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lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

martedì 16 febbraio 2016

l'impossibile aldilà di una sovrana crudeltà

Secondo Jacques Derrida se la possibilità della crudeltà è irriducibile nella vita dell'essere animato, allora ogni discorso altro – teologico, metafisico, genetico, etc. – da quello della psicanalisi non potrebbe aprirsi a questa ipotesi, la ridurrebbe, escluderebbe, priverebbe di senso: il solo discorso che possa rivendicare la questione della crudeltà è la psicanalisi, il “senza alibi” senza di cui non si può prendere in considerazione la crudeltà. Ecco perché in Statid'animo della psicanalisi, unendo il tema della crudeltà a quello della sovranità, è agli psicanalisti che si rivolge per nuove Considerazioni attuali sulla guerra, per un nuovo Perché la guerra?
Nella sua corrispondenza con Freud, Einstein aveva osservato che la forza e il diritto (Macht und Recht) vanno di pari passo – nessun diritto senza possibilità di costrizione aveva detto lo stesso Kant –; che una pulsione di potere caratterizza ogni nazione, spontaneamente protesa alla sovranità e avversa a una restrizione dei diritti sovrani dello Stato; che l'uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di distruggere, una pulsione di crudeltà. Così, solo l'abbandono incondizionato da parte di ogni nazione di almeno una parte della propria sovranità potrebbe non paralizzare gli sforzi di una giustizia internazionale.
Freud, d'altra parte, denuncia come illusorio uno sradicamento delle pulsioni di crudeltà, di potere, di sovranità: ciò che è necessario coltivare è una transazione differenziale, un'economia della diversione, un avanzare indiretto. Legata all'essenza della vita, la crudeltà non ha un contrario ma solo differenze di modalità, qualità, intensità. L'ideale, afferma Freud, sarebbe una comunità la cui libertà consistesse nel sottomettere la vita pulsionale a una “dittatura della ragione”: un progresso per spostamento indiretto e restrizione delle forze pulsionali.
Derrida, però, sottolinea gli aspetti problematici del discorso freudiano. Benché Freud riconosca che non c'è alcuna valutazione etica nella descrizione delle polarità pulsionali e che non ha senso volersi sbarazzare delle pulsioni distruttrici perché senza di loro cesserebbe la vita stessa, egli poi, però, radica nella vita, nella vita organica, nell'economia autoprotettrice della vita organica, in uno dei poli della polarità quindi, tutta la razionalità in nome della quale egli propone di sottomettere o di restringere le forze pulsionali. Giustificare un pacifismo, un'opposizione alla pena di morte, una difesa del diritto alla vita, non si può fare in modo radicale a partire da un'economia della vita, della vita organica. Derrida afferma che c'è, che occorre che ci sia qualche riferimento a una vita, certo, ma a una vita altra da quella dell'economia del possibile, una vita im-possibile probabilmente, una sopra-vita (sur-vie), la sola che valga di essere vissuta, senza alibi, una volta per tutte, una sola volta per tutte, la sola a partire dalla quale un pensiero della vita è possibile. Ciò si può dare solo a partire da figure dell'incondizionato impossibile come l'ospitalità, il dono, il perdono, l'imprevedibilità, il forse, l'evento, la venuta dell'altro.
E se vi fosse, in alcuni casi, crudeltà nel non donare la morte? E se vi fosse dell'amore nel voler donarsi la morte in due, l'uno all'altro, l'uno per l'altro, simultaneamente e no? E se vi fosse un “si soffre crudelmente in me, in un io” senza che si possa supporre che vi sia qualcuno che esercita una crudeltà?

venerdì 14 novembre 2014

letture di novembre (I)

Prima parte del mese dedicata a brevi letture di saggistica filosofica.
Il saggio di Umberto Curi su La forza dello sguardo indaga l'intreccio tra visione e potere, e la sua costitutiva e ineliminabile ambivalenza, che sembra caratterizzare lo sviluppo della storia culturale dell'Occidente, in cui la volontà di conoscenza e il desiderio di appropriazione sembrano saldarsi nella riproposizione di immagini della "rapacità dell'occhio che tutto vuole vedere-conoscere, che tutto vorrebbe rinserrare nel proprio orizzonte" e della figura dell'onniveggente-invisibile.
Il percorso di Curi si apre con Freud e la sua analisi psicoanalitica della vista quale fondamento del perturbante e si chiude con Foucault e l'organizzazione degli spazi, la sorveglianza nella società disciplinare, la dittatura orwelliana dello sguardo panotiico dei dispositivi del Grande Fratello, ma è tutto lo sviluppo centrale a costituire la parte più interessante del saggio, sviluppo il cui tragitto si svolge tutto all'interno del mito e della filosofia antichi: dallo sguardo potente della terribile Medusa al potere dell'invisibilità dell'anello di Gige, dalla tragedia di Edipo e il mito di Narciso al racconto di Platone della caverna in cui l'educazione filosofica emerge quale lotta e combattimento, afflizione e costrizione verso la luce (e con ritorno finale nelle ombre), allenamento dell'occhio e dello sguardo.

