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lunedì 30 aprile 2012

la katana e la farfalla

Se c'è un personaggio tra gli X-Men che ben rappresenta il concetto di mutazione è senza dubbio Psylocke. Non solo, nel corso della sua vita, è stata tantissime "cose" (pilota, modella, spia, giustiziere mascherato), ma è proprio nel cuore del suo essere che risiede un'inquietante e perturbante instabilità, come se il suo naturale stato di riposo consistesse proprio nel mutare. Mutando riposa, per usare un'oscura espressione di Eraclito. I suoi poteri telepatici e telecinetici, infatti, si manifestano in due forme espressive apparentemente alternative e contraddittorie: una farfalla e una katana. Come due espressioni di due opposti estremi: il potere e il controllo.
Ma la contraddizione è, appunto, soltanto apparente e superficiale. La farfalla, infatti, è sì simbolo di finezza, tocco delicato, controllo, ma – come del resto spiega anche Peter Milligan nella serie 5 Ronin, in cui alcuni personaggi della Marvel, tra cui Psylocke appunto, vengono trasportati nel Giappone medievale e impegnati ognuno a percorrere il proprio sentiero verso la vendetta – «in Giappone le farfalle sono venerate perché combinano vigore e grazia. Il vigore del volo e la grazia e la leggerezza per posarsi su questi delicati fiori», abilità di cui avrà bisogno anche la giovane O-Chiyo/Psylocke se dovrà farsi strada in questo mondo violento.
D'altra parte, come invece in un'occasione spiega la stessa Psylocke (su testo di Mike Carey), «per maneggiare una katana, la forza, il potere grezzo, non è neanche la metà di ciò di cui si ha bisogno. La spada deve divenire un'estensione del braccio, della volontà. Bisogna lasciarla volare, e dopo richiamarla a casa. Come se fosse un essere vivente sensibile ad ogni pensiero». Lasciare volare la spada, come un essere vivente, come una farfalla, leggera e vigorosa.
La farfalla e la katana, allora, non sono semplicemente due differenti espressioni del potere tra cui scegliere: «la spada può essere la farfalla. La delicatezza può vivere dentro il potere. Dirigendolo. Focalizzandolo. È come certe ambigue immagini di un vecchio libro: due volti o un vaso; una vecchia donna o una giovane ragazza. Non sono due cose. È la stessa cosa vista sotto prospettive diverse».
Come nelle classiche figure ambigue ed enigmatiche della psicologia, come in alcune litografie di Escher, come nell'eraclitea strada all'in su e all'in giù che è in realtà la stessa, il divenire, l'instabilità o la non fissità dell'identità, la fluidità dell'essere al di là delle superficiali e sbrigative apparenze, sembra essere la regola di ogni realtà.


