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mercoledì 2 novembre 2011

corpo a corpo con la morte

Nel suo saggio Filosofando con Harry Potter, Laura Anna Macor definisce la saga della Rowling come «un vero e proprio esercizio spirituale, una sorta di ginnastica interiore, che niente ha da invidiare al Fedone platonico o ai virtuosismi teoretici di Essere e tempo» di Heidegger, collocabile negli scaffali delle librerie in compagnia non solo di libri fantasy o per ragazzi. La vera co-protagonista di tutta la vicenda sarebbe, infatti, la Morte e lo scontro – uno scontro interiore, più che esteriore e carnale – con essa dei diversi personaggi: la brama umana di distruggere i limiti della mortalità e i molti tentativi messi in atto dai maghi per vincere la morte (l'Elisir di Lunga Vita estratto dalla Pietra Filosofale, il sangue di unicorno, gli Inferi, gli Horcrux, i Doni della Morte) si contrappongono all'accettazione della dimensione umana nel pieno delle sue implicazioni, vale a dire anche nel pieno delle sue limitazioni («Come scrive l'eminente filosofo mago Bertrand de Pensées-Profondes nel suo famoso trattato Uno studio delle possibilità di invertire gli effetti contingenti e metafisici della morte naturale, con particolare riguardo alla reintegrazione di essenza e materia: "Lasciate perdere. Non succederà mai.», da Le fiabe di Beda il Bardo). La vera differenza tra Voldemort e Harry Potter consiste nell'atteggiamento nei confronti della morte che li contraddistingue: da un lato la Morte viene temuta e, proprio per questo, sfidata, dall'altro viene temuta ma rispettata, riconosciuta come irreversibile. Il rispetto di questa linea di confine, di questo limite, definisce l'uomo in quanto tale.
La priorità di dignità e giustizia rispetto al semplice mantenimento dell'esistenza a tutti i costi, il subordinare la sopravvivenza ad altri e più alti valori – cioè, accettare la morte – sono caratteristiche di Harry Potter sin dal suo primo anno a Hogwarts: «Se uno finisce dannato per sempre, meglio morire, no?», sostiene Harry quando il centauro Fiorenzo lo rende edotto degli effetti del bere il sangue di unicorno (Harry Potter e la Pietra Filosofale). E la semplicità e l'immediatezza di questo parere si rivelano autentiche dopo essere state nuovamente acquisite attraverso le molte sofferenze e innumerevoli traversie della sua travagliata adolescenza: «Vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della Morte). «Peggio che morire sembra essere tutto ciò che priva l'essere umano del suo proprium, vale a dire della sua dignità e della sua affettività», spiega l'autrice, richiamando la spiegazione del professor Lupin sugli effetti del malvagio potere dei Dissennatori, che non portano via la vita ma l'anima, non rubano l'esistenza ma l'umanità: «È molto peggio. Puoi esistere anche senza l'anima, sai, purché il cuore e il cervello funzionino ancora. Ma non avrai più nessuna idea di te stesso, nessun ricordo... nulla. Non è possibile guarire. Esisti e basta. Come un guscio vuoto. E la tua anima se n'è andata per sempre... è perduta» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).
È proprio l'accettazione della morte, riconosciuta come condizione definitoria del proprio essere, ad orientare l'agire umano facendolo rispondere a un ordine di ragioni superiore al mero impulso alla sopravvivenza, alla richiesta biologica di salvaguardia personale – il rispetto della morale e dell'umanità, l'impegno per la concretizzazione della giustizia –, e a rendere possibile quella magia antica e potente che è l'amore: «la magia dell'amore consiste nella protezione fornita alle persone amate, nel momento in cui si sia pronti a morire per loro», in un effetto scudo prodotto dal sacrificio della vita compiuto per amore, ed inoltre è «l'unica via autentica che permette all'uomo di rimanere tale, cioè di accettare la propria mortalità, senza per questo dover però rinunciare a ogni speranza in una qualche forma di sopravvivenza», spiega la Macor.
