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domenica 11 maggio 2014

il superuomo di massa (1di4)

Questo libro raccoglie una serie di studi scritti in diverse occasioni ed è dominato da una sola idea fissa. Inoltre questa idea non è la mia, ma di Gramsci. L’idea fissa, che giustifica anche il titolo, è la seguente: “mi pare che si possa affermare che molta sedicente ‘superumanità’ nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma il Conte di Montecristo di A. Dumas” (A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, III, “Letteratura popolare”). Gramsci sta parlando del niccianesimo degli stenterelli imperante ai suoi tempi e dice chiaramente e polemicamente: il vostro superuomo non viene da Zarathustra bensì da Edmond Dantès. Se si pensa a Mussolini, che divulgatore del superomismo nicciano era al tempo stesso autore di narrativa d’appendice, si vede che l’ipotesi gramsciana colpiva nel segno. Sviluppare l’ipotesi gramsciana significava andare alla ricerca degli avatars del superuomo di massa, e così fanno questi saggi, da Sue sino a Salgari o a Natoli, per finire ai tempi nostri con un superuomo raccontato in termini di spy thriller – ed è James Bond. Non per questo la storia del superuomo di massa è da ritenersi conclusa. Rimangono innumerevoli casi in cui esso riappare. Si veda per esempio sul mio Apocalittici e integrati lo studio sul Superman dei fumetti. E poi sarebbe interessante vedere i nuovi superuomini cinematografici e televisivi, ispettori con le Magnum. E l’apparizione della Überfrau, dalla Wonder Woman dei fumetti già anteguerra alla recentissima Bionic Woman. Eccetera eccetera eccetera, benemerita schiera di cui già aveva detto una volta per tutte Gramsci: “il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce al tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare a occhi aperti… lunghe fantasticherie sull'idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati…”
(Umberto Eco, Il superuomo di massa)

venerdì 23 settembre 2011

un muratore

Metello (1955) di Vasco Pratolini appartiene a quella letteratura neorealistica che fa propria, dopo l'esperienza della chiusura fascista e i generi dell'evasività nella rappresentazione letteraria e cinematografica, l'esigenza di un nuovo contatto del letterato con la realtà storica e sociale, sulla spinta della teoria di Gramsci della necessità di costruire una letteratura nazional-popolare per garantire il progresso civile e raggiungere, attraverso una prima egemonia intellettuale e culturale, una successiva egemonia politica. Questa esigenza di realismo è ottenuta attraverso una trascrizione fonografica della lingua parlata, una rappresentazione fotografica degli ambienti e l'utilizzo e la presentazione di documenti.
Metello rappresenta il primo capitolo di una trilogia che, seguito da Lo scialo (1960) e Allegoria e derisione (1966), racconta Una storia italiana che va dal 1872 al 1966. In Metello si individua nel periodo post-unitario (1872-1902) il momento privilegiato per portare all'evidenza i difetti insiti nella società italiana che renderanno poi possibile la vittoria del fascismo. Attraverso un personaggio "tipico" si traccia la storia di una nazione, in particolare relativamente agli albori del movimento socialista, dallo spontaneismo degli anarchici all'organizzazione del partito, presentando un parallelismo tra la maturazione del protagonista e quella della classe operaia cui appartiene, in una sorta di romanzo di formazione ed educazione del giovane operaio.
La prima cosa che Metello impara è la solidarietà con gli "altri" che compongono il "noi" dei compagni di lotta e di lavoro, delle loro famiglie, della classe, di un'unità nella miseria in cui si riconosce una patria più vera di quella ufficiale. Poi, in prigione, sente per la prima volta «parlare di socialismo, di uguaglianza, di lavoro che andava pagato "secondo il sudore"» e sente dire che «ora che si è fondato questo nuovo partito, gli resterà sempre più difficile farci del male».
La crescita fisica, naturale, di Metello, innocente e forte come una giovane pianta o un animale e il cui «sangue è una rosa che stioppa», va di pari passo con quella spirituale, intellettuale: «come il suo corpo fioriva nella piena maturità, così il suo modo di agire e di pensare si era rafforzato». La sua è una maturazione politica e umana insieme, perché il socialismo è una forma di umanesimo integrale, e il suo progresso è inarrestabile: «si poteva fargli segnare il passo, spingerli indietro non era più possibile. Le macchine che gli erano state messe nelle mani, e che producevano ricchezza, col loro rumore forse, li avevano destati».

martedì 22 marzo 2011

tutti gli uomini sono filosofi

Lo spettro della filosofia si aggira per l’isola di Lost e si presenta in forma di nomi propri. Che fare con questi nomi di filosofi? Nulla. Resistere alla tentazione pedante di cercare nessi e collegamenti con i protagonisti della storia della filosofia. Chiunque può portare il nome di un filosofo. Perché ogni donna e ogni uomo è portatore di una filosofia. Ogni vivente umano è, a suo modo, filosofo. La singolare normalità con cui i nomi di filosofi circolano per l’isola indica in primo luogo questo: che la filosofia non è appannaggio dei filosofi di professione, non è sinonimo di accademia e professionisti del pensiero.
Nel corso delle sue Conversazioni con Claire Parnet, Deleuze è molto duro con la storia della filosofia: «La storia della filosofia è sempre stata l’agente del potere nella filosofia, e anche nel pensiero. Essa ha giocato il ruolo repressivo: come potete credere di pensare senza aver letto Platone, Cartesio, Kant e Heidegger, e neanche il libro di questo o quell’autore su di loro?»
Nei Quaderni del carcere (Quaderno 11) Antonio Gramsci scrive: «Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre piuttosto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea”. Tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo».
In Lost le vicende di ogni personaggio sono la storia di una visione del mondo che si confronta e si intreccia con le altre. Lost è una polifonia di visioni del mondo che ruotano intorno all’enigma della verità come enigma dell’isola.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost

 

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