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mercoledì 30 marzo 2022

la nausea di sartre

Mentre nel tempo più classico del suo esistenzialismo esistenza e libertà costituiscono una coppia indissolubile di termini, in questo romanzo la nozione di esistenza appare disgiunta da quella di libertà. In primo piano al posto del pouvoir de néantisation, protagonista assoluto de L’essere e il nulla, c’è il carattere inerziale dell’esistenza. Mentre scrive La nausea Sartre non ha ancora messo a fuoco quel dualismo ontologico che separa dicotomicamente l’esistenza umana - il per sé - dall’esistenza inerte delle cose - l’in sé. La vita umana non appare nel romanzo del ‘38 come trascendenza, libertà, progetto. In primo piano è un fondo di ingiustificabilità del reale e della stessa presenza umana del mondo. Sicché, la fatticità non appare come una polarità, insieme a quella della trascendenza, ma si estende sino a pervadere integralmente il mondo precedendo e risucchiando all’indietro il movimento in avanti della trascendenza. L’esistenza appare come insuperabile. Il suo piano di immanenza si impone su quello della trascendenza del desiderio. La storia di questo romanzo è, dunque, la storia di una progressiva e paradossale rivelazione; la rivelazione del reale dell’esistenza. Perché l’esistenza è rimossa dalla nostra frequentazione abitudinaria del mondo. L’esistenza circonda, imprigiona, incatena, ma non la incontriamo mai; subisce un permanente processo di occultamento che nel romanzo assume la cifra della malafede di fondo che contraddistingue gli esseri umani.

Il reale informe dell’esistenza viene ricoperto dal quadro stabile della realtà, da un tempo omogeneo che torna sempre uguale a se stesso. Costanza, regolarità, continuità, stabilità. L’opposizione in gioco è quella tra il carattere difensivo della realtà e quello scabroso e indigeribile del reale, per fuggire di fronte allo scandalo della gratuità assoluta dell’esistenza. L’esperienza della Nausea svela invece l’impostura della malafede. Un reale di troppo, insensato, ingiustificato lacera la rappresentazione canonica del mondo. L’irruzione dell’esistenza fa cadere la maschera dell’Essere necessario rivelandone tutta la contingenza. È l’esperienza improvvisa e ingovernabile della Nausea a far cadere la maschera della malafede. Questa caduta è l’esito di una scossa che colpisce innanzitutto il corpo: urto, vertigine, smarrimento.

La Nausea sartriana rivela l’esistenza come bruta fatticità, protuberanza ingiustificata, superflua, contingente, di troppo. L’esistenza nel suo essere qui contingente sfugge ad ogni significazione coincidendo con la sua assoluta presenza, con il suo più puro e bruto être-là. In evidenza è qui la distinzione categoriale tra il quid sit e il quod sit - tra la quidditas e la quodditas - tra il che cosa è e il c’è dell’esistenza. Il c’è senza senso non può non evocare l’il y a dell’esistenza che in quegli stessi anni Lévinas pensa come campo neutro, brulichio informe, pura esistenza senza mondo. È il tema della prevalenza di una nozione di esistenza senza trascendenza, libertà, progetto, dell’esistenza come condizione priva di redenzione, senza vie di fuga, intrappolata, incatenata in un essere che è anteriore al mondo inteso come luogo della significazione.

Nella Nausea non si tratta però dell’angoscia che Sartre - seguendo Kierkegaard e Heidegger - definisce ne L’essere e il nulla come l’autopercezione riflessiva della nostra libertà, vincolata alla responsabilità di fronte al carattere sempre dilemmatico della scelta. Diversamente dall’angoscia che è in stretto rapporto con il campo aperto delle possibilità, con la libertà come fondamento infondato dell’esistenza, la Nausea è invece in rapporto con il reale impossibile dell’esistenza, con la sua fatticità. Sartre distingue chiaramente l’una dall’altra:

la percezione esistenziale della nostra fatticità è la Nausea, e l’apprensione esistenziale della nostra libertà, l’Angoscia.
Se l’angoscia kierkegaardiana e heideggeriana implicano la separazione, la perdita, il confronto con il nulla del proprio fondamento, la Nausea sartriana implica invece il sentirsi affondare nell’esistenza senza possibilità alcuna di separazione. Se l’angoscia è un’esperienza che ha al suo centro il rapporto dell’esistenza con la responsabilità della scelta che implica la possibilità permanente di fare un taglio netto col proprio passato, la Nausea appare piuttosto come un’esperienza di sprofondamento, di immersione, un segnale di intrappolamento nell’immanenza assoluta, irrelata, senza rapporto, dell’esistenza, segnala il ritorno dell’infanzia insuperabile dell’esistenza, mostra l’esistenza come il nucleo buio del soggetto che non si lascia mai metabolizzare integralmente dal simbolico, un passato traumatico che non si lascia dimenticare. La Nausea non è angoscia di fronte al nulla a fondamento della nostra libertà, né sorge dalla meraviglia di fronte all’essere, ma dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza. La Nausea non confronta, come accade per l’angoscia, il soggetto con la propria libertà - non rivela la trascendenza dell’esistenza - quanto con l’
assenza di libertà. Rivela la fatticità bruta di un’esistenza che si scopre come pura passività, inerzia, incatenamento. Non a caso Sartre avrebbe voluto intitolare il suo romanzo Melancholia a sottolineare come la condizione del soggetto nauseato evochi da vicino quella del soggetto malinconico: mentre nella paranoia il senso è dappertutto - nella paranoia tutto è diventato segno -, nella melanconia l’esistenza appare scissa dall’Essere, priva di ogni senso.


[Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio]

lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

lunedì 6 febbraio 2012

filosofia nel juke-box

Nel saggio Tormentoni! Filosofia nel juke-box, Peter Szendy tenta di svelare l'arcano meccanismo con cui i tormentoni della musica pop producono attraverso il loro ascolto una inebriante, irrazionale e invincibile identificazione: «la più potente delle tentazioni provocata dal ritornello della canzone popolare» è quella di «avvolgersi, come in un vecchio cappotto, nella situazione che essa ci ricorda» (Benjamin). La canzone, quando prende la forma del motivetto da fischiettare e da canticchiare, è il genere per eccellenza che accompagna i nostri giri, le nostre azioni, le nostre passeggiate quotidiane.
Mentre l’unico e il cliché, l’incomparabile e l’interscambiabile, la psiche e il mercato, il singolare e il banale, sembrerebbero termini inconciliabili e incompatibili, i tormentoni musicali ci svelano inaspettatamente una paradossale e vertiginosa esperienza unica pur nella ripetizione e nella generalità dello stereotipo perché «ogni spettatore unico deve decidere da sé, deve fare da sé» (Kierkegaard). Il cliché, nella sua banalità interscambiabile, è tuttavia ogni volta unico per ognuno. Proprio quando, ascoltandoli, più nulla sembra possibile, i tormentoni vengono improvvisamente a snidare in noi ciò che di più segreto custodiamo: un momento passato, un istante che ci è caro, un’emozione o una pulsione inconfessabile, che appartengono solo a noi.
La melodia ossessiva, assillante (haunting) è come un fantasma che ritorna – con una singolare forza di apparizione e di reiterata irruzione (andirivieni spettrale) – a infestarci, come un tarlo o un virus nell’orecchio che non smette di riprodursi in noi, provocando una certa entusiasmante saturazione: cioè degli ingorghi e intasamenti nella circolazione interiore della nostra psiche, ma anche degli slanci di entusiasmo, dei voli lirici di un’incomparabile forza emotiva. Come dei fantasmi, come degli spettri, queste melodie vengono a tormentare: esse sono tormentoni, appunto, ossia grandi tormenti, ritornelli che abitano e assillano la vita di colore ai quali incessantemente ritornano.
I tormentoni hanno la forza di trascinamento e di raccoglimento propria degli inni: sono un inno intimo, una sorta di Marsigliese della psiche, incontenibile, compulsiva, impossibile da fermare; in ognuno di noi giocano il ruolo di un’Internazionale per delle intime commemorazioni (si confondono, così, le frontiere tra privato e pubblico). I tormentoni, insomma, diventano degli inni capaci di veicolare un’intimità inconfessabile e singolare, pur essendo al tempo stesso delle merci musicali perfettamente comuni, assolutamente equivalenti e indifferenti.
I tormentoni si fanno carico di ciò che si è cristallizzato in quanto vita o tratto di vita: ciò che ha preso forma diventando uno, unico, come una proprietà incomparabile. Un istante, un’estate, un anno divenuti incomparabilmente nostri. Quello che un gran numero di tormentoni canta e ci fa cantare è proprio la fama o la gloria di un momento spesso inconfessabile, in ogni caso singolare. A tutti noi il tormentone canta che… ah, no! non toccherà a me, io non sparirò certo così. Oh no, not I, I will survive. Il tormentone si costituisce come struttura di autoconservazione, esso si fa carico dell’affetto di ogni istante unico per ripeterlo all’infinito, capitalizza il tempo vissuto, qualsiasi esso sia, e quando ritorna quel momento singolare che il tormentone commemora, nella sua indifferente fedeltà a tutto e a niente, questo momento ritorna accresciuto degli interessi nostalgici di un io c’ero, ero lì, ecco ciò che ho vissuto come nessuno mai, ciò che è stato e che non sarà più. Nostalgia, malinconia di tutti i tormentoni.