Tutto questo Voldemort non lo ha mai compreso: «"Niente è peggio della morte, Silente!" ringhiò Voldemort. "Ti sbagli" replicò Silente. "In verità, l'incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l'ordine della fenice). Ed è per questo che alla fine Harry Potter risulta essere il vero padrone della Morte, il legittimo proprietario e degno possessore dei suoi doni, il che non significa invulnerabile o immortale, poiché è diverso il modo di intendere la vittoria sulla morte di Harry rispetto a quello propagandato da Voldemort: una via radicalmente altra rispetto alla negazione dell'umanità e all'annullamento dei confini naturali – rappresentati anche dall'abbrutimento fisico, dal processo di imbestialimento e deformazione cui Voldemort va incontro divenendo «una spaventosa mistura di teschio e rettile, a significare che il progetto di liberazione dai vincoli dell'umano è sicuramente riuscito, anche se non nella direzione programmata» – è quella rappresentata dal sopravvivere alla morte nel ricordo e nell'affetto dei propri cari. Uno dei simboli di questa accettazione della morte è proprio la fenice: «ben lungi», afferma  l'autrice, «dal rappresentare, come di primo acchito si potrebbe credere, la vittoria sulla morte, apparentemente annullata nelle periodiche rinascite, la fenice è invece l'emblema più compiuto dell'interiorizzazione del limite: essa rinasce perché muore, non accetta di morire perché sa che rinascerà, ma rinasce perché ha accettato di morire. Harry ripropone lo stesso percorso della fenice: non va incontro alla morte perché immagina che potrà tornare indietro, ma, al contrario, può tornare indietro perché ha deciso di andare incontro alla morte». In questo Harry Potter è superiore persino ad Albus Silente, che confessa: «Ma chi di noi avrebbe mostrato la saggezza del terzo fratello, se avessimo avuto la possibilità di scegliere fra i tre Doni della Morte? Maghi e Babbani sono altrettanto assetati di potere: chi avrebbe resistito alla Bacchetta del Destino? Quale essere umano, che avesse perduto una persona cara, non avrebbe scelto la Pietra della Resurrezione? Persino io, Albus Silente, troverei più facile rifiutare il Mantello dell'Invisibilità. Il che dimostra che, per quanto intelligente, sono comunque un idiota come tutti» (Le fiabe di Beda il Bardo). Anche Harry è esposto al rischio di cedere alla seduzione della necromanzia a causa del suo dolorosissimo vissuto, è anch'egli vulnerabile all'idea e al desiderio di imporsi sulla morte e renderla reversibile, ma egli, conclude la Macor, «vince questa sua tentazione e arriva ad accettare la morte, sua e dei propri cari, comprendendo che ci sono cose ben peggiori per i vivi che morire».
Nello scontro finale – non solo una lotta ma la dimostrazione della superiorità di una scelta, quella di andare incontro alla morte rinunciando alla possibilità di sopravvivere – le figure che accompagnano Harry Potter sono parte di lui, invisibili a chiunque altro, ed è quello il modo in cui i nostri cari sopravvivono alla morte. Come aveva già spiegato Silente ad Harry dopo lo scontro con i Dissennatori da cui è salvato dal Patronus di un cervo come quello del padre: «Credi che le persone scomparse che abbiamo amato ci lascino mai del tutto? Non credi che le ricordiamo più chiaramente che mai nei momenti di grande difficoltà? Tuo padre è vivo in te, Harry, e si mostra soprattutto quando hai bisogno di lui. Altrimenti come avresti fatto a evocare proprio quel Patronus? Ramoso è tornato a correre la notte scorsa. Quindi ieri notte hai visto tuo padre, Harry... l'hai incontrato dentro di te» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).

