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martedì 24 maggio 2016

critica dei morti viventi

La bella raccolta di saggi curata da Cateno Tempio, Critica dei morti viventi, indaga e racconta il fenomeno zombie tra cinema, videogiochi, fumetti e filosofia. I morti viventi siamo noi, inutile nasconder la nostra condizione ontologica che è la progressiva decomposizione, il disfacimento vivente. Figura perturbante e filosofica, lo zombie cammina senza trucchi, rifiuta l'imbellettamento e le maschere del vivere comune, svela la morte.
Rocco Ronchi ritiene che più dei moderni - che da Cartesio in poi pongono tra il vivente e il suo cadavere una relazione sinonimica, di contrari ma in un genere comune (ontologia della morte di un materialismo meccanicista che ha nei gabinetti di anatomo-patologia la sua origine) - siano gli antichi - che con Aristotele pongono un'omonimia tra il vivente e il cadavere, il cui nome è comune ma la cui essenza è differente - a permetterci di cogliere cosa siano i living dead: essi affermano una differenza pura, infinita, senza identità, la differenza a monte della vita e della morte (Jacques Derrida), una soglia che non appartiene né alla prima né alla seconda. Gli zombi portano a espressione quanto vi è di liminare nell'esperienza umana, l'esperienza pura, anonima e universale del trauma, familiare e perturbante.
Per Tommaso Ariemma quella del morto vivente è una figura di lunga tradizione che si riallaccia alle due distinte forme di "morte in vita" che gli antichi filosofi riconoscevano: la vita contemplativa e la vita quotidiana. Da Platone a Fichte la vita contemplativa, l'ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, inventa la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria. La figura degli zombi va allora messa in relazione alla sua origine metafisica, ovvero alla particolare forma di vita che l'Occidente ha scelto come ideale.
Antonio Lucci vede nell'origine haitiana dello zombie l'orrore infinito di una società soggiogata da un regime schiavista potenzialmente eterno e infinito, al di là del tempo e della morte: lo zombie quale paradossale controfigura dell'oppresso, grado zero della vita, dell'umanità, della morte e del proletariato. Pura morte, nuda morte che cammina, lo zombi si vendica di questa schiavitù nelle sue incarnazioni successive, che da un lato lo rendono un emblema della critica al capitalismo, mentre dall'altro esso diventa una macchina da riproduzione, un proletario nel senso letterale del termine, quale ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione: l'oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione è lo zombi che crea altri, potenzialmente infiniti, seguaci, massa che da asservita diventa soggiogante, movimento acefalo, collettivo e organizzato dal basso nella propria assenza di opera. Nelle sue ultime figurazioni, invece, lo zombie sembra essere la molla d'innesco per narrazioni che hanno al proprio centro un'antropologia pessimistica: in una società resettata, in cui le istituzioni collassano, l'essere umano è il vero mostro, animale crudele allo stato di natura.
Tommaso Moscati evidenzia come lo zombie sia fra le figure orrorifiche quella che maggiormente è in grado di problematizzare la questione della diversità e dell'anticonformismo, essendo un concentrato di eccentricità e deformità.
Livio Marchese parla di "complesso dello zombie" per indicare la malattia che affligge l'umanità del terzo millennio, malattia prodotta dalle spore delle immagini in movimento di quell'arte potentissima e arte patogena che è il cinema che, meraviglioso e pericoloso, agendo sugli stati psichici più profondi può liberare e prolungare lo sguardo quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Tra gli anni Sessanta e Ottanta la natura del miglior cinema zombie è stata quella rivoluzionaria di critica nei confronti della società, del nuovo tipo umano e delle nuove relazioni tra esseri umani, mentre ora esso sembrerebbe non andare oltre l'ambizione di soddisfare il bisogno di forzare sempre di più i limiti della rappresentazione dell'orrore, garantendo sfogo catartico e compiacimento.

mercoledì 29 aprile 2015

letture di aprile (II)

Tornando al primo Murakami Haruki, dopo 1Q84 riprendo a colmare le lacune che ancora ho nella sua produzione - stimolato in ciò dal capitolo sulle distopie nipponiche nel bel saggio sul fantastico nella letteratura moderna giapponese - con Nel segno della pecora e La fine del mondo e il paese delle meraviglie. Ottime entrambe le letture: una scrittura surreale e credibile, reale e magica insieme, impeccabile nello stile e nell'arte narrativa, avvincente e semplicissima.

