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mercoledì 31 agosto 2016

letture di agosto

La strada stretta verso il profondo Nord, di Richard Flanagan, è la bella storia di un uomo, un medico e soldato fatto prigioniero durante la seconda guerra mondiale, che si rifiuta di smettere di aiutare la gente a vivere: non è un buon chirurgo, né una bella persona, ma non smette di fare ciò che può e deve.
Due ottime conferme sono il secondo romanzo sherlockiano di Anthony Horowitz, Moriarty, e gli interrogatori filosofici di Dave Eggers su i miti d'oggi, la legge e la giustizia, l'educazione e la natura, le istituzioni e la libertà I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?
Sempre una gradevole lettura quella di Stephen King, Chi perde paga.
Molto deludente La sostanza del male di Luca D'Andrea: trama inconsistente e diluita, accozzaglia incapace di decidersi tra thriller, horror e dramma.
Interessante e suggestiva la filosofia in metafore e storie di Andrea Tagliapietra, Alfabeto delle proprietà.
Ancora su Nietzsche: Il soggetto e la maschera di Gianni VattimoIl culmine e il possibile di Georges BatailleArte e verità di Franco Rella e Susanna Mati, Il politeismo e la parodia di Pierre Klossowski, Guerra alla guerra di Jean-Pierre Faye, Le lacrime di Nietzsche di Irvin D. Yalom.

sabato 19 marzo 2016

filosofia dell'umorismo

Qual è il rapporto tra ridere e filosofare? La storia che Lucrezia Ercoli percorre e ricostruisce nel suo Filosofia dell'umorismo mostra come l'opposizione tra serio e comico non sia altro che l'equivalente di altre contrapposizioni sedimentate nella cultura ufficiale, così che l'umorismo sembra destinato a riecheggiare fuori dalle mura della cultura rappresentando come un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo. Un ospite inquietante, cui spesso è toccato subire il disinteresse teorico e la condanna morale. Così che sull'umorismo, dote in effetti piuttosto rara tra gli esseri umani, sono scivolati anche i più grandi pensatori che "sono riusciti a definire il pensiero, l'essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende dalle scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime" (Umberto Eco).
Dalla serietà, sacralità e potenza ma anche violenza e aggressività che il mito classico riconosce al riso, al riso, nella filosofia antica, di Democrito - impietoso e anche crudele, non è quello della innocente spensieratezza ma quello distaccato e privo di compassione del sapiente che sa - e di Diogene - cinico, blasfemo, osceno, scandaloso e distruttore, dissacra ogni veneranda e terribile autorità; dalla distinzione operata da Aristotele tra un appropriato buon umore, una giudiziosa arguzia che non è né buffoneria né rusticità, e lo stigmatizzabile ridicolo che va tenuto sotto controllo (riconoscendogli così, però, il potere di trasformarsi in un grimaldello che porti alla luce un fondo indomabile che pur giace nel cuore dell'umano), all'ambiguità del riso carnascialesco che ha insieme un ruolo di liberazione ed emancipazione sociale ed esistenziale e anche uno di conservazione di quell'ordine che decostruisce ma di cui esorcizza la dissoluzione definitiva; dall'umorismo che per Baudelaire rappresenta i confini incerti dell'umano, una zona di confine tra la grandezza infinita del divino e l'infinita miseria della bestia, all'arguzia che per Schopenhauer è il godimento di scoprire l'insufficienza della ragione, il piacere della sua sconfitta, che mostra come l'infinita delicatezza delle sfumature dell'esperienza non si adatti alla vita astratta dell'intelletto; dall'umorismo di Jean Paul, che è una filosofia folle e forsennata dallo spirito poetico e libero, a  quello di Pirandello, che riflette sulle crudeli leggi sociali che imprigionano il fluire vitale in una serie infinita di forme fisse e maschere; dalla funzione sociale, di risanamento di una contraddizione e castigo di un comportamento, che ha il riso per Bergson, all'umorismo che per Ritter, quale profonda critica della ragione e della sua pretesa di limitare tramite i propri concetti finiti la forza dell'infinita pienezza della vita, è filosofia; dal riso con cui Nietzsche risponde alla morale e alla metafisica, danzando con lievità al di là di esse, a quello con cui Bataille si  affranca da ogni verità, distrugge ogni trascendenza, decostruisce ogni identità per aprirsi a un agire veramente libero.
Questa storia dell'umorismo ci insegna che è necessario ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità; che "il ridente altro non è che il maieuta di una diversa società possibile" (Umberto Eco); che umorismo e filosofia hanno lo stesso scopo di gettare un'ombra di diffidenza sulle ovvietà del senso comune, sulle premesse ideologiche, sui pregiudizi culturali. Ridere è filosofare.