Nel complesso un saggio più analitico che filosofico, ambito in cui sostanzialmente nulla aggiunge dopo il bel testo di Simone Regazzoni Harry Potter e la filosofia.

sabato 25 giugno 2011

serpeverde o grifondoro?

È come Harry Potter: il cappello parlante ha rivelato la sua natura da serpeverde, ma lui si è fatto il proprio destino scegliendo di andare nel grifondoro.
Queste, anche se non letterali, le parole che uno dei personaggi di Dr. House - serie di per sé profondamente filosofica - ha pronunciato in un episodio del telefilm. Io, a questo punto, ci aggiungo Sartre e il suo concetto di circuito dell'ipseità, per cui non è tanto importante cosa gli altri hanno fatto di noi, ma cosa noi facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi.
Per Sartre è la malafede l'atteggiamento in base al quale ci si nasconde dietro i determinismi, si sostiene di non decidere, di essere trasportati dal proprio passato o dal destino, più che agire si vuole credere di essere agiti. Questa presunta passività, questo “volo a vela”, questa “costituzione passiva”, è semplice auto-inganno: in realtà è necessario che la coscienza dia esistenza alla propria costituzione, che la attualizzi. I soggetti non sono mai oggetti del proprio destino, è necessario che il destino venga attuato.
Per Sartre la passività viene interiorizzata e poi riesteriorizzata in un processo dialettico continuo, i condizionamenti vengono assunti (affermati o negati) e superati in una proposta successiva. Si tratta di due fasi di uno stesso movimento assolutamente libero (l’uomo è condannato alla libertà): il primo è il processo di interiorizzazione dell’esterno, il secondo è l’esteriorizzazione dell’interno. Questo piccolo movimento fa di un essere condizionato un uomo.
È necessario che questo circuito dell’ipseità sia un’azione autentica, un’accettazione della propria libertà, e non la scelta in malafede di non superare la fatticità e bloccare il proprio essere in una recita.

mercoledì 27 aprile 2011

amor fati e la lotta degli uomini liberi

«”Ascoltami bene, Harry. Si dà il caso che tu abbia molte qualità che Salazar Serpeverde apprezzava nei suoi alunni, che selezionava accuratamente. E tuttavia, il Cappello Parlante ti ha assegnato al Grifondoro. Tu sai perché. Pensaci”. “Lo ha fatto” disse Harry “perché gli ho chiesto io di non andare fra i Serpeverde”. “Appunto” disse Silente raggiante. “Il che ti rende assai diverso da Tom Riddle. Sono le scelte che facciamo, Harry, che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità» (Harry Poter e la camera dei segreti). Harry Potter è diverso da Voldemort, come da Salazar, non per le sue caratteristiche ma perché ha fatto scelte diverse a partire da cui, solo, quelle caratteristiche assumono forma e valore. È stato Jean-Paul Sartre a esprimere nel modo più radicale quest’idea per cui l’uomo è ciò che, in assoluta libertà, sceglie di essere: «Tu sei libero, scegli, cioè inventa. Nessuna morale generale ti può indicare ciò che è da fare» (L’esistenzialismo è un umanismo).
Il valore etico della libera scelta non consiste nell’esercizio di una libertà astratta e assoluta, ma nella pratica di una libertà sempre inscritta in un contesto, in una ben precisa situazione in cui si tratta di rispondere a ciò che accade. È proprio dove l’ombra di un destino già segnato sembra allungarsi sulla serie delle libere scelte, che Harry comprende il senso profondo della sua libertà di fronte a ciò che accade: «Finalmente capiva quello che Silente aveva cercato di dirgli. Era, si disse, la differenza fra l’essere trascinato nell’arena ad affrontare una battaglia mortale e scendere nell’arena a testa alta. Forse qualcuno avrebbe detto che non era una gran scelta, ma Silente sapeva – e lo so anch’io, pensò Harry con uno slancio di feroce orgoglio, e lo sapevano i miei genitori – che c’era tutta la differenza del mondo» (Harry Potter e il principe mezzosangue). Che differenza c’è tra essere costretti ad affrontare la battaglia mortale e scegliere di affrontarla? È la differenza tra essere o non essere degni di ciò che accade, tra il sì di rassegnazione di fronte a ciò che accade, all’evento, e il sì di affermazione. È Deleuze ad aver descritto, nel modo migliore, questa forma di libertà in cui un certo Amor fati (“amore per il fato, per il destino”) alla Nietzsche come sì all’evento fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi: «Non essere indegni di ciò che accade. Cosa vuol dire allora volere l’evento? Vuol dire forse accettare la guerra quando capita, la ferita e la morte quando capitano? È molto probabile che la rassegnazione sia ancora una figura del risentimento. Se volere l’evento è innanzitutto liberarne l’eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti. In questo senso l’Amor fati fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi» (Logica del senso). La libertà dell’atto etico è dunque un sì all’evento come esposizione incondizionata a ciò che accade, come una passività senza rassegnazione. Una passività che ha la forza di controeffettuare ciò che arriva. Ed è qui che il ragazzo che reca sulla fronte la cicatrice a forma di fulmine sembra incrociare i passi dell’Übermensch, dell’oltreuomo di Nietzsche.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