Giuliano Torrengo offre una piacevolissima e competente (dal funto di vista scientifico e fantascientifico, filosofico e letterario) guida a I viaggi nel tempo. Dopo aver presentato le diverse teorie sul tempo che si contrappongono nel dibattito odierno (visione dinamica o statica del tempo, nelle loro varie formulazioni moderate e più radicali), valutando quali di esse rappresentano uno sfondo metafisico più favorevole alla posizione dei viaggi nel tempo e quali, invece, sembrano inconciliabili con essi, l'autore chiarisce l'idea della quadridimensionalità dello spaziotempo, le implicazioni della relatività speciale sul concetto di simultaneità e quindi di presente e quelle della relatività generale sulla curvatura gravitazionale dello spazio quadridimensionale. Poi vengono illustrati macchine e tunnel spaziotemporali, costruiti o ottenuti sfruttando le caratteristiche di particolari oggetti cosmici. Infine si affrontano i paradossi del viaggio nel tempo (catene causali circolari, autorapimenti, oggetti provenienti dal nulla, tentativi di cambiamento del passato), mostrando come sia scorretta l'idea che viaggiare nel tempo è impossibile perché ne nascerebbero delle vere e proprie contraddizioni. Il tutto in maniera piana ma non superficiale, da buona guida, efficacie anche nell'uso di esempi e di riferimenti a prodotti dell'immaginario fantascientifico popolare.

Inoltre, di quel femonemo di Slavoj Žižekle cronache del mondo rimosso Distanza di sicurezza e la filosofia dell'Evento; la Piccola filosofia dello Zombie di Maxime Coulombe.

mercoledì 25 dicembre 2013

il perturbante

Quello di perturbante è un concetto al quale Sigmund Freud ha dedicato nel 1919 un breve saggio – Das Unheimliche, appunto –, in cui si inizia da un’indagine etimologica della parola. Il significato di perturbante «si riallaccia indubbiamente a ciò che è spaventoso, che suscita terrore e orrore» e, più in generale, «tende a coincidere con ciò che suscita paura», con lo strano, il fantastico, l’ignoto. Più nello specifico, continua Freud, è «un genere di spavento che si riferisce a cose da lungo tempo conosciute e familiari», ma che, in determinate occasioni, diventano inquietanti e spaventose. Nonostante la parola tedesca unheimlich sia l’opposto di heimlich e di heimisch, che hanno il senso di casalingo, familiare, nativo, abituale, è lo stesso termine heimlich a possedere una certa ambiguità di significato, riferendosi a due ordini di idee assai diversi se non proprio opposti: «da una parte ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato».
A questo punto Freud dapprima chiama in causa Schelling, nel tentativo di sciogliere l’enigma: secondo il filosofo tedesco, il senso di perturbante è riferibile a «tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce», come se dall’idea di casalingo, appartenente alla casa, nascesse l’idea di qualcosa sottratto alla vista degli estranei, nascosto e segreto. Successivamente, comincia la sua analisi più propriamente psicoanalitica, collegando quest’idea del “segreto venuto alla luce”, inaspettatamente, involontariamente, con la possibilità che qualcosa di analogo avvenga anche nell’attività della psiche umana: «l’elemento spaventoso», allora, sarebbe «costituito da qualcosa di rimosso che si ripresenta», non, in realtà, da qualcosa di nuovo o estraneo, ma da «un elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella psiche, che solo il processo di rimozione poteva rendere estraneo». Così, secondo Freud, il perturbante sarebbe un fatto intimamente familiare che riemergerebbe dopo essere stato sottoposto a un processo di rimozione, un residuo di attività psichica riportato alla luce.
Per illustrare questa sua analisi con un esempio, Freud affronta, tra gli altri, il tema del “doppio”:

«Il “doppio” era, all’origine, un’assicurazione contro la distruzione dell’Io, “un’energica negazione del potere della morte”, come dice Rank, e, probabilmente, l’anima “immortale” fu il primo “doppio” del corpo. Tali idee sono nate dal terreno di un illimitato egoismo, dal narcisismo primario che domina la mente del fanciullo e del primitivo. Ma quando questo stadio sia superato, il “doppio” inverte il suo aspetto. Da assicurazione contro la morte diventa il perturbante annunciatore di morte».