sabato 27 dicembre 2014

filosofia della crudeltà

Nella sua Filosofia della crudeltà Lucrezia Ercoli indaga le implicazioni etiche ed estetiche di questo enigma che è la crudeltà, cruda bestialità pre-civile, mostruoso e grave vizio, ma insieme anche sacra violenza purificatrice, desiderio e piacere che già da sempre appartiene all'umanità. L'opera di Escher Illusione con angeli e diavoli - o Limite del cerchio IV - rende visivamente questo concetto, rileva l'autrice nell'introduzione, per cui "la barriera tra la crudeltà e il suo contrario si fa permeabile e sfuma", il mondo è pieno di bene e di male e gli angeli possono diventare diavoli, e viceversa.
Il punto di partenza del saggio non può che essere il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, secondo il quale "tutto ciò che agisce è crudeltà" (Il teatro e la crudeltà) perché la crudeltà non è altro che la vita che supera ogni limite e si mette alla prova, è la legge che regola ogni creazione, inscritta nello statuto stesso della vita: "è l’esercizio della coscienza che conferisce a ogni atto della vita il colore del sangue perché 'è chiaro che la vita è sempre morte di qualcuno'. La crudeltà mette in luce, quindi, il necessario determinismo a cui è sottoposto ogni nostro atto di vita, che, per la sua decisione di esistere, genera morte". La crudeltà è il prezzo da pagare per svelare come la cultura possa divenire nient'altro che passività, consuetudine, pigrizia, stereotipo.
Figura di questa crudeltà è l'Eliogabalo dello stesso Artaud - 'leggenda nera' evocata anche da molta altra letteratura, poesia e arte figurativa: Verlaine, Wilde, D'Annunzio, Huysmann, Alma-Tadema -, i cui "comportamenti crudeli condannati dalla ratio diventano domande martellanti che mettono in discussione la consistenza granitica delle certezze". Egli non è né Dio né padrone ma soltanto se stesso, è sfida, tensione, energia crudele e luminosa, liberatrice ed emancipatrice. "Attraverso l'uso spregiudicato della crudeltà 'gratuita e immotivata' riesce a sfuggire, almeno temporaneamente, alla tirannia che cancella la sua personalità. Libera il proprio corpo e il proprio desiderio con un processo di differenziazione, carico di decisioni sanguinose e crudeli". In Eliogabalo la crudeltà è il riverbero di una ribellione faticosa e coraggiosa contro la legge naturale e la morale istituita. La crudeltà di Eliogabalo, che scioglie le pietrificazioni della vita, è la distruzione e ricomposizione del processo alchemico, è la ricerca di un corpo senza organi (Deleuze) che eluda la presunta fissità ed esclusività del reale, è vita acrobatica estrema e paradossale che fa di ogni attimo una questione di vita o di morte, è sfrontata lotta contro le convenzioni che apre alla possibilità ma non può lasciare illesi, è transvalutazione di tutti i valori.
E così si arriva a Nietzsche, a quel trattato sulla crudeltà che è la Geneaologia della morale, ma non solo. La crudeltà spietata e violenta è l'opera di salvifica demistificazione della ragione, è eroismo del pensiero che scava a fondo, decostruisce le false prospettive, è veglia lucida. E si arriva a Bataille, per il quale l'arte è esercizio di crudeltà che viola e tortura la falsa solidità e unità aprendo alla meraviglia e all'orrore, che "mette a morte le forme chiuse, mette tutto irrecuperabilmente 'in questione'. Consente di oltrepassare il confine tra la polis e la silva, tra la civiltà e la ferinità". 
La crudeltà sarebbe, quindi, un compito ineludibile di contrapposizione all'inerzia della vita pacifica, che è in realtà vita seduta, comune vigliaccheria quotidiana: "apre una tensione etica che rifugge dal dogmatismo degli stereotipi, che non pretende un redde rationem, ma lascia bruciare la carne". E l'arte da un'estetica crudele - dalla carne esposta nelle macellerie di Francis Bacon ai corpi disfatti di Ciprì e Maresco, dalle violenze insensate di Arancia meccanica alle mutilazioni crudeli delle vittime della fiction Dexter -, non respingendo il caos ma componendolo e trasformandolo, 'forsennando' (Derrida) il linguaggio formale della mera rappresentazione, "crea un inquietante quanto seducente caosmos che lascia aperto il senso duplice della crudeltà", realizzando uno 'shock' (Benjamin), un 'urto' (Heidegger), che come un proiettile rompe una corazza protettiva.