giovedì 21 aprile 2011

il coraggio dell'atto etico (2di2): un altro genere di coraggio

L’atto etico espone dunque – in quanto atto di rottura radicale – il soggetto al rischio della morte simbolica e/o reale. Slavoj Žižek in alcune pagine de Il soggetto scabroso, commentando Lacan, lega atto etico e pulsione di morte, in quanto l’atto etico non si produce secondo le regole dell’orizzonte socio-simbolico dato, ma è il rischio di un gesto che rompe con il grande Altro, che si priva della sua assicurazione rischiando, così, la morte simbolica e/o reale: «Lacan ha riconcettualizzato la pulsione di morte freudiana come forma elementare dell’atto etico. Per Lacan, non c’è atto etico vero e proprio senza il rischio di questa momentanea “sospensione del grande Altro”, della rete socio simbolica che garantisce l’identità del soggetto: si assiste a un atto autentico solo quando il soggetto rischia un gesto che non è più “coperto” dal grande Altro». Ecco la differenza, sostenuta nella saga di Harry Potter, tra ciò che è giusto e ciò che è facile. Ma l’esposizione a questo limite del dover morire come elemento essenziale dell’atto etico non ha nulla dello sprezzo della morte o del pericolo, è un’esposizione angosciata ma risoluta che è cura della morte che alimenta la vita etica come pratica della libertà: «La morte, improvvisa e definitiva, era con loro come una presenza» (Harry Potter e i doni della morte).
Nel dialogo tra Harry e il ministro della magia al termine del funerale di Silente,  Harry ribatte che Silente «avrà veramente lasciato la scuola solo quando non ci sarà più nessuno che gli sia fedele» (Harry Potter e il principe mezzosangue). È il legame tra giustizia e fedeltà allo spettro dell’altro scomparso, a coloro che non sono più presenti viventi, di cui ha parlato Jacques Derrida: «Non c’è rispetto e quindi giustizia possibile, senza questo rapporto di fedeltà o di promessa, in un certo modo, con quello che non è più vivente. Non ci sarebbe esigenza di giustizia né responsabilità senza questo giuramento spettrale» (Ecografie della televisione).
Voldemort, disposto a tutto pur di salvarsi la vita – anche a uccidere e frantumare la propria anima –, non sa accettare di dover morire, per questo non è capace di atti etici ma solo di calcoli per salvare la propria vita: «L’incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l’ordine della fenice) gli dice Silente. Questa incapacità ha sempre impedito a Voldemort di accedere, nel corso della sua vita, alla vita stessa nel suo valore. La vita, infatti, come ha scritto Derrida, non vale niente se non vale più della vita, più del semplice fatto biologico di vivere. Il limite dell’enorme potere di Voldemort consiste nel non avere la forza per accedere a quella libertà appassionata ed effettiva che Heidegger chiamava, in Essere e tempo, “libertà per la morte”. Cosa che invece sa fare Harry: «Tu sei il vero padrone della morte» – dice Silente a Harry – «perché il vero padrone non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della morte).
Il coraggio evocato da Silente è quello di esporsi e rendersi vulnerabili alla morte, o come dice Aristotele al «dolore distruttivo, letale»: «E dunque si crede, in sostanza, che sia proprio del coraggio avere un certo atteggiamento relativamente alla morte e al dolore che le si accompagna» (Etica Eudemia). Il coraggio non esclude, semplicemente, la paura che fa tremare il corpo: il coraggioso, certo, non è un vile, ma non è nemmeno il temerario. Harry, nel momento di andare incontro alla propria fine, «non riusciva più a controllare il proprio tremito. Non era poi tanto facile morire. Pensò che non sarebbe riuscito a continuare e nello stesso momento seppe che doveva» (Harry Potter e i doni della morte). Ecco l’atto etico nella sua forma più pura: incondizionata esposizione all’evento della morte, la forza di una certa debolezza come forza di rendersi vulnerabili alla morte.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