Il “doppio”, da assicurazione contro la morte e garanzia di immortalità concepite e prodotte da un pensiero ancora infantile e primitivo, oltre che primariamente egoistico e narcisistico, capovolge il suo senso in quello di perturbante messaggero di morte. Questo prodotto psichico, però, può successivamente, con nuovi stadi di sviluppo dell’Io, ricevere ancora ulteriori e nuovi significati, quali quello di funzione di auto-osservazione e autocritica:

«Può ricevere nuovi significati dai successivi stadi di sviluppo dell’Io. In esso si viene lentamente formando uno speciale ente, atto a sovrastare al resto dell’Io, la cui funzione consiste nell’osservare e criticare la personalità, esercitando una censura nell’ambito della mente, censura della quale noi siamo consapevoli e che chiamiamo “coscienza”».

Oltre che come “coscienza” osservatrice, critica e censoria, il “doppio” può anche assumere l’aspetto di immagine di un Io ideale, possibile, alternativo, sostenuto dall’idea della nostra sostanziale libertà di scelta:

«I futuri non adempiuti, ma possibili, cui ci piace ancora attaccarci nella nostra fantasia, tutti gli sforzi dell’Io che circostanze esteriori avverse hanno reso vani, tutte le azioni volitive soppresse».

Un Io incompiuto ma, forse, ancora possibile, rimasto pura fantasia solo per contingenti e contrarie situazioni. Ma, continua Freud, un impulso difensivo sembra aver «obbligato l’Io a proiettare all’esterno detto materiale, quasi si trattasse di qualcosa di estraneo. A conti fatti, l’aspetto perturbante del “doppio” non può derivare da altro se non dal fatto che esso è una creazione che risale a uno stadio mentale molto primitivo, da lungo tempo superato, durante il quale, sia detto tra parentesi, il “doppio” appariva sotto un aspetto più amichevole».
Proiettato all’esterno perché ormai prodotto psichico superato, che, in un certo senso, ha fatto il suo tempo, questo “doppio” inizialmente familiare, intimo e amichevole può ripresentarsi, improvvisamente, come qualcosa di ormai apparentemente estraneo, insolito, inquietante. Una regressione, quindi, il ritorno di complessi infantili o primitivi rimossi, sono la fonte da cui scaturirebbe il senso del perturbante: «Si ha una sensazione perturbante quando una data impressione riporta a nuova vita complessi infantili rimossi, oppure quando credenze primitive e superate sembrano trovare una conferma», conclude esplicitamente Freud.

«Prendiamo il perturbante legato all’onnipotenza del pensiero, all’esaudimento istantaneo dei desideri, ai poteri malefici occulti e al ritorno dei morti. Un tempo noi, o i nostri progenitori, credevamo che queste possibilità fossero realtà ed eravamo convinti che si realizzassero effettivamente. Oggi non ci crediamo più, avendo superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo assolutamente certi delle nostre nuove credenze e quelle vecchie esistono tuttora in noi, pronte ad approfittare di tutto ciò che possa dare loro conferma. Non appena nella vita ci succede effettivamente un fatto, che sembra confermare le vecchie, rigettate credenze, siamo presi da un senso di perturbamento».

Credenze infantili, primitive, superate e rimosse – nostre o dei nostri progenitori – possono tornare, approfittando prontamente di situazioni esterne che sembrano riconfermarle, e mettere quindi in crisi e in discussione le nuove credenze, che sembravano ormai acquisite, salde e sicure, ma di cui invece, evidentemente, non si è affatto assolutamente certi. Il sentimento che si prova in queste incredibili (uncanny) circostanze è il perturbante.



domenica 22 settembre 2013

letture di settembre (I)

Il corso on line su Moderno e Postmoderno continua con due saggi di Nietzsche e Freud -completando così, dopo Marx, la cosiddetta triade del sospetto - e un romanzo della Woolf. 