venerdì 20 gennaio 2012

summa ateologica

Nietzsche si accorse della falsità dei profeti che dicono: “fate questo o quello”; che indicano il male ed esortano alla lotta. “La mia esperienza” egli afferma in Ecce homo “ignora ciò che significa ‘volere’ qualcosa, ‘lavorarvi ambiziosamente’, mirare ad uno ‘scopo’ o alla realizzazione di un desiderio”. Nulla di più contrario al buddismo, al cristianesimo di propaganda.
Paragonati a Zaratustra, Gesù e Budda sembrano servili. Avevano qualche cosa da fare in questo mondo e anche un compito pesante. Erano soltanto “saggi”, “dotti”, “salvatori”. Zaratustra (Nietzsche) è qualcosa di più: un seduttore, che rideva dei compiti che si era assunto.
Il buddista come il cristiano prende sul serio ciò che comincia a fare – s’impegna a non avvicinare più donne, per quanta voglia ne abbia! Gesù, Budda avevano qualche cosa da fare in questo mondo: fissarono ai loro discepoli un compito arido e obbligatorio.
Il discepolo di Zaratustra impara soltanto, in fine, a rinnegare il suo maestro.
(Georges Bataille, Nietzsche. Il culmine e il possibile)

I testi critici, le annotazioni, le pagine di diario, gli scritti polemici che formano questo libro – terza parte di quella che voleva essere la summa odierna dell’eversione filosofica (e cioè i tre volumi della Somme athéologique: L'expérience interieure, Le coupable e Sur Nietzsche) – furono composti da Bataille nel 1944, durante gli ultimi combattimenti in Francia tra alleati e tedeschi, “nel mezzo dello scompiglio”.
Bataille vede in Nietzsche il filosofo del male, e lo accetta in pieno come tale. Le definizioni usuali del male e del bene, in Nietzsche come in Bataille, si capovolgono. Accedere al male e contestare il bene è la condizione stessa della libertà; il valore da perseguire è dunque il primo, mentre il secondo è una “regola” da infrangere.
E alla violazione del tabù morale o della norma sociale si collega la tesi dell’esistenza come “rischio”, come “chance”.
In una “Appendice” Bataille affronta specificamente il tema dell’ascendenza nietzschiana del nazismo. Questa ascendenza, per Bataille, è usurpazione. I nazisti hanno tradito, nella lettura, il significato dei testi di Nietzsche. La “morale” nietzschiana, in realtà, è la perfetta antitesi del nazismo, perchè il “male” esaltato da Nietzsche è proprio l’antitesi del “bene” aberrante definito da Hitler.