mercoledì 20 aprile 2011

il coraggio dell'atto etico (1di2): ciò che è giusto e ciò che è facile

Il Torneo Tremaghi si è concluso nel modo peggiore. Cedric Diggory è morto nel corso dell’ultima prova, assassinato da Lord Voldemort risorto in tutta la sua potenza. A Hogwarts, nella Sala Grande listata a lutto, le giovani streghe e i giovani maghi sono pronti ad ascoltare il discorso del loro preside, Albus Silente. Sono parole pacate e precise, di una forza misurata ma dirompente, e rendono omaggio alla memoria del giovane Cedric. Un omaggio che, senza enfasi né retorica, prende la forma tragica e bellissima della formula perfetta dell’etica. Formula tragica perché attraversata dallo spettro incancellabile della morte. Bellissima e perfetta perché – in consonanza con l’idea di etica come pratica della libertà espressa nella saga di Harry Potter – non comanda né ammonisce, non dice che cosa si debba fare, ma richiama ciascuna e ciascuno alla propria singolare responsabilità come capacità di produrre, in una data situazione, un atto etico. Cioè un atto ispirato all’idea di giustizia.
È questa la modalità di insegnare senza ammaestrare di Albus Silente: dare ai propri studenti tutti i mezzi perché possano affrontare le situazioni difficili ma lasciare al contempo loro anche la possibilità di affrontare liberamente, e da soli, tali situazioni. Anche a rischio dell’errore o del peggio. Di questo rischio fa esperienza Harry durante il primo anno trascorso a Hogwarts, quando si trova a dover affrontare da solo Voldemort. Silente avrebbe anche potuto fermarlo, avrebbe potuto dirgli che cosa fare, dargli consigli su come fronteggiare il pericolo o, al limite, intervenire in suo soccorso. Ma non fa nulla di tutto ciò: «Invece di fermarci, ci ha insegnato tanto da darci una mano» (Harry Potter e la pietra filosofale). Se l’etica è l’imparare a vivere soli, da sé, tra la vita e la morte, il diritto a un certo rischio non può mai essere cancellato: «Silente mi ha sempre fatto scoprire le cose da solo. Voleva che sperimentassi le mie forze, che corressi rischi» (Harry Potter e i doni della morte). L’atto etico non è un qualche particolare e potentissimo incantesimo in grado di risolvere i problemi o i dilemmi che si pongono al soggetto, ma l’atto di una decisione che trasforma lo stato delle cose senza l’ausilio di nessuna magia.
Ecco le parole che Silente rivolge ai propri studenti in occasione della morte di Cedric: «Ricordatevi di Cedric. Quando e se per voi dovesse venire il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordate cos’è accaduto a un ragazzo che era buono, e gentile, e coraggioso, per aver attraversato il cammino di Voldemort. Ricordatevi di Cedric Diggory» (Harry Potter e il calice di fuoco). Il preside di Hogwarts evita accuratamente di fare la morale, non predica, non invoca leggi o valori sommi, gesti esemplari, regole infallibili cui attenersi, o un qualche nobile insegnamento che la scuola avrebbe impartito alle giovani streghe e ai giovani maghi e che sarebbe venuto il momento di mettere in pratica. Lo spettro dell’amico morto, e la morte tout court, gioca un ruolo chiave in questa scelta etica. La formula perfetta dell’etica è la composizione di questi tre elementi: ciò che è giusto, ciò che è facile e lo spettro della morte. Quasi che facile fosse sinonimo di ingiusto – cosa che è tutt’altro che scontata – perché l’etica richiede al soggetto di saper rompere con ciò che è facile per produrre una decisione che abbia la forza di creare, tra la vita e la morte, giustizia. Sicuramente esistono scelte giuste che sono anche facili –  e non sono scelte senza valore nell’ambito della quotidiana convivenza –, ma tali scelte non possono essere definite propriamente etiche. Queste scelte si muovono in quelle che Heidegger chiamava «la medietà di ciò che si conviene», che determina «ciò che è possibile o lecito tentare», che «sorveglia ogni eccezione» e soddisfa così la tendenza a «prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili» (Essere e tempo).
L’etica è qualcosa di più, e di altro, rispetto al comportamento socialmente accettabile, conformistico, attento a obbedire alle regole e alle leggi. L’etica è il coraggio di ciò che è giusto, il coraggio di fare ciò che è giusto e che si alimenta in ciò che è giusto, il coraggio di sospendere l’orizzonte di ogni regola al momento di decidere per ciò che è giusto. «Se l’idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. Sentiamo che ciò rinvia a qualcosa di più della legge, a qualcosa di diverso dalla legge», per usare una formula di Jean-Luc Nancy (Il giusto e l’ingiusto).
Ciò che è giusto richiede coraggio perché rompe con il normale corso delle cose, con l’orizzonte delle abitudini e del comportamento socialmente accettabile. L’atto etico eccede il semplice dovere morale – ad esempio la scelta di combattere, di entrare in clandestinità, di organizzare la resistenza contro Voldemort e i Mangiamorte, rinunciando, così, a una vita normale e rischiando la vita stessa –, potrebbe sembrare un atto supererogatorio (dal latino supererogare, “pagare più del necessario”). L’idea di etica che emerge dalla saga di Harry Potter, nel suo legame con l’idea di giustizia al di là della legge, eccede i limiti che Rawls traccia tra morale per le persone comuni e morale supererogatoria per santi ed eroi (Una teoria della giustizia): non c’è etica né possibilità di giustizia, non c’è atto etico degno di questo nome se non là dove un soggetto si spinge al di là dei limiti del semplice dovere. Non c’è nulla di etico, infatti, nel fare semplicemente ciò che si deve fare.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