sabato 7 aprile 2012

divertenti e graziosi giocattoli

More about La caduta di Hyperion«Possono non esistere esseri superiori divertiti da qualcuna delle graziose, per quanto istintive, attitudini in cui cade la mia mente, mentre considero la prontezza d'un ermellino o il timore d'un cervo? Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie che mostra sono belle. Per un essere superiore, i nostri ragionamenti forse assumono lo stesso tono... per quanto errati, forse sono belli. Ed è questa, la vera essenza della poesia».
Questo passaggio tratto da una lettera del poeta inglese John Keats, uno dei miei preferiti dagli adolescenziali tempi del liceo, al fratello, già citato all'interno del primo volume del ciclo I canti di Hyperion di Dan Simmons, funge da esergo del secondo, che ho giusto finito l'altro ieri.
E a me fa risuonare in mente alcuni frammenti di Eraclito, in cui l'oscuro filosofo spegne urgentemente come fosse un incendio ogni vana presunzione umana di lucida e definitiva conoscenza e comprensione della ragione e delle leggi della realtà, poiché «la qualità interiore umana, invero, non possiede gli strumenti del conoscere», non avendo natura divina, cosicché «di fronte alla divinità l’uomo risulta infantile, proprio come il fanciullo di fronte all’uomo» e le idee degli uomini non sono altro che divertenti e graziosi «giocattoli di fanciulli».
Inoltre «dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte», scrive Eraclito. Il frammento allude al gioco di parole tra biòs, arco (che, adoperato come arma, può portare la morte, uccidere), e bìos, vita; allo stesso tempo, è presente un richiamo al dio Apollo, di cui sono strumenti caratteristici sia l’arco sia la lira. Così, il senso del frammento sarebbe, secondo Giorgio Colli, che «le opere dell’arco e della lira, la morte e la bellezza, provengono da uno stesso dio, esprimono un’identica natura divina, e soltanto nella prospettiva deformata, illusoria del nostro mondo dell’apparenza si presentano come frammentazioni contraddittorie» (La nascita della filosofia).
Allo stesso tema rimanda il frammento «belle, di fronte al dio, sono tutte le cose; ma gli uomini hanno giudicato alcune cose come ingiuste, altre invece come giuste». Tutte le cose sono forme differenti in cui l’unico dio compare, dio che «si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno»: come il fuoco resta lo stesso e contemporaneamente diventa diverso, diversamente profumato e colorato, a seconda del particolare aroma che gli si getta dentro, così il dio, che è unità dei contrari, si realizza per l’uomo in un contrario o nell’altro nelle varie contingenze della vita. L’ingiustizia, la bruttezza, la negatività delle cose (le odiose zuffe di strada di cui scrive Keats) esistono solo per l’uomo, il dio non può essere assoggettato dalle categorie della predicazione umana. Viene, così, evidenziata la frattura metafisica fra il mondo e la prospettiva degli uomini e quelli degli dei. «Il mondo» – secondo Oswald Spengler – «è un enorme ed eterno àgón che si svolge secondo rigide regole di combattimento», ha il ritmo e la misura, la forza terribile, di una lotta che però, paradossalmente, «si scioglie in armonia» perché è «qualcosa che non è nulla di umano» e di cui il filosofo può godere, «gioire della leggerezza, dell’innocenza, dell’assoluta mancanza di sofferenza nello spettacolo del suo divenire e operare» (Eraclito).