domenica 1 gennaio 2012

ottimismo sul nulla

Dopo la lettura delle interviste di Philippe Sollers, ho riscoperto di avere in libreria il suo breve saggio su uno dei miei artisti preferiti: Le passioni di Francis Bacon. «Quando si dà un giudizio su Bacon» – quasi esordisce l'autore – «tutti si accordano automaticamente a dei cliché: la sua pittura accumulerebbe immagini di violenza, di angoscia, di tortura, di reclusione, di agonia; essa sarebbe, come si dice, al limite del sopportabile. Le parole ripetute più spesso sono: orrore, dolore, accanimento, repulsione, macelleria, smembramento, malessere, nausea, inferno, disperazione. Ecco, non è forse ciò a cui conducono la miseria dell'uomo senza Dio, il nichilismo compiuto, l'assurdo, il rifiuto del senso della vita? Non si nota mai, in queste reazioni, la più piccola traccia di humour. Si trova inquietante che un artista abbia potuto dire: "Noi siamo carne, siamo delle carcasse in potenza". E poi: "Dovremmo essere tutti consapevoli del disastro che si può abbattere su di noi in qualsiasi momento del giorno". Peggio ancora: "Quando sarò morto, mettetemi in un sacco di plastica e gettatemi tra le immondizie"».
L'idea di Sollers è che Bacon non esprima malinconia e acredine ma, anzi, gaiezza, voluttà, il suo essere "ottimista sul nulla". L'idea dell'uomo come gioco senza scopo e senza importanza, come – al di là di ogni identità e narcisismo – scene e incontri che hanno luogo e basta, come caso – che secondo Balzac "è l'artista più grande" – , non lo conduce al suicidio ma ad affermare: "Sono avido di vita. Sono avido di ciò che il caso può, e lo spero, darmi: ciò che supera di gran lunga qualunque cosa potrei calcolare logicamente". 
"Dal momento che l'esistenza è per un verso così banale" – sostiene Bacon – "si può tentare di farne qualcosa di grande, piuttosto che lasciarsi curare fino all'oblio". Ecco che le opere di Bacon esprimono un eroismo gratuito e insolito, forse tragico ma non patetico, serenamente violento e disincantato, esse «aiutano potentemente a sentire ciò che per un uomo senza illusioni è il fatto di esistere» (Michel Leiris, Francis Bacon), fanno pensare ad alcuni passi di Georges Bataille in cui il filosofo francese scrive: «Io sono il risultato di un gioco. Io sono, nel seno di un'immensità, un di più che eccede questa immensità. La passione ridente, il salto sragionevole e la tranquilla lucidità sono richieste al giocatore, fino al giorno in cui la sorte – o la vita – lo lasciano». Sollers accosta l'arte di Bacon anche alle parole di Oreste che non si oppone alle Erinni nell'Andromaca di Racine – «Dunque, figlie infernali, a colpire siete pronte? Per chi sono i serpenti che vi soffiano in fronte? A chi son destinati questi vostri strumenti? Venite per condurmi negli eterni tormenti? Su! Che ai vostri furori Oreste non s'oppone. Ma no, tornate indietro, lasciate fare a Ermione: Meglio di voi l'ingrata mi saprà lacerare, ed io vengo ad offrirle il cuore da sbranare» , e ricorda l'apprezzamento del pittore per il finale del Macbeth di Shakespeare, con "quei versi così celebri sulla morte e la fugacità della vita, il tempo che passa e che non ha più senso", il tutto senza deplorazione né spavento.
Caso, gioco, sorte, accidente, salto, riso, eccesso non sono rappresentati da Bacon, perché l'immagine è sempre falsa e bisogna, dunque, fare il giro della rappresentazione e togliere ogni schermo, lasciare che "delle figure sorg[a]no dalla loro propria carne senza che intervenga il cervello" e "aprire le valvole della sensazione per far sì che la figurazione raggiunga il sistema nervoso nel modo più violento e straziante possibile", rendere con delle contro-immagini immediate e muscolari l'apparenza oltre la deformazione o la distruzione, captare forze invisibili e sensazioni da foggiare contro immagini dalla pesante ricaduta realistica. «Bacon» – scrive Sollers – «sa che "il corpo è una grande ragione". "Strumento del tuo corpo, tale è anche, fratello mio, la tua piccola ragione che chiami 'spirito', piccolo strumento e giocattolo della tua grande ragione" [Così parlò Zarathustra]. Come Nietzsche, Bacon è in guerra contro gli idoli». Così Bacon applica alla forma umana l'abbattimento e il taglio del bestiame – e, ad esempio, «fulmina un'immagine di papa per dare la misura del tempo trascorso dal XVII secolo; dall'età del Cogito cartesiano, insomma, che ha creduto di poter porre l'essere sotto la prospettiva della rappresentazione. Giustamente: non funziona più, si stacca, bisogna andare a vedere altrove» – per mostrare non «ciò che appare nella rappresentazione, ma ciò che avviene nella sensazione» del corpo vivente che è l'uomo. «Come quella di Picasso, dunque, l'opera di Bacon disordina le pareti. Entrate in una casa dove ci sono dei dipinti: un buon Picasso, immediatamente, vi fa segno, respinge gli altri quadri, obbliga l'intera stanza, l'edificio e finanche la strada a mostrarsi nella loro relatività e nella loro fragile durata».