giovedì 14 aprile 2011

magia e ragione: decostruire la ragione dogmatica

«Come può un giovane imparare a pensare razionalmente se da bambino si appassiona alle imprese fantastiche di Harry Potter o del Signore degli Anelli?», ha dichiarato nel corso di un’intervista Piergiorgio Odifreddi. Queste parole sono importanti come sintomo: esse dimostrano che il mondo magico di Harry Potter spaventa perché evoca spettri che l’Occidente continua a esorcizzare in nome di un’idea caricaturale e dogmatica di ragione. Nessun elogio dell’irrazionalità in Harry Potter, bensì la decostruzione della ragione dogmatica come apertura della ragione a ciò che non è riconducibile al calcolo e al calcolabile. I guardiani del “vecchio razionalismo” (Edmund Husserl) non sanno pensare, proprio come zio Vernon, al di fuori del ristretto ambito delle loro presunte certezze, mentre la saga della Rowling scava nel sottosuolo della ragione e restituisce alla ragione quella parte fondamentale di irrazionale che la abita e la ossessiona, e di cui lo straordinario personaggio di Luna Lovegood, che «crede solo alle cose di cui non esiste alcuna prova» (Harry Potter e l’ordine della fenice) – e che, alla “prova dei fatti”, sarà apprezzata anche dalla logicissima Hermione –, è uno dei simboli più belli. Ed è solo in questo modo che c’è educazione effettiva alla razionalità, a una razionalità complessa e aperta che rompe con quello che Jacques Derrida ha definito logocentrismo: il dominio di una ragione maschile e dogmatica ossessionata dalle idee di esattezza e di verità. Sono meri pregiudizi razionalistici ed etnocentrici che elevano una forma particolare e storica di razionalità, quella occidentale, a modello e norma universale.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

martedì 5 aprile 2011

il gioco dei mondi: eterotropie e critica della normalità

«Vogliamo davvero far sì che l’esistenza si avvilisca in un esercizio da contabili e da matematici chiusi nel loro studio? Innanzitutto non si deve spogliare l’esistenza del suo carattere polimorfo: lo esige il buon gusto, signori miei, il gusto del rispetto di fronte a tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! Un’interpretazione “scientifica” del mondo, come l’intendete voi, potrebbe esser pur sempre una delle più sciocche, cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo, una delle più povere di senso» (Friedrich Nietzsche).