sabato 31 dicembre 2011

l'arte di chiudere il becco alle donne

Ma dove sono le donne? Dove sono le filosofe? Dove sono le donne, con le loro idee piene di fascino. Di filosofe proprio non se ne vedono. Vi sono donne alla guida di nazioni, imperi, partiti. Conosciamo poetesse, scrittrici... ma le filosofe? Ce ne sono tantissime, ma sono tutte dipinte! Basta alzare lo sguardo sui muri della Sorbona, si vedono ovunque pomposissime allegorie femminili nel grande anfiteatro firmato dal pittore neoclassico Puvis de Chavannes. Ma da dove arrivano quelle muse che dovrebbero ispirare studenti e professori? Soprattutto dai bordelli parigini. La Verità forse si chiamava Ninì e, sotto le spoglie della Prudenza, professori e studenti potevano riconoscere la Grande Fernanda. Misoginia? I filosofi si sono limitati a rispecchiare la misoginia della loro epoca, l'hanno elaborata e le hanno dato una forma. Sul tema monotono della debolezza della donna, hanno ricamato e costruito un concetto della "natura" femminile come incapace di concettualizzare. Certo, la filosofia non è l'unica attività non femminilizzata: poche sono le donne direttrici d'orchestra o fantine; e che io sappia non ci sono donne lottatrici di sumo. Una volta una donna tentò di occupare il seggio di san Pietro, nondimeno il magistero papale resta un'attività prettamente virile. È certo che non si tratta di una dimenticanza, né di un banale ritardo. Le donne sono espressamente pregate di non autoinvitarsi nella cerchia esclusiva dei pensatori. La filosofia è l'arte di chiudere il becco alle donne.
Eppure provate a parlare di debolezza delle donne a qualcuno che vive nel mondo di Medea, delle Baccanti, delle Menadi, delle Amazzoni, delle cacciatrici di Artemide! Donna è il nome di un'energia sovrumana che può far tremare di paura. Classi femminili, classi pericolose! Ammetterete che sarebbe il caso di riunirsi tra uomini per prendere dei provvedimenti, decretare l'eccellenza di una vita moderata e instaurare la filosofia come amore della saggezza, del pensiero ordinato e del linguaggio articolato. A proposito delle baccanti, per conoscerle, vi do un consiglio: fate caso ai capelli. La baccante ha i capelli sciolti. Una donna in ordine e curata ha sempre i capelli raccolti. Quando li scioglie significa che la Forza è in lei, la forza del desiderio amoroso – è nell'alcova, e solo per l'amante che le donne un tempo si scioglievano i capelli – oppure è la forza di un dio pericoloso che non rispetta niente, né le trecce né lo chignon, un dio che spettina.  
Dal mio punto di vista, non c'è alcuna incompatibilità tra la Donna e la Filosofia. Se le donne non hanno avuto voce in capitolo, potrebbe essere per un problema di organi, di corde vocali? Parlare in pubblico, equivale a mettersi a nudo. Per l'uomo non rappresenta sempre un inconveniente: l'arte oratoria è per lui un modo di competere in virilità. Gli uomini sono come i Tre Moschettieri, hanno bisogno che le armi tintinnino, e la filosofia è una forma prettamente maschile di rumoroso sfoggio delle armi. Tuttavia Aspasia e le geishe ateniesi hanno diffuso nel IV secolo prima di Cristo una forma raffinata di espressione, orale e scritta, arte del conversare e dello scrivere. Lei e le sue amiche hanno partecipato alla storia della filosofia ma non appaiono nella foto. È una questione d'inquadratura. Da Platone in poi la lezione è la seguente: le donne possono partecipare alla storia della filosofia ma devono restare fuori dall'inquadratura.
C'è in ogni caso una condizione per fare parte del club dei filosofi: va bene scrivere, ma bisogna pubblicare! Per lungo tempo la letteratura femminile si è limitata alla posta e ai diari, vale a dire a una scrittura personale a breve termine. Se ci fosse un principio di scrittura femminile si enuncerebbe così: si scrive sempre per qualcuno. Al contrario, nel cuore della filosofia agisce un principio maschile secondo cui si scrive per tutti, per il mondo intero, senza destinatario particolare. I filosofi si convincono che sono messaggeri dell'Universale. Nei salotti parigini del XVII e XVIII secolo, universo che Benedetta Craveri descrive ne La civiltà della conversazione, le donne danno origine ad uno stile capace di far brillare il vero e di dare fondamento al brillante, ad una alleanza tra la Verità e la Consolazione, la Scienza e il Piacere. È proprio tale alleanza