giovedì 29 dicembre 2011

figure del conflitto

Della raccolta di saggi Figure del conflitto si salvano ben pochi articoli e spunti. Ma qualcosa sì. Tipo queste citazioni.

Varcare la frontiera è stato spesso sinonimo di conquista e di dominio, ma si tratta di un rischio insito in tutte le relazioni umane, quando a guidarle sono i rapporti di forza. Al contrario, il rispetto delle frontiere costituisce già di per sé un segno di pace. In se stesso quindi il concetto di frontiera indica la distanza minima tra gli individui, affinché questi possano comunicare fra loro come desiderano. Imparare la lingua dell'altro e i suoi codici significa stabilire con lui una relazione simbolica basilare, rispettarlo ed entrare in comunicazione: superare la frontiera. Una frontiera è fatta dunque per essere oltrepassata: è una soglia che invita al passaggio, non un muro che lo impedisce. (Marc Augé, Frontiere e globalizzazione)

L'essere umano è immerso nel mondo invece che presupporsi al centro delle sue metamorfosi. Farsi piccoli per sentire la grandezza. Spiritualizzarsi nella materia. Uscire dalla propria corazza autoritativa, esclusiva e contemplativa. Cercare la propria internalità nell'esternalità. Immaginarci fuori di noi, diffusi e disciolti in infiniti campi di forza. Destreggiarsi in essi. L'idea che le tecnologie siano protesi dell'umano, che queste protesi, frutto di intelligenza e strumento di lavoro sociale, entrino per ciò stesso a far parte integrale della natura umana. Invasato, una eccitazione che la persona che non riesce più a contenere dentro la pelle, la divisa, il costume e le mode di un comportamento sociale normalizzato. (Alberto Abruzzese, Senza titolo)

Auschwitz non è sacrificio, perché le vittime per i carnefici non avevano alcun valore: scarafaggi, come la creatura annientata nella Metamorfosi di Kafka. 
Benjamin aveva già detto che bisogna spezzare la falsa e aberrante totalità del simbolo per arrivare al frammento: il torso. Questa azione di decomposizione del mondo in frammenti è il processo stesso della significazione, per cui il senso sembra potersi dare soltanto attraverso rovine.  
Il sistema hegeliano che risolve dialetticamente il negativo, lascia ai suoi margini una "negatività senza impiego"; e io sono, dice Bataille, «esattamente questa negatività senza impiego». E dunque «la mia vita, la ferita aperta che è la mia vita - da sola costituisce la confutazione del sistema chiuso hegeliano».  
(Franco Rella, La filosofia e i possibili)
 