venerdì 8 luglio 2011

per il resto perfettamente normale

Ma chi di noi può sperare di frugare col dito inquisitivo tra i bui pensieri che volteggiano nella testa di un folle?
Ecco un tale che è convinto di avere un sedere di vetro e ha paura di sedersi, per non rompersi. Sotto altri aspetti può essere una persona di notevole vigore intellettuale, disposta ad accompagnarci in lunghe escursioni mentali attraverso i labirinti della matematica o della filosofia, purché gli si permetta di rimanere in piedi durante i dibattiti.
Eccone un altro perfettissimamente educato e di vita esemplare, tranne il fatto che, per nessun motivo al mondo, svolterebbe in una direzione che non sia la destra.
Altri hanno la mania dei colori e attribuiscono un valore ingiustificato a degli oggetti rossi o verdi o bianchi.
I numeri, tuttavia, sono i responsabili di una buona percentuale di squilibrati. Ci sono uomini che passano la giornata a vagare per strada, in cerca di automobili il cui numero di targa sia divisibile per sette [o di automobili blu il cui numero di targa sia palindromo, oppure che cercano/si imbattono continuamente in ricorrenze del numero 23, perfino nel voto che devono prendere agli orali dell'esame di Stato].
Fin troppo noto, ahimè, è il caso di quel povero tedesco innamorato del tre, il quale riduceva ogni aspetto della sua vita a una questione di triadi. Una sera tornò a casa, bevette tre tazze di té con tre zollette di zucchero per tazza, si tagliò la giugulare tre volte con un rasoio e con mano morente scarabocchiò sulla fotografia di sua moglie addio, addio, addio.

(Flann O'Brien, Una pinta d'inchiostro irlandese)
 

L'ultima allusione, mi pare evidente, è a Hegel, quel filosofo che - secondo Kierkegaard - se avesse anteposto a tutta la sua opera la frase "tutto questo è uno scherzo" sarebbe stato il più geniale pensatore di sempre, quel filosofo che a parte la sua fissazione per il numero tre per il resto era perfettamente normale.

lunedì 18 aprile 2011

perché i supereroi dovrebbero essere buoni?