Letto più che altro per spirito di completezza, Imperial bedrooms di Breat Easton Ellis non raggiunge assolutamente gli ottimi livelli della precedente produzione del romanziere statunitense, ed è servito più che altro quale lettura propedeutica a Glamorama, romanzo con cui a breve chiuderò il cerchio.

Direttamente dal videogioco di Assassin's Creed, la saga trasposta su cartaceo da Oliver Bowden, pseudonimo dietro cui si nasconde un esperto storico. Nel primo capitolo, Rinascimento, l'avventura coinvolge personaggi del calibro di Lorenzo de' Medici, papa Alessandro VI Borgia, Leonardo da Vinci, e le imprese del protagonista, Ezio Auditore, si intrecciano con i grandi eventi della storia delle Signorie italiane, dalla congiura dei Pazzi a Firenze alla discesa di Carlo VIII di Francia nella penisola. Nulla di eccezionale ma gradevole intrattenimento.

venerdì 18 novembre 2011

raiden crossover

Trovato per caso sul blog di Em1x, questo video mi ha divertito moltissimo: dal videogioco Mortal Kombat esce Raiden che affronta/attraversa molti altri videogiochi e i loro personaggi in una incredibile sequela di citazioni e parodie.
Ne risulta un collage d'azione e di spasso.

domenica 16 ottobre 2011

un weekend postmoderno (2)

More about Un weekend postmodernoContinuando la lettura delle cronache di Tondelli confermo la piacevolezza dell'immersione in atmosfere tipicamente tondelliane e il gusto per questa forma ibrida di saggistica/narrativa.
Mi è piaciuto molto il pezzo sui videogiochi (Phoenix). Continuano anche a piacermi il paragone tra una certa vita di provincia, giovanile e vacanziera e il carnevale alla Rabelais; la narrazione dell'immaginario collettivo; la capacità di intrecciare i fili della cultura "alta" e "bassa" (come in Fuori stagione, nel cui finale si passa dai film di Fellini ai videoclip di Loredana Bertè).
E, infine, mi sono goduto in pieno l'immersione nel clima scolastico e universitario, che praticamente io non ho mai abbandonato.


giovedì 28 luglio 2011

il giusto e l'ingiusto

"È un'ingiustizia, però!", ripeteva Calimero, come ci ricorda Jean-Luc Nancy all'inizio della sua piccola conferenza – perché rivolta ai bambini – Il giusto e l'ingiusto, nella quale indaga, appunto, l'idea del giusto. 
Subito, ci dice il filosofo francese, «se l'idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. La legge non è necessariamente giusta. Questo», però, «non vuol dire che ciascuno di noi possa decidere che non seguirà la legge perché non la ritiene giusta. Dunque, abbiamo l'idea di una giustizia al di là delle leggi, forse addirittura di una giustizia per la quale non vi può essere legge, una giustizia che non può essere racchiusa in una legge, una giustizia superiore a qualunque legge».
Il modello che subito viene in mente è quello del giustiziere – da Schwarzenegger e Van Damme ai videogiochi come Street Fighter e i supereroi dei comics –, che «si fa giustizia da sé, al di là della legge» perché «la legge è impotente», che pone la sua forza al servizio di una giusta causa per «dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, ciò che gli spetta».
Ma «cosa, effettivamente, è dovuto a ciascuno?». Secondo Nancy dietro il termine "ciascuno" convivono due principi: uno di uguaglianza ("ciascuno" come tutti gli altri) e uno di differenza o singolarità ("ciascuno" come proprio di ogni persona «in quanto egli è un essere singolare, in quanto egli è unico»). «Uguaglianza e singolarità sono inseparabili nell'idea di giustizia e, al tempo stesso, possono entrare, se non in contraddizione, forse, quanto meno in conflitto. Questo ci insegna una prima cosa importantissima: il giusto e l'ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri» e «non può mai esservi giustizia per uno solo. Ecco perché farsi giustizia da sé non ha alcun senso. Tuttavia è certamente vero che ciascuno di noi, nella propria singolarità, ha diritto a un riconoscimento assolutamente personale».
Riconosce, però, Nancy che «non riusciremo mai a dire interamente, integralmente, esattamente cosa è dovuto a ciascuno in particolare», perciò «la giustizia è inevitabilmente senza esattezza o senza aggiustamento». L'unica cosa possibile e necessaria è che «ciascuno sia riconosciuto nella sua singolarità», l'unica cosa che è dovuta a ciascuno «è quello che chiamiamo amore. Amare qualcuno vuol dire che lo si considera per quello che è, singolarmente». Per essere giusto ognuno «deve sforzarsi di pensare meglio che può in una direzione che, in fondo, soltanto l'amore può indicargli», deve «essere capace di comprendere che ciascuno ha diritto a un riconoscimento. Questo riconoscimento deve essere infinito, non può avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare interamente, impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre». Essere giusto è «dare a ciascuno ciò che non si sa neanche di dovergli», è considerarlo dotato di un «diritto a un rispetto assoluto».
«Dovete pensarlo da soli, mai nessuno verrà a dirvi: "Ecco cos'è la giustizia assoluta". Se qualcuno potesse dirlo, forse noi non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge. Cosa è veramente giusto, al tempo stesso per tutti e per ciascuno individualmente, non è dato in anticipo: bisogna cercarlo, inventarlo, trovarlo, ogni volta di nuovo. Ce ne vuole sempre di più, non ci si può mai dire che è abbastanza giusto così. Non è mai abbastanza giusto. Pensare questo è già cominciare a essere giusti».

