un dio che spettina.  
Dal mio punto di vista, non c'è alcuna incompatibilità tra la Donna e la Filosofia. Se le donne non hanno avuto voce in capitolo, potrebbe essere per un problema di organi, di corde vocali? Parlare in pubblico, equivale a mettersi a nudo. Per l'uomo non rappresenta sempre un inconveniente: l'arte oratoria è per lui un modo di competere in virilità. Gli uomini sono come i Tre Moschettieri, hanno bisogno che le armi tintinnino, e la filosofia è una forma prettamente maschile di rumoroso sfoggio delle armi. Tuttavia Aspasia e le geishe ateniesi hanno diffuso nel IV secolo prima di Cristo una forma raffinata di espressione, orale e scritta, arte del conversare e dello scrivere. Lei e le sue amiche hanno partecipato alla storia della filosofia ma non appaiono nella foto. È una questione d'inquadratura. Da Platone in poi la lezione è la seguente: le donne possono partecipare alla storia della filosofia ma devono restare fuori dall'inquadratura.
C'è in ogni caso una condizione per fare parte del club dei filosofi: va bene scrivere, ma bisogna pubblicare! Per lungo tempo la letteratura femminile si è limitata alla posta e ai diari, vale a dire a una scrittura personale a breve termine. Se ci fosse un principio di scrittura femminile si enuncerebbe così: si scrive sempre per qualcuno. Al contrario, nel cuore della filosofia agisce un principio maschile secondo cui si scrive per tutti, per il mondo intero, senza destinatario particolare. I filosofi si convincono che sono messaggeri dell'Universale. Nei salotti parigini del XVII e XVIII secolo, universo che Benedetta Craveri descrive ne La civiltà della conversazione, le donne danno origine ad uno stile capace di far brillare il vero e di dare fondamento al brillante, ad una alleanza tra la Verità e la Consolazione, la Scienza e il Piacere. È proprio tale alleanza a interessare Hume ed egli la traduce così: «unire le forze del sapere e il mondo della conversazione», vale a dire il mondo degli uomini e il mondo delle donne, i dotti e le dame. Egli pensa che accanto ai trattati, ai corsi e ai discorsi, bisogna sviluppare il genere meno pesante del saggio, opera breve scritta intorno ad un solo argomento senza tecnicismi. È un'alternativa al librone oscuro di filosofia e al romanzetto: il saggio è una conversazione da salotto, la felice unione dello scritto e dell'orale, salva la parola femminile dall'inferno delle chiacchiere, della parlantina, del cicaleccio, delle ciance, dei pettegolezzi. Ma con il Terrore rivoluzionario il mondo della conversazione, quel nuovo modo di pensare e di scrivere, cade nel cestino della crusca insieme alle teste di quelle sfrontate, e il salotto, l'arte di fare circolare il nulla con eleganza, l'arte di perdere mollemente tempo, non è cosa seria.
All'inizio del XIX secolo Hegel era l'organo centrale della Verità. Per interpretare tale formidabile ruolo, non bastava una voce da femminuccia: occorreva una voce sicura, magistrale, categorica, che dicesse "È così e basta", una voce virile che affermava con forza delle verità così come si batte un'incudine. Ma le cose non stavano così. Pare che Hegel fosse munito di un organo difettoso: si schiariva la voce e tossicchiava continuamente. Tra balbettii e farfugli, però, il filosofo produce cose serie: la serietà, la filosofia, il Concetto, il Sapere, se paragonati a questi, gli altri discorsi umani sono frivoli e caduchi. O è semplicemente ridicolo? In occasione di un passaggio a Berlino, un giovane filosofo, un certo Schopenhauer, non era riuscito a prendere sul serio il predecessore di Hegel e idolo delle folle studentesche, Fichte: «Durante questo corso, dice delle cose che mi fanno venir voglia di mettergli una pistola alla gola dicendogli: "Devi morire subito senza pietà; ma per amore della tua minuscola anima, dimmi se questo tuo linguaggio ostrogoto nascondeva un pensiero sensato o se ti sei solo preso gioco di noi?"».
Il Filosofo è una macchina pensante che ha una risposta a tutto, anche al dolore di una donna sconosciuta che è stata lasciata, perché il suo fine non è il bene ma il Vero e per lui la filosofia non è né un balsamo né una pozione. Per quanto riguarda Schopenhauer – un tipo violento, come abbiamo potuto constatare – la sua collera contro le preparatrici di decotti filosofici sembrava senza limiti. Ci aveva avvertiti: «La mia filosofia è sprovvista di comodità, e ciò in quanto dico la verità». Avvertimento per gli infermieri dell'anima! La versione virile della filosofia non lascerà loro nessuno spazio. I due campi si affrontano: da una parte gli uomini, che collocano la Verità al di sopra di tutto e iniziano ogni discorso dicendo: "Ho ragione e posso provarlo". E dall'altra le donne, fedeli alle loro nonne – di cui conservano, in un angolo della memoria e dell'armadio, la ricetta di un decotto per curare i colpi di sole, di un bouquet di piante per guarire le emicranie o un ciondolo porta fortuna –, che situano al di sopra di tutto la cura, l'attenzione a sé e che pensano sia giusto voler guarire. 
Un aneddoto racconta che alcuni visitatori arrivati sulla soglia della casa del grande Eraclito, non osano entrare perché il filosofo si scaldava vicino al fuoco. Il saggio di Efeso li incoraggia a farsi avanti dicendo loro: "Gli dei sono anche qui, nella cucina". La filosofia non è soltanto una questione di idee, di concetti o parole ma anche di cose che si colgono e si preparano. Ora, nel suo Simposio Platone non si abbassa mai a parlarci di cucina, partendo da un avvenimento ricco, equivoco, meticcio, Platone costruisce un testo purificato, univoco, maschile: prendete una decina di convitati, lasciate evaporare le contingenze materiali, nascondete fornelli e anfore, cancellate gli spuntini, conservate solo le parole e servite freddo. In realtà non c'è nessuna fine conversazione senza fine nutrimento! Per pensare una filosofia "paritaria" – se ci piace il termine – bisogna pensare una filosofia ben temperata, umida, rabelaisiana, tessile: la filosofia si tesse con molteplici fili e legami, non tagliandosi fuori dalle cose, non toglie la parola a nessuno, non è l'arte di interrompere, una pratica senza soluzione di continuità con la ghigliottina, o di far tintinnare le armi.