a interessare Hume ed egli la traduce così: «unire le forze del sapere e il mondo della conversazione», vale a dire il mondo degli uomini e il mondo delle donne, i dotti e le dame. Egli pensa che accanto ai trattati, ai corsi e ai discorsi, bisogna sviluppare il genere meno pesante del saggio, opera breve scritta intorno ad un solo argomento senza tecnicismi. È un'alternativa al librone oscuro di filosofia e al romanzetto: il saggio è una conversazione da salotto, la felice unione dello scritto e dell'orale, salva la parola femminile dall'inferno delle chiacchiere, della parlantina, del cicaleccio, delle ciance, dei pettegolezzi. Ma con il Terrore rivoluzionario il mondo della conversazione, quel nuovo modo di pensare e di scrivere, cade nel cestino della crusca insieme alle teste di quelle sfrontate, e il salotto, l'arte di fare circolare il nulla con eleganza, l'arte di perdere mollemente tempo, non è cosa seria.
All'inizio del XIX secolo Hegel era l'organo centrale della Verità. Per interpretare tale formidabile ruolo, non bastava una voce da femminuccia: occorreva una voce sicura, magistrale, categorica, che dicesse "È così e basta", una voce virile che affermava con forza delle verità così come si batte un'incudine. Ma le cose non stavano così. Pare che Hegel fosse munito di un organo difettoso: si schiariva la voce e tossicchiava continuamente. Tra balbettii e farfugli, però, il filosofo produce cose serie: la serietà, la filosofia, il Concetto, il Sapere, se paragonati a questi, gli altri discorsi umani sono frivoli e caduchi. O è semplicemente ridicolo? In occasione di un passaggio a Berlino, un giovane filosofo, un certo Schopenhauer, non era riuscito a prendere sul serio il predecessore di Hegel e idolo delle folle studentesche, Fichte: «Durante questo corso, dice delle cose che mi fanno venir voglia di mettergli una pistola alla gola dicendogli: "Devi morire subito senza pietà; ma per amore della tua minuscola anima, dimmi se questo tuo linguaggio ostrogoto nascondeva un pensiero sensato o se ti sei solo preso gioco di noi?"».
Il Filosofo è una macchina pensante che ha una risposta a tutto, anche al dolore di una donna sconosciuta che è stata lasciata, perché il suo fine non è il bene ma il Vero e per lui la filosofia non è né un balsamo né una pozione. Per quanto riguarda Schopenhauer – un tipo violento, come abbiamo potuto constatare – la sua collera contro le preparatrici di decotti filosofici sembrava senza limiti. Ci aveva avvertiti: «La mia filosofia è sprovvista di comodità, e ciò in quanto dico la verità». Avvertimento per gli infermieri dell'anima! La versione virile della filosofia non lascerà loro nessuno spazio. I due campi si affrontano: da una parte gli uomini, che collocano la Verità al di sopra di tutto e iniziano ogni discorso dicendo: "Ho ragione e posso provarlo". E dall'altra le donne, fedeli alle loro nonne – di cui conservano, in un angolo della memoria e dell'armadio, la ricetta di un decotto per curare i colpi di sole, di un bouquet di piante per guarire le emicranie o un ciondolo porta fortuna –, che situano al di sopra di tutto la cura, l'attenzione a sé e che pensano sia giusto voler guarire. 
Un aneddoto racconta che alcuni visitatori arrivati sulla soglia della casa del grande Eraclito, non osano entrare perché il filosofo si scaldava vicino al fuoco. Il saggio di Efeso li incoraggia a farsi avanti dicendo loro: "Gli dei sono anche qui, nella cucina". La filosofia non è soltanto una questione di idee, di concetti o parole ma anche di cose che si colgono e si preparano. Ora, nel suo Simposio Platone non si abbassa mai a parlarci di cucina, partendo da un avvenimento ricco, equivoco, meticcio, Platone costruisce un testo purificato, univoco, maschile: prendete una decina di convitati, lasciate evaporare le contingenze materiali, nascondete fornelli e anfore, cancellate gli spuntini, conservate solo le parole e servite freddo. In realtà non c'è nessuna fine conversazione senza fine nutrimento! Per pensare una filosofia "paritaria" – se ci piace il termine – bisogna pensare una filosofia ben temperata, umida, rabelaisiana, tessile: la filosofia si tesse con molteplici fili e legami, non tagliandosi fuori dalle cose, non toglie la parola a nessuno, non è l'arte di interrompere, una pratica senza soluzione di continuità con la ghigliottina, o di far tintinnare le armi.