domenica 17 luglio 2011

tutti contro tutti

«Durante il tempo nel quale gli uomini vivono senza un potere comune, capace di tenerli tutti in soggezione, essi vivono in quella condizione che è chiamata guerra: e si tratta di una guerra di ognuno contro ogni altro uomo [bellum omnium contra omnes]. Poiché la guerra non consiste soltanto nella battaglia o nel fatto di combattere, ma in tutto quel periodo di tempo durante il quale la volontà di combattere sia sufficientemente nota. Per questo tutto ciò che è conseguenza dello stato di guerra, nel quale ogni uomo è nemico di ogni altro uomo, è anche conseguenza della condizione nella quale gli uomini vivono senza altra sicurezza che quella che la loro stessa forza e la loro stessa abilità sono in grado di procurargli».
(Thomas Hobbes, Leviatano)

E questa guerra la vince il verme più forte e astuto, come nella sequenza introduttiva del videogioco Worms 2 ...
...o il topo con la pistola più grande, come nell'episodio di Grattachecca e Fichetto in cui il gatto e il topo animati preferiti dai figli Simpson si sfidano con armi sempre più grandi fino all'inevitabile sconfitta del gatto che finisce lanciato direttamente sul sole.

giovedì 14 luglio 2011

divario tecnologico-generazionale

- Va a sedersi davanti al computer. Fissa quel cazzo di coso tutto il giorno -. Gardner ponderò qualcosa.
- È un mondo totalmente diverso, - mormorò Huntington. - Hanno sviluppato tutta una serie di capacità nuove che li separano da noi.
- Sanno maneggiare le informazioni visive -. Gardner si strinse nelle spalle. - Sai che roba, cazzo. Per quanto mi riguarda, sono stronzate.
- Non hanno idea di come contestualizzare le cose, - mormorò di nuovo Huntington, allontanandosi, mentre faceva un altro tiro da una nuova canna. Ne avevamo ancora due da passarci ed eravamo già fusi.
- Sono drogati di frammenti.
- Ma tecnologicamente sono più avanti di noi -. Questo lo disse Mitchell, ma dal tono piatto e distaccato non riuscii a capire se stesse contraddicendo Mark.
- La chiamano tecnologia disgregativa.
A un tratto sentii Victor abbaiare nel nostro giardino.
- Mimi non vuole più che Hanson giochi a Doom.
(Bret Easton Ellis, Lunar Park)  

Un dialogo tra padri sui propri figli, sull'ansia e sulla paura che il divario tecnologico tra due generazioni provoca: solo la conoscenza - non la chiusura, la condanna e la censura - può aiutare in questa situazione.