Di Friedrich Nietzsche ho letto la Genealogia della morale. Forse questo scritto polemico è il peggiore Nietzsche che io abbia letto, ma questo non gli impedisce di essere un gran bel libro: sicuramente la forma, la sperimentazione stilistica, non è ai vertici caratteristici del filosofo tedesco, ma non per questo il testo non è al solito dinamite, un far filosofia martellando contro idoli, luoghi comuni, presunte certezze, metafisiche verità, rovesciati valori. 
La genealogica scoperta dell'origine dell'opposizione tra "buono" e "cattivo" e la distinzione tra quest'ultimo e "malvagio", l'identificazione dell'immeschinirsi e del livellarsi dell'uomo europeo come il massimo dei pericoli, quello della stanchezza, del passivo nichilismo, della mancanza di voglia di divenire più grande, di essere - come un arco - teso, pronto al nuovo, al più difficile ancora, al più lontano ancora, minaccia peggiore di ogni presunta barbarie. Lo smascheramento del risentimento quale origine del senso di colpa e della cattiva coscienza, della crudeltà nascosta dietro ogni morale (perfino nel vecchio Kant l'imperativo categorico puzza di crudeltà, di un certo lezzo di sangue e di tortura) e interiorizzata in aggressività contro l'uomo stesso. La trasformazione di questa malattia - che poteva essere come una gravidanza o un orrendamente gioioso travaglio, un'avventura, un disprezzo per nuove sorprendenti bellezze e affermazioni, un supplizio ed esercizio da artisti - in ideali ascetici castranti, venefici, avvilenti, dall'effetto insomma simile a un'intossicazione alcolica o alla sifilide. 
Questi i temi delle tre trattazioni del saggio nietzschiano.

Di Sigmund Freud, invece, mi è toccato Il disagio della civiltà. Per esprimere la mia delusione derivante da questa lettura uso (parafrasandole solo un po') le stesse parole scritte dallo psicoanalista all'inizio del sesto paragrafo di questo suo saggio: leggendo questo lavoro ho avuto la sensazione di ascoltare la descrizione di una materia universalmente nota, l'impressione che siano stati consumati carta e inchiostro e si sia dato tanto da fare al compositore e allo stampatore del libro solo per esporre cose risapute. La mia personale impressione di aver a che fare con nient'altro che senso comune - il rapporto tra incivilimento e senso di colpa, il prezzo in termini di perdita di felicità che è necessario pagare quale debito per il progresso civile, etc. - è forse ancora più intensa dati gli oltre ottant'anni passati dalla stesura dell'opera e dallo stile freudiano che a me sembra piuttosto arido e piatto.


Gita al faro è stata, invece, l'opera di Virginia Woolf che ho letto per il corso. Il romanzo è una sorta di fenomenologia della coscienza post-cartesiana. Persa la sicurezza, la fiducia, la sovranità, la padronanza, l'autonomia, l'io (post)moderno si ritrova in una condizione tale che "seguire il suo pensiero era come seguire una voce che parla troppo in fretta perché sia possibile trascrivere a matita quel che dice, e la voce era la sua stessa voce che diceva senza alcun suggerimento cose innegabili, permanenti, contraddittorie". Se ancora la voce dell'io è la sua stessa, non ancora quella dell'altro, essa però inizia a sfuggirsi, a "danza[re] su e giù, come uno sciame di zanzare, ognuna separata dall'altra ma tutte mirabilmente trattenute in una invisibile rete elastica", a tessersi sempre più velocemente. Non si disfa, non si è decostruito fino allo sgretolamento, un "nucleo di oscurità in forma di cuneo", dilatato, insondabile, profondo, sembra permanere anche se quasi come un estraneo in casa, un perturbante segreto familiare e incredibile insieme, ma non ha, non può avere, "la dignità degli alberi immobili". "Aereo e evanescente, un colore che sfuma nell'altro come i colori sulle ali di una farfalla", è l'io, "ma sotto la costruzione [è] saldamente tenuta insieme da sbarre di ferro", si può "increspare con il respiro" ma non si può "spostare con un attacco di cavalli".