(da Frédeéric Pagès, La filosofia o l'arte di chiudere il becco alle donne)

giovedì 29 dicembre 2011

figure del conflitto

Della raccolta di saggi Figure del conflitto si salvano ben pochi articoli e spunti. Ma qualcosa sì. Tipo queste citazioni.

Varcare la frontiera è stato spesso sinonimo di conquista e di dominio, ma si tratta di un rischio insito in tutte le relazioni umane, quando a guidarle sono i rapporti di forza. Al contrario, il rispetto delle frontiere costituisce già di per sé un segno di pace. In se stesso quindi il concetto di frontiera indica la distanza minima tra gli individui, affinché questi possano comunicare fra loro come desiderano. Imparare la lingua dell'altro e i suoi codici significa stabilire con lui una relazione simbolica basilare, rispettarlo ed entrare in comunicazione: superare la frontiera. Una frontiera è fatta dunque per essere oltrepassata: è una soglia che invita al passaggio, non un muro che lo impedisce. (Marc Augé, Frontiere e globalizzazione)

L'essere umano è immerso nel mondo invece che presupporsi al centro delle sue metamorfosi. Farsi piccoli per sentire la grandezza. Spiritualizzarsi nella materia. Uscire dalla propria corazza autoritativa, esclusiva e contemplativa. Cercare la propria internalità nell'esternalità. Immaginarci fuori di noi, diffusi e disciolti in infiniti campi di forza. Destreggiarsi in essi. L'idea che le tecnologie siano protesi dell'umano, che queste protesi, frutto di intelligenza e strumento di lavoro sociale, entrino per ciò stesso a far parte integrale della natura umana. Invasato, una eccitazione che la persona che non riesce più a contenere dentro la pelle, la divisa, il costume e le mode di un comportamento sociale normalizzato. (Alberto Abruzzese, Senza titolo)

Auschwitz non è sacrificio, perché le vittime per i carnefici non avevano alcun valore: scarafaggi, come la creatura annientata nella Metamorfosi di Kafka. 
Benjamin aveva già detto che bisogna spezzare la falsa e aberrante totalità del simbolo per arrivare al frammento: il torso. Questa azione di decomposizione del mondo in frammenti è il processo stesso della significazione, per cui il senso sembra potersi dare soltanto attraverso rovine.  
Il sistema hegeliano che risolve dialetticamente il negativo, lascia ai suoi margini una "negatività senza impiego"; e io sono, dice Bataille, «esattamente questa negatività senza impiego». E dunque «la mia vita, la ferita aperta che è la mia vita - da sola costituisce la confutazione del sistema chiuso hegeliano».  
(Franco Rella, La filosofia e i possibili)
 