ellis, lunar park«Al di là di quanto possano apparire orribili gli eventi qui descritti, c'è una cosa che dovete ricordare mentre tenete questo libro tra le mani: tutto ciò che leggerete è realmente accaduto, ogni parola è vera».
Così termina il primo capitolo di Lunar Park, di Bret Easton Ellis, in cui l'autore narra una propria pseudo-biografia a partire dalla quale costruirà, nei capitoli successivi, un romanzo di orrori, allucinazioni, ossessioni ma, soprattutto, di difficili rapporti familiari, soprattutto padri-figli. Per questa commistione di horror soprannaturale e di "analisi psicologica" dei personaggi, quello di Ellis mi ha ricordato lo stile di Stephen King, e mi è quindi piaciuto molto.
Altro elemento che ho assai apprezzato, le abbondanti citazioni di cultura pop che sorreggono e aggiungono senso alla narrazione: i videogiochi (
«studiò un gioco per il computer, Quake III»), la musica («io volevo travestirmi da Eminem», «assieme agli onnipresenti poster dei Beastie Boys e dei Limp Bizkit», «si traveste da Posh Spice», «cercava di aprire un cd dei Backstreet Boys»), i dvd («possiamo comprare il dvd di Matrix?», «tra pile di dvd dei Simpson e di South Park») e tutto ciò che riempie le stanze dei ragazzi («pupazzetti giapponesi erano allineati sugli scaffali della libreria che conteneva perlopiù riviste di wrestling e l'intera serie di Harry Potter»); la letteratura e i programmi tv («la obbliga a leggere tascabili di Milan Kundera e a guardare Ok il prezzo è giusto!»); i cartoni («Eccellente -. Feci la mia imitazione di Monty Burns»).

«Le feste erano il mio ambiente di lavoro. Erano il mio mercato, il mio campo di battaglia, dove stringere amicizie, incontrare amanti, concludere affari. Le feste sembravano qualcosa di frivolo e casuale e privo di forma, ma in realtà erano eventi con trame intricate e coreografie di prim'ordine. Nel mondo in cui ero cresciuto, le feste erano la superficie su cui si svolgeva la vita quotidiana».

giovedì 31 marzo 2011

il lato oscuro della speranza

Final Fantasy X ritrae un mondo sotto la piaga del peccato. Gli abitanti di Spira coesistono con l’esistenza di questo sovrastante terrore riponendo la loro fede nella religione di Yevon e negli Evocatori (Summoners), che sono gli unici ritenuti capaci di salvare Spira e dare inizia alla tanto desiderata Calma. Friedrich Nietzsche si lamenterebbe dell’effetto che la religione Yevonita ha sulla popolazione di Spira e la condannerebbe perché incoraggia a riporre speranza in un falso aldilà a spese della vita presente. Il filosofo desidera un ritorno allo spirito d’azione, l’interesse per questo mondo e una volontà di potenza, essendo profondamente sospettoso nei confronti della credenza che tutte le sofferenze attuali assumano un valore positivo perché in futuro saranno ricompensate.
Il risultato di questo atteggiamento negativo nei confronti di questo mondo è che la maggior parte degli abitanti di Spira non può conquistarsi il paradiso da se stessa. A meno di essere un Evocatore, tutto ciò che si può fare è essere pii e attendere.
Nietzsche interpreterebbe la situazione di Spira come quella prodotta dal Cristianesimo: la religione gioca sulle paure delle masse al fine di ottenere appoggio per una nuova forma di pensiero che sovverte i valori conducendo alla moderna concezione della morale, la grande ribellione contro il dominio dei valori nobili. Yevon influenza la popolazione con l’umiltà che insegna che si è impotenti a sconfiggere il peccato.
Alla fine del gioco, Yevon probabilmente non può continuare ad esistere. Il suo potere di imbrigliare l’originale e basilare sentimento di paura dell’uomo non è più applicabile. L’aspetto centrale della vita che ha mantenuto fedeli gli abitanti di Spira è stato distrutto. Nietzsche vedrebbe questo destino come un’opportunità per gli uomini di andare avanti, trascendere una vita di servitù e umiltà, iniziare invece a vivere per se stessi, seguendo la propria volontà, raggiungendo una gloria terrena.

(da David Hahn, Sin, otherworldliness, and the downside to hope, in Final Fantasy and Philosophy)