Un nuovo soggetto si è costruito, sia attraverso nuovi saperi, sia attraverso una nuova attività produttiva, divenuta sempre più ampiamente intellettuale e cooperativa. Il nuovo soggetto produttivo è immerso in una nuova temporalità che non ha nulla a che fare coi tempi della giornata lavorativa classica. Esso ha anche a che fare, inoltre, con una nuova mobilità nello spazio. Volendo continuare nella caratterizzazione di questo nuovo soggetto possiamo aggiungere che, a partire da questa condizione, qui si determina un nuovo regime di desideri, quindi nuove potenzialità costituenti.
(Antonio Negri, Sul concetto di rivoluzione) 

sabato 17 dicembre 2011

il piacere di avere paura

Ampliando l'idea di Bruno Bettelheim secondo cui le fiabe per bambini rappresenterebbero un rito di passaggio adolescenziale «Una particolare storia può rendere ansiosi certi bambini, ma una volta che essi hanno ottenuto una maggiore dimestichezza con le fiabe gli aspetti paurosi sembrano scomparire, mentre gli elementi rassicuranti diventano ancora più dominanti. Lo scontento originario dell'ansia si trasforma allora nel grande piacere dell'ansia dominata e affrontata con successo. I genitori che vogliono negare che il loro figlioletto ha desideri omicidi e vuole fare a pezzi cose e addirittura persone credono che al loro bambino debba essere impedito di covare pensieri del genere (come se fosse possibile)» (Le fiabe e le paure dei bambini, in Il piacere di avere paura – e adattandola ai racconti dell'orrore della serie a fumetti Dylan Dog, Roberto Manzocco sostiene nel suo saggio che il loro fascino «potrebbe ruotare attorno ad una forma di rito di passaggio post-moderno: in sostanza i mostri e lo splatter ci fanno sentire vulnerabili, ci tolgono il terreno da sotto i piedi, portano l'orrore fin dentro di noi, in modo da farcelo assaporare e casomai vincere – senza alcun pericolo. Le storie di paura e di orrore sono quindi esperimenti mentali che ci consentono di rafforzare le nostre difese psicologiche e dunque di crescere».
Oltre che a questa ipotesi, l'autore si richiama anche ad altri studi e analisi, filosofici e psicologici, sui temi dell'orrore, della violenza e della crudeltà. La psicologa inglese Kathleen Taylor autrice di Cruelty. Human evil and the human brain sottolinea come il piacere e la soddisfazione procurati dal sadismo vicario della crudeltà fruita e mediata derivino dal potere emotivo e dal senso di vertigine che essa induce, similmente a ciò che succede sulle montagne russe o sulle giostre; mentre lo psicologo americano David Buss sostiene in The murderer next door. Why the mind is designed to kill – che a livello inconscio è presente dentro di noi un'aggressività smisurata che riceve una soddisfazione di tipo vicario da certi generi di rappresentazione. Secondo il filosofo americano Noël Carroll autore di The Philosophy of Horror, saggio in cui presenta il "mostro" come quell'essere interstiziale e contaminato, inclassificabile e indefinibile una volta per tutte perché capace di infrangere le categorie con cui normalmente separiamo, ad esempio, l'interno e l'esterno, l'io e il tu, il vivo e il morto –, invece, «non il sangue e la violenza in sé, ma la propria capacità di assorbire l'orrore e dominare l'ansia e il disgusto» è ciò che si trova di piacevole nel genere horror.