Con le parole di Michel Foucault, «la filosofia è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). La storia di Harry Potter inizia proprio con la rottura di un certo regime dell’esistenza supposto normale, con la messa in questione radicale della credenza secondo cui esisterebbe un solo mondo, il presunto mondo normale in cui orgogliosamente vive, e di cui è la triste espressione, la famiglia Dursley: «Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante» (Harry Potter e la pietra filosofale). Fin dall’inizio, dunque, la portata etico-politica dei romanzi della Rowling emerge come la necessità di decostruire l’idea dell’esistenza di un solo mondo e di imparare a esistere in più di un mondo. Non a caso la questione del male, incarnata dal Signore Oscuro, Lord Voldemort, si presenta come l’incubo dai precisi tratti nazisti di un unico mondo come totalità purificata da ogni alterità, un mondo di maghi purosangue.
Il mondo magico e il mondo normale (o babbano) sono due mondi distinti simultaneamente presenti, ripiegati l’uno nell’altro. Questa dimensione di ripiegatura è ben evidente nel caso dell’abitazione della famiglia Black al numero dodici di Grimmauld Place, che si trova ripiegata tra il numero undici e il numero tredici: «Una porta malconcia affiorò dal nulla. Era come se una casa in più si fosse gonfiata, spingendo da parte quelle ai lati» (Harry Potter e l’ordine della fenice). Si pensi, oltre che alla casa dei Black, a Diagon Alley che si apre “dietro” il Paiolo Magico situato in Charing Cross Road a Londra, e al binario nove e tre quarti che si trova “tra” il binario nove e il binario dieci di King’s Cross Station. Il mondo magico è uno spazio altro che abita nelle pieghe del mondo normale, al contempo fuori degli spazi in cui si trova incluso. L’altro mondo magico ha tratti in comune con quelle che Foucault chiamava eterotrofie, e più precisamente con quelle che chiamava eterotrofie di crisi: spazi riservati agli individui che vivono in uno stato di crisi nei confronti della società e dell’ambiente umano circostante, come ad esempio gli adolescenti.
Secondo Foucault le eterotopie di crisi stanno scomparendo a favore delle eterotopie di deviazione, spazi «in cui vengono collocati gli individui che hanno un comportamento deviante rispetto alla media o alla norma richiesta» (Eterotopia). L’eterotopia del mondo magico si presenta come la contestazione in atto, e l’effettiva decostruzione, non solo dell’unicità del mondo presunto normale, e del suo modello di razionalità tecnico-scientifica, ma anche dell’idea di eterotopie di deviazione quali spazi di reclusione dei soggetti che non si adeguano alla presunta normalità del mondo. La sua forza di rottura è quella propria del fantastico: «Tutto il fantastico – come scrive Caillois – è rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile in seno all’inalterabile legalità quotidiana» (Nel cuore del fantastico), è l’incondizionata affermazione di un diritto all’esistenza di un mondo altro.
Il messaggio che ci arriva dai testi della Rowling è l’opposto di un invito a rifugiarsi nel sogno e nelle illusioni: è un invito, piuttosto, a non rassegnarsi a vivere imprigionati in un solo mondo – nel presunto mondo normale. Come all’interno del romanzo Harry Potter e la pietra filosofale le lettere rivelano a Harry la verità di un altro mondo in cui esistere – imparando nuovi linguaggi, acquisendo nuovi saperi, entrando in nuove reti di relazioni –, allo stesso modo la letteratura, e nel caso specifico la saga di Harry Potter, ci rivela un mondo: apre per noi la verità di un mondo in cui esistere. Ogni romanzo della saga è come una specie di lettera spedita dall’altro mondo, che ci chiede di rispondere: vale a dire di accogliere e farci carico della verità di quel mondo che rovescia l’ordinario. È quanto ha affermato Heidegger: «L’arte è il porsi in opera della verità», e «il porsi in opera della verità apre il prodigioso, rovescia l’ordinario e ciò che è mantenuto come tale». Nell’opera così intesa «ci colpisce l’urto del prodigioso, respingendo ciò che fino allora appariva normale» (L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti).