Kierkegaard descrive la vita che un uomo dovrebbe essere chiamato a condurre come una vita di amore universale, di amore per il prossimo come per noi stessi. Ovviamente non è facile una tale vita d’amore. Un primo pericolo che minaccia il nostro essere morale è un ostacolo interno al bene, alla giustizia, all’amore. Un secondo pericolo, invece, è esterno. La lotta implica un doppio pericolo, è una lotta su due fronti: un primo interno alla persona, una lotta con se stessi, e poi un secondo esterno, una lotta con il mondo. Afferma Kierkegaard: «Abbandona i tuoi desideri egoistici e i tuoi bisogni, abbandona i tuoi piani e scopi di ricerca personale, cosicché tu possa agire veramente e altruisticamente per il bene – e poi, proprio per questa ragione, preparati ad essere disprezzato come un criminale, insultato e ridicolizzato» (Atti dell’amore). Per Kierkegaard, il livello ordinario del valore morale non è molto alto: possiamo ammirare i santi a distanza di sicurezza, ma un vero incontro con l’altruismo eroico ci disturba.
Spider-Man sembra affrontare entrambi i tipi di minacce presentate da Kierkegaard. La sua felicità personale entra in conflitto con la sua vocazione di supereroe. Egli non è mai tentato dall’usare i suoi poteri per il male – nonostante il breve periodo in cui li ha esercitati per il semplice guadagno economico, appena aveva scoperto di averli –, ma la sua scelta è tra l’usare i poteri per il bene o ritirarsi in una normale vita privata. Non c’è pericolo che Peter Parker diventi un cattivo, ciò che è in questione è la possibilità di raggiungere il tipo di altruismo richiesto dal vero amore per il prossimo. Spider-Man affronta la lotta interiore che Kierkegaard chiama primo pericolo, e in questo è come ognuno di noi: la maggior parte delle persone non è tentata dal divenire Hitler o Green Goblin, ma dalla volontà di occuparsi solo del proprio giardino, di raggiungere una felicità individuale senza curarsi dei bisogni degli altri.
In un certo senso, Spider-Man fa esperienza anche del secondo pericolo: la maggior parte delle persone che aiuta gli sembra grata, ma J. Jonah Jameson ritrae costantemente Spider-Man come una minaccia per la società. Gli X-Men, comunque, rappresentano un esempio ancora migliore del doppio pericolo di Kierkegaard, visto come nelle loro storie potenti politici sfruttano le paure della gente nei loro confronti per proporre leggi speciali che impongano ai mutanti di essere registrati, leggi che ricordano in modo preoccupante le misure iniziali messe in atto contro gli Ebrei dai nazisti tedeschi. Gli X-Men incarnano l’amore per il prossimo che Kierkegaard ritiene un fondamentale dovere umano perché agiscono per il bene di tutti, non solo dei loro simili, di chi fa parte della cerchia dei familiari e degli amici, o di chi li può ripagare con benefici di qualche tipo, ma anche di chi tenta di perseguitarli e danneggiarli.
L’agire per il bene dei mutanti non garantisce loro l’essere ben voluti, rispettati o apprezzati. La loro bontà non è quindi il frutto di un calcolo strategico volto ad assicurarsi tolleranza e accettazione, sicurezza. Essa deve essere il risultato di un qualche interiorizzato valore del bene, di una qualche motivazione interiore a fare la cosa giusta e buona resistendo all’universale tentazione di essere puramente interessati a sé. In tutto questo un ruolo di modello positivo è dato dalla struttura della scuola per mutanti di Xavier, fondatore degli X-Men: un posto dove gli studenti possono essere accettati e amati, e quindi con naturalezza iniziare a desiderare di essere come quelli che si sono dedicati ad aiutarli. Qualcuno che esibisce bontà ed è buono con te, stimola gratitudine e ammirazione, produce una crescita morale.
Quindi, forse, il miglior motivo adducibile al perché gli X-Men siano buoni è che essi hanno imparato ad amare il bene come risultato del rapporto con chi è buono. Questa spiegazione è valida anche per Peter Parker: l’omicidio dello zio Ben ha spinto Peter al bene e alla protezione della comunità piuttosto che alla meschina vendetta a causa della positiva educazione morale ricevuta dallo zio e dalla zia May.

(da C. Stephen Evans, Why should superheroes be good? Spider-Man, the X-Men, and Kierkegaard's double danger, in Superheroes and philosophy)

 

domenica 13 marzo 2011

dr. house, ethical division (2di2)