sabato 14 settembre 2013

eldritch

Mostruoso, orribile, ripugnante (hideous). Inquietante, misterioso, soprannaturale (eerie). Perturbante, sconcertante, incredibile (uncanny). Ma è l'aggettivo eldritch, riferibile a ciò che viene da una realtà altra, da un altro luogo, alieno, strano e straniero, che per Philip K. Dick riunisce tutto ciò che Sigmund Freud ha indicato come contenuto nella parola unheimlich, con la sua dimensione di panico davanti a ciò che è falsamente familiare, di impeto e spavento che fanno urlare: "come si urla per risvegliarsi, ma l'orrore è che sei già sveglio, che non c'è scampo" (Emmanuel Carrère). 
Da qui il nome Palmer Eldritch (Le tre stigmate di Palmer Eldritch), in cui Dick riunisce i temi del totalitarismo - che tanto lo aveva colpito leggendo Hanna Arendt, con la sua idea di allontanare la gente dalla realtà facendola vivere in un mondo fittizio, dando consistenza alla creazione di un mondo parallelo riscrivendo la storia e imponendo versioni aporife - e della realtà più vera dietro quella fenomenica e apparente - idea comune di tutte quelle forme culturali che vanno dal mito della caverna di Platone al sogno del cinese Chuang-zu (è il filosofo a sognare di essere una farfalla o è la farfalla a sognare di essere un filosofo?), dall'ipotesi iperbolica e radicale del genio maligno di Cartesio alla sua versione più moderna dei cervelli manipolati da uno scienziato elaborata da Hilary Putnam.