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

lunedì 28 marzo 2011

i lampi di possibili tempeste

More about Harry Potter e la filosofia«La critica sentenziosa mi fa addormentare – diceva Foucault –; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). Sono i lampi di queste tempeste ciò che la filosofia dovrebbe provare a scatenare in un inedito confronto con il proprio tempo. La cultura di massa o cultura pop, con le sue storie e i suoi mondi, è oggi un campo imprescindibile per l’esercizio dell’antico e nobile amore della sapienza. Un esercizio qui inteso come riscrittura filosofica del testo pop e montaggio del testo filosofico con il testo pop. 
Certo, nell’Occidente antimagico vi sarà sempre qualche Babbano pronto a dichiarare che un romanzo di maghi, fantasmi, manici di scopa volanti, draghi, è diseducativo per la ragione, oltre che per i giovani lettori di cui rischierebbe di distorcere l’indole, e tante grazie. Ma questa, in fondo, è solo una vecchia storia, buona per spiriti tristi e risentiti che non sanno come giustificare la propria pigrizia intellettuale. E di questa storia, francamente, mi importa poco o nulla. La saga di Harry Potter è vera e reale perché apre un mondo. È quanto ci ha insegnato Heidegger: un’opera d’arte è la messa in opera di una verità in quanto è capace di aprire un mondo, di mettere in atto un mondo. È da qui, e non dai balbettii di certa critica letteraria, che occorre partire per comprendere la portata del romanzo-mondo creato dalla Rowling. La saga di Harry Potter è, a tutti gli effetti, un’opera d’arte della cultura pop di grande complessità e bellezza, e una risorsa straordinaria e potentissima per l’esercizio della filosofia. Una filosofia per bambine e bambini, streghe, maghi e Babbani. E per quanti sanno prestare ascolto alle parole di un grande poeta, René Char, che scriveva: «Sviluppate la vostra legittima stranezza».

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

lunedì 7 marzo 2011

harry potter e il reincantamento del mondo

Tra le icone del nostro tempo ce ne sono alcune che esprimono un imponente reincantamento del mondo, il ritorno della fantasia, del fantastico, della fantasticheria. Ormai la fede ingenua nel Progresso e nella sua marcia trionfale non convince più nessuno; i Lumi settecenteschi tendono ad essere soppiantati dal chiaroscuro dell'esistenza.
Harry Potter incarna la figura antica e sempre nuova del fanciullo eterno (puer aeternus), una creatura in perenne divenire che ad ogni passo affronta una nuova avventura. Così, a differenza di chi si accontenta di chiedere un'esistenza protetta e una vita a rischio zero, quel divino briccone che è il maghetto di Hogwarts viene a ricordarci che l'uomo è perennemente tormentato dalla sete di infinito, dal desiderio di un Altrove. Per lui l'avventura è un elemento essenziale della natura umana, con lui la ricerca del Graal è sempre di attualità.
I libri e i film in cui compare Harry Potter illustrano la presenza di un meraviglioso nel quale la paura è strettamente intrecciata alla fascinazione. Dove avviene l'incontro? A Hogwarts, una scuola, ma una scuola di magia. L'educazione lascia il posto a un percorso iniziatico, a un continuo rimettersi in cammino nel quale le prove e le insidie non possono mai dirsi completamente superate. Harry Potter è il simbolo delle giovani generazioni che, nella loro straordinaria voglia di vivere, non danno più ascolto a nessuno. Sanno bene, di un sapere incorporato e non teorico, di una conoscenza fatta di esperienze, sanno bene che la vita non somiglia a un fiume calmo: vi sono vortici, gorghi e altro ancora. Tutte cose che bisogna sapere affrontare con eleganza, con disinvoltura e anche con insolenza. Ed è quello che fa Harry, eterno apprendista stregone, adolescente che mette in crisi la sclerosi delle istituzioni invocando la forza del sogno. In questo senso egli è in accordo col giovanilismo imperante che prende alla lettera la formula di Nietzsche: «Diventa quello che sei senza mai cessare di essere un apprendista».
Lo sfregio che segna la fronte di Harry è lo stesso che ritroviamo nei tatuaggi, nei piercing e negli altri segni visibili sempre più di moda nelle nostre società. Esso ricorda che la parte oscura dell'animale umano è tutt'altro che superata e che bisogna saperci convivere per raggiungere una forma di interezza.

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