Un nuovo soggetto si è costruito, sia attraverso nuovi saperi, sia attraverso una nuova attività produttiva, divenuta sempre più ampiamente intellettuale e cooperativa. Il nuovo soggetto produttivo è immerso in una nuova temporalità che non ha nulla a che fare coi tempi della giornata lavorativa classica. Esso ha anche a che fare, inoltre, con una nuova mobilità nello spazio. Volendo continuare nella caratterizzazione di questo nuovo soggetto possiamo aggiungere che, a partire da questa condizione, qui si determina un nuovo regime di desideri, quindi nuove potenzialità costituenti.
(Antonio Negri, Sul concetto di rivoluzione) 

giovedì 3 novembre 2011

bande filosofiche

Io, Julius Puech, chi sono al momento? Ebbene, io sono la testa pensante e il nervo della guerra dalla Fas [Frazione Armata Spinozista]. Io regno, grottesco e pericoloso, su dieci individui di sesso maschile, altrettanto incazzati e suicidi. Animati dalla somma intelligenza di coloro i quali avanzano verso il burrone grigio della morte eventuale, noi filosofiamo con la gloria effimera, in accordo con il mondo che ci circonda.
Questo il protagonista di Spinoza incula Hegel, romanzo nero di guerriglia e di passione che Jean-Bernard Pouy ambienta in una Francia post-atomica alla Mad Max o alla Ken il guerriero, raccontando di scontri tra bande che di filosofico, apparte il nome, hanno secondo me ben poco.

lunedì 26 settembre 2011

il cristo hegeliano

More about Vita di GesùGià durante il suo periodo di studi presso l'università di Tubinga, il giovane Hegel inizia a mettere a confronto le immagini di Cristo e di Socrate, due voci della libertà tra un popolo di schiavi o fanciulli, due figure "incivili" e rivoluzionarie. In uno dei suoi primi scritti, Vita di Gesù (1795), Hegel contrappone quasi la figura di Cristo alla religione cristiana, vista come una religione alienante, che impone la rinuncia alla dignità umana e alla libertà, che spinge al ripiegamento ad una vita privata ed educa lo sguardo a rivolgersi al cielo. Il principio autenticamente cristiano sarebbe invece, contrapposto a quello giudaico, quello di un Deus in nobis, inteso come una sorta di identificazione di stampo illuministico tra divinità e ragione, tra fede nella divinità e fede nella ragione. Il punto di riferimento, per Hegel, è qui il Kant de La religione entro i limiti della sola ragione, che contrappone ragione e libertà ai dogmatismi e conservatorismi dei rigidi rituali della religione.
Ma il rigorismo dell'insegnamento morale kantiano è "addolcito" dal giovane Hegel grazie al richiamo al pensiero di Schiller. Per Kant il dovere morale è inestetico, la bellezza umana va conquistata con la dignità della fatica, necessaria all'uomo per debellare l'estraneità e la positività della legge morale: ragione e sensibilità, dovere e inclinazione non possono essere immediatamente in armonia: simbolo di questo ideale agonistico del merito è la figura mitica di Ercole, immagine dell'opera di automiglioramento, trasformazione interiore, perfezionamento. O meglio perfettibilità, poiché questa opera, questo lavoro, sono per Kant "infiniti", visto il male radicale presente nell'uomo, che non è certo puro spirito razionale ma costituito da un "legno storto": per questo la forma della legge morale è l'imperativo categorico "tu devi".
Hegel, pur non facendo proprio l'ideale schilleriano dell'uomo come "anima bella", in cui una naturale grazia armonizza immediatamente ragione e sentimento, non considera la sensibilità alla stregua di un nemico da schiacciare, bensì come una facoltà da conciliare, educare, per far perdere rigidità e positività al dovere, per perfezionare la legge, abolendola come puro statuto esteriore, lettera estranea, ma conservandola e rispettandola nello spirito.
Così gli uomini possono passare da individui servili, oggettivi, scissi, a uomini belli, interi, dialettici e che realizzino una comunità vivente in cui non vigano usanze meccaniche, in cui non sia necessario un Dio trascendente di cui si abbia più paura e venerazione che amore, dal quale si faccia dipendere il destino dell'uomo. Il culto della ragione che si è destata e «il sonno della ragione genera mostri» (Goya– sostituisce quello di un Dio tappabuchi con cui instaurare un rapporto caratterizzato da uno spirito bottegaio, da un ritualismo farisaico, da una fede legalistica e ipocrita.
L'uomo deve essere autonoma guida a se stesso in questo cammino di automiglioramento, deve raggiungere una piena maturità che lo affranchi sia da una religione a lui estranea sia da una sensibilità egoistica e non etica.

ShareThis