L’agire sregolato di House obbedisce sempre all’ingiunzione di un dovere iper-etico: salva il tuo paziente. Un’ingiunzione che ha la forma di una passione pura, assoluta. C’è un dovere incondizionato, per House, ed è quello di salvare la vita al suo paziente, sacrificando tutto il resto, anche l’etica, al rispetto di questa sola cosa che si confonde direttamente con lui, che fa corpo con il corpo di House e il suo dolore (la cosa di House è impensabile senza il suo dolore proprio come la legge morale di Kant è impensabile senza il dolore poiché deve produrne il sentimento), e lo esclude così dal “cerchio dei normali” che dialogano, argomentano, spiegano, contrattano, e sanno rendere conto di quello che fanno. House è l’incarnazione di questa sola cosa che ha la forma di un imperativo iper-etico. House condivide con Kant l’idea di un imperativo incondizionato cui occorre sacrificare tutto, ma mentre in Kant la forma dell’imperativo non può che essere universale, per House essa è assolutamente singolare. E se in Kant si tratta di sacrificare al dovere le passioni, per House si tratta di sacrificare al dovere assoluto e iper-etico il dovere etico.
Ogni decisione degna di questo nome deve sempre affidarsi, al fondo, alla creatività di un’invenzione. Ogni volta non si sa, in verità, che cosa sia giusto decidere. E tuttavia bisogna rispondere, nell’urgenza, sempre ora: «Giusto e sbagliato esistono. E il fatto che non sappiate cosa è giusto, e magari non abbiate nemmeno modo di saperlo, non vi solleva dalla responsabilità». Rispondere nel modo giusto all’imperativo significa, per House, reinventare ogni volta la regola. L’etica di House è un’etica della situazione e della risposta singolare, il che significa che il momento della decisione che risponde all’ingiunzione della salvezza non è regolato, ma è una follia. Secondo Derrida una decisione etica degna di questo nome non può che essere una follia: non può che essere presa nella notte del non-sapere e della non-regola, nell’urgenza, e non può e non deve essere né semplicemente la conseguenza, o l’effetto, del sapere né la mera applicazione di una regola. «“L’istante della decisione è una follia” dice Kierkegaard. È vero soprattutto riguardo all’istante della decisione giusta» (Forza di legge). Derrida afferma che una decisione che si limiti ad applicare una regola non è una vera decisione e in realtà non decide nulla. Una decisione etica eccede ogni regola e ogni sapere, decide nell’indipendenza rispetto alla regola e al sapere e, al fondo, non sa e non può rendere conto di ciò che fa. La responsabilità è, al fondo, solo responsabilità assoluta e segreta di fronte all’altro, una responsabilità che non può giustificarsi al cospetto dell’etica come insieme di norme né al cospetto della legge. Da quando sono in rapporto con l’altro, con la domanda o la chiamata dell’altro, io so che non posso rispondervi se non sacrificando l’etica e tutti gli altri: per rispondere all’uno occorre non rispondere all’altro. È questo un paradosso insolubile della responsabilità. Si può rispondere sempre e solo a una sola chiamata, quella dell’altro, trascurando e abbandonando tutti gli altri. I cercapersone che squillano continuamente in ogni puntata della serie sono proprio l’ingiunzione della cosa iper-etica che impone di abbandonare tutto, seduta stante, tutti gli altri, senza dare spiegazioni, senza scusarsi: «Devo andare».

(da Simone Regazzoni - Blitris 1 -, L'iper-etica di House, in La filosofia del Dr. House

HOUSE: Ho chiesto informazioni, è un ottimo medico. Pensi che sia migliore di me? Se credi che sia migliore di me come medico va con lui, altrimenti declina gentilmente la proposta.
FOREMAN: Per stare qui a sopportare sarcasmo e umiliazioni?
HOUSE: Quando mai ti ho umiliato?
FOREMAN: Ma continuamente! Ogni volta che sbaglio.
HOUSE: Ti ritengo responsabile, e allora?
FOREMAN: Il dottor Hamilton perdona. Sa sorvolare sugli errori.
HOUSE: Non ha detto che ti perdonava, ha detto che la colpa non era tua.
FOREMAN: E allora?
HOUSE: E invece sì che lo era! Hai rischiato, hai avuto un gran coraggio. Sì, d’accordo, avrai sbagliato, ma hai fatto qualcosa di grande, e io penso che tu ne debba andare orgoglioso! È in questo che io e lui siamo diversi! Per lui questo è un lavoro che come va va, per me il nostro lavoro ha molta importanza! Lui dorme bene la notte e non dovrebbe!

sabato 12 marzo 2011

dr. house, ethical division (1di2)