venerdì 25 marzo 2011

la ricerca esistenziale dell'autenticità

Nietzsche asserisce che Dio è morto, cioè è diventato obsoleto e non dovrebbe più essere considerato come garanzia di una qualsiasi guida nel mondo moderno: è solo attraverso l’accettazione dell’assenza di Dio che l’individuo può finalmente essere libero e imparare a creare valori che siano veramente suoi propri.
Per Sartre, questa condizione è ben riassunta nell’affermazione “l’esistenza precede l’essenza”: diversamente dagli oggetti e dagli strumenti che sono creati dall’uomo allo scopo di servire ad uno specifico ruolo o scopo, gli esseri umani hanno la peculiarità di venire al mondo senza alcuna predeterminata essenza o ragione d’essere. Non avendo un’essenza determinata, l’uomo deve scegliere cosa diventare, è condannato ad essere libero e deve accettare la responsabilità che accompagna questa assoluta libertà.
Benché l’uomo sia necessariamente libero, Sartre sostiene che spesso egli tenta di negare la propria libertà: la malafede è un modo d’essere inautentico fin troppo comune nelle nostre vite. Consideriamo il caso Di Cloud, protagonista del videogioco Final Fantasy VII. Nelle sue iniziali apparizioni, egli si presenta come un freddo e arrogante mercenario il cui unico interesse è quello di essere ricompensato per il suo contributo ad AVALANCHE. Cloud recita il suo essere un soldato.
La ricerca di Cloud in Final Fantasy VII  non è tanto quella fatta per salvare il mondo, quanto piuttosto quella fatta per venire a termini con la coerenza del proprio ruolo in esso. Cloud arriva a realizzare che i valori della sua gioventù, che gli sono stati impartiti dalla sua comunità, sono divenuti obsoleti: i suoi tentativi di adattarsi ai suoi pari essendo se stesso sono falliti, ed egli si trova lasciato solo a se stesso nella vastità del mondo aperto. La decisione di scalare i ranghi militari sembra offrire una potenziale soluzione al suo crescente nichilismo, ma in questa stessa decisione risiede il pericolo di allontanarsi dall’obiettivo della vera indipendenza. L’atteggiamento iniziale di Cloud da “duro”, tenuto per la prima metà del gioco, non è mai stato suo proprio, ma piuttosto è interamente adottato sulla base del suo concetto di come un soldato di prima scelta dovrebbe essere.
La seconda parte del gioco contiene invece l’indicazione del suo desiderio di ricominciare daccapo, di iniziare a vivere autenticamente: «Cloud… Io sono Cloud… padrone del mio mondo illusorio. Ma non posso più rimanere intrappolato in un’illusione… Vivrò la mia vita senza fingere».

(da Christopher R. Wood, Human, all too human: Cloud's existential quest for authenticity, in Final Fantasy and Philosophy)