sabato 17 dicembre 2011

il piacere di avere paura

Ampliando l'idea di Bruno Bettelheim secondo cui le fiabe per bambini rappresenterebbero un rito di passaggio adolescenziale «Una particolare storia può rendere ansiosi certi bambini, ma una volta che essi hanno ottenuto una maggiore dimestichezza con le fiabe gli aspetti paurosi sembrano scomparire, mentre gli elementi rassicuranti diventano ancora più dominanti. Lo scontento originario dell'ansia si trasforma allora nel grande piacere dell'ansia dominata e affrontata con successo. I genitori che vogliono negare che il loro figlioletto ha desideri omicidi e vuole fare a pezzi cose e addirittura persone credono che al loro bambino debba essere impedito di covare pensieri del genere (come se fosse possibile)» (Le fiabe e le paure dei bambini, in Il piacere di avere paura – e adattandola ai racconti dell'orrore della serie a fumetti Dylan Dog, Roberto Manzocco sostiene nel suo saggio che il loro fascino «potrebbe ruotare attorno ad una forma di rito di passaggio post-moderno: in sostanza i mostri e lo splatter ci fanno sentire vulnerabili, ci tolgono il terreno da sotto i piedi, portano l'orrore fin dentro di noi, in modo da farcelo assaporare e casomai vincere – senza alcun pericolo. Le storie di paura e di orrore sono quindi esperimenti mentali che ci consentono di rafforzare le nostre difese psicologiche e dunque di crescere».
Oltre che a questa ipotesi, l'autore si richiama anche ad altri studi e analisi, filosofici e psicologici, sui temi dell'orrore, della violenza e della crudeltà. La psicologa inglese Kathleen Taylor autrice di Cruelty. Human evil and the human brain sottolinea come il piacere e la soddisfazione procurati dal sadismo vicario della crudeltà fruita e mediata derivino dal potere emotivo e dal senso di vertigine che essa induce, similmente a ciò che succede sulle montagne russe o sulle giostre; mentre lo psicologo americano David Buss sostiene in The murderer next door. Why the mind is designed to kill – che a livello inconscio è presente dentro di noi un'aggressività smisurata che riceve una soddisfazione di tipo vicario da certi generi di rappresentazione. Secondo il filosofo americano Noël Carroll autore di The Philosophy of Horror, saggio in cui presenta il "mostro" come quell'essere interstiziale e contaminato, inclassificabile e indefinibile una volta per tutte perché capace di infrangere le categorie con cui normalmente separiamo, ad esempio, l'interno e l'esterno, l'io e il tu, il vivo e il morto –, invece, «non il sangue e la violenza in sé, ma la propria capacità di assorbire l'orrore e dominare l'ansia e il disgusto» è ciò che si trova di piacevole nel genere horror.
Un altro elemento che Manzocco presenta nella sua analisi è il rapporto tra horror ed erotismo, l'erotizzazione dello splatter. E il filosofo di riferimento è, in questo caso, Georges Bataille, che ne L'erotismo scrive: «Se la bellezza, il cui compimento rifiuta l'animalità, è appassionatamente desiderata, ciò accade perché il possesso introduce in essa l'impurità animale. La si desidera per poterla corrompere. Non in sé e per sé, bensì per la gioia gustata nella certezza di profanarla. Nel sacrificio, la vittima veniva scelta in modo che la sua perfezione rendesse sensibile la brutalità della morte. La bellezza umana, nell'unione dei corpi, introduce la contrapposizione tra l'umanità più pura e l'animalità vergognosa degli organi. Del paradosso del laido che si contrappone nell'erotismo alla bellezza, i Quaderni di Leonardo da Vinci forniscono questa incisiva espressione: "L'atto dell'accoppiamento e le membra di cui esso si serve sono d'una tale laidezza che se non vi fosse la bellezza dei volti, gli ornamenti dei partecipanti e lo slancio sfrenato, la natura perderebbe la specie umana". Leonardo non s'avvede che le attrattive di un bel viso o di un bell'abito giocano nella misura in cui questo bel viso preannuncia ciò che l'abito dissimula. L'importante è di profanare quel volto, la sua bellezza. Di profanarlo in primo luogo mettendo a nudo le parti segrete di una donna, poi introducendovi l'organo virile. Esattamente come la morte nel sacrificio, la laidezza dell'accoppiamento comunica angoscia. Ma maggiore è l'angoscia e più forte è la coscienza di superare i limiti, che dà origine a un trasporto gioioso. Il fatto che le situazioni mutino a seconda dei gusti e delle abitudini, non può evitare che generalmente la bellezza (l'umanità) di una donna concorra a rendere sensibile l'animalità dell'atto sessuale. Nulla di più deprimente, per un uomo, della bruttezza di una donna, sulla quale la laidezza degli organi o dell'atto non risalti. La bellezza ha soprattutto valore perché la bruttezza non può essere profanata, laddove l'essenza dell'erotismo risiede appunto nella profanazione. L'umanità, significativa del divieto, è trasgredita nell'erotismo: è trasgredita, profanata, guastata. Maggiore è la bellezza, più profonda è la profanazione». L'idea del filosofo francese – espressa anche nella raccolta di saggi Il labirinto è che nell'uomo esista un eccesso irresistibile alla distruzione che opera in perfetto accordo e sincronia con l'incessante e inevitabile rovina e dissoluzione del divenire della realtà universale: «è il desiderio in noi di consumare, di rovinare, di dare alle fiamme tutte le nostre risorse; è la felicità che ci procurano la consumazione, il falò, la rovina che ci appaiono divini, sacri e che soli decidono in noi atteggiamenti sovrani, vale a dire gratuiti, superflui, non servendo che a se stessi, non essendo mai subordinati a risultati ulteriori». Bataille spiega dunque la fascinazione dell'orrore in termini di potenza e accordo gioioso con l'inarrestabile divenire.
In continuità con la gratuità e la sovranità di cui parla Bataille quali elementi di piacere presenti nell'orrore, l'autore richiama, in seguito, l'analisi che Roger Caillois presenta ne I giochi e gli uomini delle quattro categorie da lui riconosciute di giochi: agon (competizione), alea (casualità), mimicry (immedesimazione), ilinx (gorgo). Questi ultimi sono quelli che consistono in una sorta di smarrimento, di spasmo che annulla la realtà circostante, «distrugg[e] per un attimo la stabilità della percezione e f[a] subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico». È il caso di certe attrazioni da luna park, che – nonostante provochino spavento, nausea, urla di terrore, fiato mozzato, sensazione di torsione degli organi interni – sono anche fonte di una paradossale forma di godimento. A guidare questo piacere prodotto da una situazione brutta o, meglio, inquietante è lo stesso «principio che governa ogni vicenda di fantasmi e di altri eventi soprannaturali, in cui ci spaventa o ci fa orrore qualcosa che non va per il suo verso giusto» (Umberto Eco, Storia della bruttezza). È il perturbante – analizzato da Freud sulla base, tra l'altro, di Schelling –, l'incerto, l'inconsueto, a indurre una leggera e piacevole forma di gorgo, vertigine.