Un altro elemento che Manzocco presenta nella sua analisi è il rapporto tra horror ed erotismo, l'erotizzazione dello splatter. E il filosofo di riferimento è, in questo caso, Georges Bataille, che ne L'erotismo scrive: «Se la bellezza, il cui compimento rifiuta l'animalità, è appassionatamente desiderata, ciò accade perché il possesso introduce in essa l'impurità animale. La si desidera per poterla corrompere. Non in sé e per sé, bensì per la gioia gustata nella certezza di profanarla. Nel sacrificio, la vittima veniva scelta in modo che la sua perfezione rendesse sensibile la brutalità della morte. La bellezza umana, nell'unione dei corpi, introduce la contrapposizione tra l'umanità più pura e l'animalità vergognosa degli organi. Del paradosso del laido che si contrappone nell'erotismo alla bellezza, i Quaderni di Leonardo da Vinci forniscono questa incisiva espressione: "L'atto dell'accoppiamento e le membra di cui esso si serve sono d'una tale laidezza che se non vi fosse la bellezza dei volti, gli ornamenti dei partecipanti e lo slancio sfrenato, la natura perderebbe la specie umana". Leonardo non s'avvede che le attrattive di un bel viso o di un bell'abito giocano nella misura in cui questo bel viso preannuncia ciò che l'abito dissimula. L'importante è di profanare quel volto, la sua bellezza. Di profanarlo in primo luogo mettendo a nudo le parti segrete di una donna, poi introducendovi l'organo virile. Esattamente come la morte nel sacrificio, la laidezza dell'accoppiamento comunica angoscia. Ma maggiore è l'angoscia e più forte è la coscienza di superare i limiti, che dà origine a un trasporto gioioso. Il fatto che le situazioni mutino a seconda dei gusti e delle abitudini, non può evitare che generalmente la bellezza (l'umanità) di una donna concorra a rendere sensibile l'animalità dell'atto sessuale. Nulla di più deprimente, per un uomo, della bruttezza di una donna, sulla quale la laidezza degli organi o dell'atto non risalti. La bellezza ha soprattutto valore perché la bruttezza non può essere profanata, laddove l'essenza dell'erotismo risiede appunto nella profanazione. L'umanità, significativa del divieto, è trasgredita nell'erotismo: è trasgredita, profanata, guastata. Maggiore è la bellezza, più profonda è la profanazione». L'idea del filosofo francese – espressa anche nella raccolta di saggi Il labirinto è che nell'uomo esista un eccesso irresistibile alla distruzione che opera in perfetto accordo e sincronia con l'incessante e inevitabile rovina e dissoluzione del divenire della realtà universale: «è il desiderio in noi di consumare, di rovinare, di dare alle fiamme tutte le nostre risorse; è la felicità che ci procurano la consumazione, il falò, la rovina che ci appaiono divini, sacri e che soli decidono in noi atteggiamenti sovrani, vale a dire gratuiti, superflui, non servendo che a se stessi, non essendo mai subordinati a risultati ulteriori». Bataille spiega dunque la fascinazione dell'orrore in termini di potenza e accordo gioioso con l'inarrestabile divenire.
In continuità con la gratuità e la sovranità di cui parla Bataille quali elementi di piacere presenti nell'orrore, l'autore richiama, in seguito, l'analisi che Roger Caillois presenta ne I giochi e gli uomini delle quattro categorie da lui riconosciute di giochi: agon (competizione), alea (casualità), mimicry (immedesimazione), ilinx (gorgo). Questi ultimi sono quelli che consistono in una sorta di smarrimento, di spasmo che annulla la realtà circostante, «distrugg[e] per un attimo la stabilità della percezione e f[a] subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico». È il caso di certe attrazioni da luna park, che – nonostante provochino spavento, nausea, urla di terrore, fiato mozzato, sensazione di torsione degli organi interni – sono anche fonte di una paradossale forma di godimento. A guidare questo piacere prodotto da una situazione brutta o, meglio, inquietante è lo stesso «principio che governa ogni vicenda di fantasmi e di altri eventi soprannaturali, in cui ci spaventa o ci fa orrore qualcosa che non va per il suo verso giusto» (Umberto Eco, Storia della bruttezza). È il perturbante – analizzato da Freud sulla base, tra l'altro, di Schelling –, l'incerto, l'inconsueto, a indurre una leggera e piacevole forma di gorgo, vertigine.