mercoledì 16 marzo 2011

follia e nichilismo

Kefka, il nemico in Final Fantasy VI, è uno dei personaggi più filosoficamente densi nel mondo dei video giochi. Secondo Michel Foucault, in Storia della follia nell'età classica, durante il Medioevo le comuni caratteristiche della follia erano spesso viste come segni di una velata saggezza: c’era una nozione più positiva di follia. Foucault è convinto che una trasformazione da velata saggezza a follia sia iniziata con le visioni cristiane dell’apocalisse. Le allusioni bibliche all’incapacità umana di comprendere le ragioni di Dio hanno condotto a ritenere che quelli che si fossero avvicinati troppo a questa comprensione sarebbero stati condotti alla follia. Verso il XVII secolo, i folli erano temuti perché si supponeva che fossero stati ridotti all’insanità per essersi imbattuti in segreti nascosti sull’universo e su un’apocalisse prossima a venire. Se prendiamo in considerazione questo, allora il processo di fusione di Kefka con la Magicite potrebbe avergli donato una rivelazione di oscuri segreti e visioni dell’apocalisse. La paura di ciò che accadrebbe se gli dei della magia dovessero ritornare dà origine alla nozione di follia nel gioco, nella stessa maniera in cui la paura per l’apocalisse cristiana ha creato l’etichetta di follia alla fine del Medioevo. Kefka è rapidamente etichettato come folle perché quelli intorno a lui temono le conoscenze di cui potrebbe essere in possesso.
Prima che la storia si concluda Kefka accumula un potere divino e scopre che non c’è un significato ultimo dietro l’esistenza del mondo. Così si organizza per distruggerlo. Quando raggiunge l’apice del potere razionale disponibile sia per gli uomini sia per gli dei, all’improvviso scopre che non esiste alcuna giustificazione per la vita.
Etichettare Kefka come folle è in realtà solo un tentativo di ignorare quello che potrebbe essere un valido punto di vista. Kefka, raggiunto l’obiettivo di un potere e una conoscenza definitivi, va incontro ad un’interessante metamorfosi: non più in vestito da giullare, egli ha invece assunto un’angelica forma alata e il suo atteggiamento è quello di un distaccato stoicismo. Kefka afferma che non c’è alcun significato nel mondo, nessuna ragione che giustifica l’esistenza. Gli Eroi del gioco provano ad argomentare contro Kefka e spiegargli ciò che dà alle loro proprie vite un senso, ma Kefka non è diventato irrazionale o illogico, piuttosto arazionale, non contrario alla ragione ma al di là del dominio di essa. Gli Eroi che provano a convincere Kefka che l’esistenza ha una giustificazione, invocano desideri ipotetici di cui ormai Kefka è sprovvisto.
Mentre la vita può mancare di uno scopo oggettivo, ognuno di noi è venuto al mondo con la capacità di decidere cos’è significativo per noi. La comprensione di Kefka può fare un po’ di luce sulla connessione tra il famoso detto di Nietzsche “Dio è morto”, l’intima insensatezza della morale e dell’esistenza, e il nietzschiano concetto di Oltreuomo (Übermensch). Il rapporto di Kefka con il resto dell’umanità non è caratterizzato da animosità: dopo la sua ascensione a uno stato di divinità, egli non pronuncia una sola parola d’odio contro i protagonisti del gioco. L’umanità prega per ottenere compassione, ma questa è qualcosa di cui Kefka manca, semplicemente perché è una virtù creata da quelli cui manca il potere, una virtù razionalmente non necessaria alla superiorità, allo stato di divinità, ad una morale aristocratica e nobile.
Kefka è allora un Oltreuomo? Il personaggio di Nietzsche che proclama la morte di Dio, dichiara di essere giunto troppo presto e che il mondo non è ancora pronto per affrontare le conseguenze di un’esistenza nuova e senza Dio. Questa mancanza di preparazione è la vera preoccupazione che Kefka incarna: che senza Dio non c’è scopo o significato per l’esistenza. La nostra paura è che un mondo nel quale Dio sia stato scacciato o rimpiazzato dalla sola ragione sia un mondo in cui l’unico esito possibile sia il desiderio nichilistico di distruzione di ogni cosa. Nietzsche vuole più di quanto Kefka possa offrire all’umanità. Il vero Oltreuomo è capace non solo di scacciare Dio e la vecchia morale, ma di superare anche il nichilismo: questo uomo del futuro redime non solo dall’ideale che ha regnato fino ad ora, ma anche da ciò che potrebbe crescere dopo di esso, la grande nausea, la volontà di nulla, il nichilismo… è un anticristo e un antinichilista.
La lotta contro Kefka conduce i protagonisti faccia a faccia con l’influenza negativa della magia – della religione, del controllo, dell’autorità – e li costringe ad imparare a vivere senza di essa. È la battaglia più grande: la battaglia di trovare un senso quando non ne è dato nessuno.

(da Kylie Prymus, Kefka, Nietzsche, Foucault: madness and nihilism in Final Fantasy VI, in Final Fantasy and Philosophy)

 

venerdì 11 marzo 2011

un videogioco scrivibile

La molteplicità di personaggi giocabili permette ai giocatori più strade all’interno di un testo. Roland Barthes chiamerebbe Final Fantasy VII un testo scrivibile, perché i giocatori assumono un ruolo attivo nel produrre la narrazione del gioco attraverso la propria personale esperienza del gioco. Barthes credeva che gli scrittori dovessero riempire i propri testi con significanti, permettendo ai lettori di interpretarli da soli e così produrre il testo. I significanti contenuti nei personaggi di FFVII sono quegli elementi che possono essere manipolati dai giocatori. Potremmo chiamarli adattamenti (customizations). Questi variabili adattamenti non solo incrementano ulteriormente il numero di significanti contenuti da ogni personaggio, ma inoltre consentono ai giocatori di alterare questi significanti per adattarli ai propri fini.
I designer di giochi diventano “architetti narrativi” che progettano e costruiscono spazi di gioco nei quali i giocatori possano sperimentare narrazioni.
Crisis Core – prequel di FFVIIè un gioco in cui i giocatori sanno che i personaggi giocabili dovranno morire allo scopo di completare la narrazione. Questo significa che il gioco non può essere battuto. La ricompensa ultima nel giocare Crisis Core non è sconfiggere il gioco, ma sperimentare il mondo di Gaia attraverso gli occhi di Zack e interpretare il testo attraverso la sua collezione di significanti. È l’espressione definitiva del testo scrivibile di Barthes – un testo che il fruitore vuole espandere rivalutando il nucleo narrativo attraverso altri punti d’ingresso.

(da Benjamin Chandler, The spiky-haired mercenary vs. the French narrative theorist: Final Fantasy VII and the writerly text, in Final Fantasy and Philosophy)

 

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