 

venerdì 5 agosto 2011

cascare dal sonno (3di4)


Ora, questa uguaglianza a sé si ridistribuisce a sua volta secondo la distinzione ritmica tra l'ineguaglianza del giorno e l'uguaglianza della notte. Il giorno è di per sé l'ineguale, il singolare; il giorno è sempre un altro giorno, domani è un altro giorno. Tutte le notti sono uguali; la notte riporta ostinatamente l'indifferenza nel differente, ritrova il mondo precedente, il magma, il caos, la khora, l'uguaglianza che riposa in sé; la notte depone le posizioni, disarma i sistemi di attivazione, scioglie i nodi delle reti. Il sonno diventa la notte stessa, ed esso stesso diventa il ritorno al mondo immemoriale, al mondo al di qua del mondo, al mondo degli dèi oscuri che non pronunciano alcuna parola creatrice.
La notte identifica il fuori e il dentro, l'occhio vi vede il sotto delle cose, il risvolto delle palpebre, lo strato invisibile dei contrari, dei basamenti, delle cripte, delle pelli rivoltate. Il sonno è divino, e ciò che vi si rivela di più propriamente divino è la sospensione della parola creatrice. Non viene pronunciato più alcun "che ciò sia!", non ci sono più comandamenti per far venire all'essere. C'è un'obbedienza silenziosa alla differenza dell'essere. Quello che il dormiente vede è proprio la cosa eclissata, il cuore perfettamente oscuro dell'eclisse dell'essere. Tutti i pensieri, che siano dell'occhio o dell'orecchio, del naso, della bocca o della pelle, dei nervi, delle viscere, delle catene neuronali, dei muscoli e dei tendini, delle volontà o delle immaginazioni, dei desideri o delle sofferenze, tutti i pensieri vengono a giocarsi liberamente, indistintamente distinti. Così, a volte, sopraggiunge il sogno, ossia forse qualcosa della notte che passa nel giorno. L'esile filo del sogno trattiene le antenne prigioniere come fa un ragno con quelle di un insetto nella sua tela. Così la tela dipinta e mossa debolmente su questi palchi da giocolieri di strada si tramuta in una ragnatela di filamenti argentei sui quali trema una goccia di rugiada o una lacrima, la cui caduta imminente lacererà la tela e farà precipitare il ragno con le zampe che si conficcano nel fondo degli occhi addormentati, fino a colpire la retina sulla quale ben presto si poserà la scintillazione, all'improvviso riconosciuta, del risveglio. All'alba l'animale viene a succhiare il nettare dei fiori notturni.
Il tempo del dubbio, se sogno o son desto, è il tempo proprio della coscienza che sa solo dubitare se fa notte attorno a lei o se il giorno si è levato, così che può garantirsi di una cosa sola, ossia che nel più profondo del suo essere o del suo stato c'è la notte più profonda, la notte nera di cui essa stessa è la potente sonnambula. È lecito dire, come vorrebbe Freud, che il sonno abbassa le difese? Non bisogna piuttosto tenere in considerazione il notevole allargamento del nostro mondo che arriva fino alla notte di un fuori dal mondo in seno al quale abbiamo fluttuato, simili a cosmonauti?

(da Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno


lunedì 20 giugno 2011

thomas mann e la filosofia moderna

Doppiamente interessante la raccolta di brevi Saggi di Thomas Mann su Schopenhauer, Nietzsche e Freud.
Dal punto di vista filosofico gli scritti dell'autore tedesco sono puntuali, precisi e fondati, oltre che interessanti - soprattutto quello su Schopenhauer.
Dal punto di vista letterario, invece, è interessante leggere come Mann riconosca e sveli quale influenza ha avuto sulla sua opera narrativa quella filosofia "irrazionalistica" che si oppone ad ogni abuso razionalistico, idealistico, ad un sereno e superficiale illuminismo, senza cadere in un oscurantismo reazionario, ma valorizzando gli aspetti più profondi (volontà, istinto, inconscio) dell'essere umano.

«"Chi si interessa della vita" ho scritto nella Montagna incantata "si interessa necessariamente anche della morte". In queste parole è ben visibile l'orma di Schopenhauer, profondamente impressa e persistente in tutta la mia vita. Schopenhaueriane sarebbero state anche le seguenti parole se avessi aggiunto: "Chi si interessa della morte, cerca in essa la vita". Ma questo pensiero io l'avevo già espresso, anche se in maniera meno epigrammatica, giovanissimo ancora, nel mio romanzo giovanile [I Buddenbrook], quando, dovendo far morire il protagonista, gli concessi di leggere quel grandioso capitolo sulla morte [de Il Mondo come volontà e rappresentazione], sotto la cui fresca impressione mi trovavo allora io stesso»

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