Il Dr. House non è, semplicemente, un personaggio con caratteristiche d’eccezione attorno a cui è stata costruita una serie televisiva, bensì, in primo luogo, una figura estetica d’eccezione. C’è una differenza tra personaggio e figura estetica, benché entrambi i concetti appartengano al campo della fiction. Con il concetto di figura estetica Deleuze e Guattari definiscono le grandi figure della letteratura capaci di suscitare effetti che eccedono le affezioni e le percezioni ordinarie. A proposito del capitano Achab, Deleuze e Guattari parlano, usando una formula melvilliana, di «un faro che strappa all’ombra un universo nascosto» (Che cos’è la filosofia?). non è forse questo l’effetto spaesante e perturbante che suscita House nello spettatore, quasi la sua figura ci mettesse di fronte a qualcosa che la rassicurante normalità del mondo oscura e occulta? Inoltre, la figura di House è stata plasmata su un modello letterario, quello di Sherlock Holmes, e, cosa non meno importante, lo stesso House si paragona, e viene paragonato, proprio al capitano Achab, monomaniaco ossessionato anch’egli da una sola cosa. C’è una piega letteraria che attraversa la figura di House, qualcosa che lo differenzia da altri personaggi filmici e costituisce la speciale stoffa della sua eccezionalità. Accade così che gli innumerevoli suoi difetti e vizi si trasfigurino, e diventino i tratti peculiari dell’individuo eccezionale al di là del bene e del male, cui si concede di non rispettare nessuna regola.
La figura estetica di House, nella sua critica effettiva e radicale, de costruttiva della morale, è a suo modo una figura etica. Cosa che trova un suo preliminare e immediato riscontro nel sentimento di ammirazione che l’agire di House suscita nello spettatore, benché contrasti con il senso morale comune. Per quanto possa sembrare paradossale, sottilmente perverso o platealmente immorale, House è la figura di un’etica che elude i paradigmi classici dell’etica e rivela interessanti affinità, da un lato, con la figura del Singolo che Kierkegaard contrappone all’eroe quale figura etica e, dall’altro, con le teorie elaborate da alcuni filosofi contemporanei, in particolare da Jacques Derrida e Alain Badiou (L’etica. Saggio sulla coscienza del Male), che, pur nella loro diversità, mettono in crisi l’idea che il comportamento etico debba essere costituito da atti e decisioni subordinati a una regola universale e al sapere. Il comportamento dell’eroe, anche quando disobbedisce a regole o leggi, è un comportamento etico, perché l’eroe disobbedisce a leggi ingiuste, quelle che non garantiscono il bene universale ma sanciscono privilegi, producono disuguaglianze o generano oppressione. House, invece, non trasgredisce le regole quando le ritiene ingiuste, piuttosto non ne tiene conto: è un singolo che si pone al di là delle regole generali per rapportarsi, senza la mediazione di tali regole, a un’altra singolarità assoluta: il Singolo sospende l’etica e le sue regole perché il suo fine è mettersi in rapporto con l’altro assoluto al di là dell’universale e senza mediazioni. Per questo, dice Kierkegaard, l’occhio dello spettatore riposa tranquillo sull’eroe, mentre il Singolo suscita ammirazione e spaventa. Il Singolo fuoriesce dalla sfera dell’etica come generale, è un solitario che non può condividere con nessuno le proprie scelte. «Umanamente parlando, egli è folle e non può farsi comprendere da nessuno» (Timore e tremore). Il Singolo risponde a una sola cosa: all’ingiunzione di un dovere assoluto come dovere che lo lega all’altro assoluto in quanto altro nella sua singolarità. Che cosa chiede questo dovere assoluto? In primo luogo di sacrificare l’etica. Commentando il testo di Kierkegaard, Derrida ha affermato che l’assoluto di questo dovere presuppone che ogni dovere etico, ogni responsabilità e ogni legge vengano ricusati, traditi, trascesi. Questo dovere si pone dunque, paradossalmente, al di là del dovere e ingiunge di non rispettare il dovere etico. Ecco la sua radicalità e il suo paradosso: «È un dovere non rispettare, per dovere, il dovere etico» (Donare la morte). Questo paradossale dovere ingiunge di non cedere alla tentazione del dovere etico.

(da Simone Regazzoni - Blitris 1 -, L'iper-etica di House, in La filosofia del Dr. House)

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