 

lunedì 18 luglio 2011

il labirinto e l'obelisco

Nel testo Il Labirinto (1935-36) il filosofo George Bataille riconosce il principio di insufficienza che caratterizza tutti gli esseri: «La sufficienza di ciascun essere è contestata senza posa da ciascun altro. Perfino lo sguardo che esprime l'amore e l'ammirazione si attacca a me come un dubbio che sfiora la mia realtà. Uno scoppio di risa o l'espressione della ripugnanza accolgono ogni gesto, ogni frase o ogni mancamento per cui si tradisce la mia profonda insufficienza – così come dei singhiozzi risponderebbero alla mia morte improvvisa, a un mancamento totale e irrimediabile». 
Questa inquietudine genera nausea e fa sì che gli uomini agiscano per essere: «Ciò non deve essere compreso nel senso negativo della conservazione (per non essere rigettati fuori dell'esistenza dalla morte) ma nel senso positivo di una lotta tragica e incessante per una soddisfazione quasi irraggiungibile. Nel primo movimento» – con esplicito riferimento a Hegel – «la forza della quale dispone il padrone mette lo schiavo alla sua mercé, il padrone priva lo schiavo di una parte del suo essere. Molto più tardi, in compenso, l'esistenza del padrone si impoverisce nella misura in cui si allontana dagli elementi materiali della vita. Lo schiavo arricchisce il suo essere via via che sottomette questi elementi per mezzo del lavoro al quale la sua impotenza lo condanna».
La figura del padrone può essere accostata a quella dell'obelisco, che «è senza dubbio l'immagine più pura del capo e del cielo», l'«immagine egiziana dell'imperituro», un «raggio di sole pietrificato» (L'obelisco, 1938). Ma, secondo Bataille, «è stato sempre lecito preferire alla tranquillità il combattimento, alla stabilità la perdita che precipita. È così che la Grecia dei primi tempi ha già rivelato la possibilità di accordo dell'uomo con la violenza. Sembra infatti che la Grecia antica sia stata generata dalla ferita e dal crimine, come la potenza di Crono era generata dalla sanguinosa mutilazione di Urano, suo padre, di Urano, cioè esattamente della sovranità divina del cielo». Così il padrone/obelisco «non ha più base né testa», similmente a quanto avviene nel dipinto di René Magritte L'au-delà (1938).
Alla illusoria tranquillità e stabilità d'essere che pietrifica il padrone come un obelisco, bisogna preferire La pratica della gioia davanti alla morte (1939) e sostenere il proverbio, posto in esergo da Bataille, «Aspro e mite, rozzo e sottile, familiare e stravagante, laido e puro, di folli e saggi un convegno: tutto questo son io e voglio essere, colomba a un tempo e serpente e maiale!» (Friedrich Nietzsche, preludio in rime tedesche a La Gaia scienza).
«Felice solamente colui che avendo provato la vertigine fino a tremare in tutte le sue ossa e a non misurare più la sua caduta ritrova d'improvviso la potenza insperata di fare della sua agonia una gioia capace di gelare e di trasfigurare quelli che la incontrano. Questa sorta di decisione violenta che lo getta fuori del riposo può divenire in lui atto e potenza per i quali egli si consacra al rigore di un movimento che si richiude senza posa come il becco tagliente dell'uccello da preda». Per questi «non c'è al di là» ed egli, con disprezzo felice, «danza con il tempo che l'uccide», non avendo «paura delle ragazze nude e del whisky»; gode di una «santità svergognata, impudica», che magnifica la vita «dalla radice fino alla cima» e «priva di senso tutto ciò che è al di là», realizzando «un'apoteosi di ciò che è perituro, della carne e dell'alcool» e rinnovando «quella specie di esultanza tragica che l'uomo è appena cessa di comportarsi da infermo, di lasciarsi evirare dal timore del domani».
La natura è «come un gioco di forze che si esprime in una agonia moltiplicata e incessante» e perciò io stesso devo distruggermi e consumarmi «senza posa in me stesso in una grande festa di sangue». «Io sono io stesso la guerra» e il mio movimento e la mia eccitazione «non possono essere calmati che dalla guerra».
«Davanti al mondo terrestre in cui l'estate e l'inverno governano l'agonia di tutto ciò che è vivente, davanti all'universo composto di stelle innumerevoli che girano, si perdono e si consumano senza misura, io non scorgo che una successione di splendori crudeli il cui movimento stesso esige che io muoia; questa morte non è che consumazione sfavillante di tutto ciò che era, gioia di esistere di tutto ciò che viene al mondo, perfino la mia propria vita esige che tutto ciò che è, in ogni luogo, si dia e si annienti senza posa. Mi raffiguro coperto di sangue, spezzato ma trasfigurato e d'accordo con il mondo, nello stesso tempo come una preda e come una mascella del tempo che uccide senza posa ed è senza posa uccisa».

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