(da Frédeéric Pagès, La filosofia o l'arte di chiudere il becco alle donne)

venerdì 23 dicembre 2011

drago di nuvola, tigre di vento

Quello è il luogo in cui il nostro signore commise seppuku*, e voi eseguiste il suo kaishaku**.
Il nostro duello ebbe luogo più o meno laggiù. 

Il fiume scorre, e l'acqua non è mai identica a se stessa. Anche le nuvole sono in continuo movimento; e il sole e la luna sono eterni viaggiatori.
Il samurai non volge mai lo sguardo al passato. La vita nella morte: è tutto ciò che abbiamo. 

Ciò che dite è vero: non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.
Il dovere del bushi*** è quello di vivere con la morte costantemente nel cuore, giorno e notte.

(Lone Wolf & Cub, 36 (VII), Drago di nuvola, tigre di vento).


*seppuku: il diritto che ogni samurai aveva di uccidersi con onore; armati di coltello, dovevano squarciarsi l'addome con un taglio orizzontale, quindi dovevano girare la lama senza estrarla e praticare un taglio verticale che serviva a far fuoriuscire l'intestino; in alcuni casi la cerimonia era completata da un kaishakunin, che poneva fine alle sofferenze del samurai tagliandogli la testa.
**kaishaku: durante il rito del seppuku, a un samurai era concesso di morire con onore squarciandosi l'addome; eseguita l'incisione, un "padrino" (kaishakunin) compiva il kaishaku, tagliandogli di netto la testa per accelerarne la morte.
***bushi: samurai, membro della classe dei guerrieri.

C'è davvero bisogna di far notare come in questo manga sia citata esplicitamente la filosofia di Eraclito contenuta nei famosi frammenti sulle acque del fiume, sulla natura fluttuante di una realtà in eterno divenire? 

[fr.B12] Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stessi fiumi.
[fr.B49a] Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.
[fr.B91] Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte.


mercoledì 14 dicembre 2011

labirinti e doppelgänger

A ribadire insieme l'assurdità dell'esistenza umana e il carattere onirico della realtà, che sono a fondamento della filosofia del fumetto Dylan Dog, e ad aggiungere ulteriori livelli di lettura e interpretazione, è la metafora dell'uomo come labirinto, che viene espressa nel settimo speciale della serie, Sogni, in cui la figura onirica del Matto afferma: «Guardate! Ecco il destino dell'umanità dolente, fantasmi nella luce accecante del niente! Il niente che vi aspetta nel labirinto senza uscita di sogni e di dolore che chiamate vita! Ma il sogno è solo uno, senza senso, sibillino, e lo sogno io, il Matto, vostro unico destino». E ancora, in seguito, si parla de «la vita, il sogno, il labirinto di cui tutti noi cerchiamo il centro».
Nel suo saggio Roberto Manzocco riconosce i riferimenti filosofici di questa idea dell'uomo – come «strana cosa che, pur vivendo e pensando ogni giorno, non ha idea di che cosa sia, di come si origini e da dove venga quel flusso di pensieri tramite i quali essa si rapporta al mondo e a se stessa» – in Nietzsche, il quale scrive ad esempio, ne La gaia scienza, che «chi guarda in se stesso come in un immenso universo e porta in sé le sue vie lattee, sa anche quanto irregolari siano tutte le vie lattee; esse conducono fino al caos e nel labirinto dell'esistenza», ed Eraclito, il quale in uno dei suoi frammenti scrive che «i confini dell'anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in fondo nel percorrere le sue strade: così profonda è la sua ragione».
Altro simbolo della fluidità e instabilità della natura umana è quello del doppio che cammina al nostro fianco, nostro compagno di strada, del doppelgänger termine coniato nel 1796 dallo scrittore e pedagogista tedesco Jean-Paul Richter in aperta ispirazione alla filosofia idealistica e romantica di Fichte, che prevedeva una sorta di raddoppiamento dell'io tra uno assoluto, originario e quello empirico. La duplicità impersonata dal classico romanzo di Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è esplicitamente interpretata in un albo della serie dylaniata – Jekill! – secondo l'idea che «il filtro malefico è solo un artificio letterario. Lo sdoppiamento, la trasformazione in Hyde è possibile per tutti». Un altro albo – L'uomo che visse due volte – rende omaggio ad altri due classici del genere: il film di David Lynch Strade perdute e il romanzo Il fu Mattia Pascal di Pirandello (un personaggio dell'episodio si chiama, infatti, Matthew Pascal).

sabato 3 dicembre 2011

metafisica dylaniata

La metafisica elaborata all'interno degli albi di Dylan Dog è caratterizzata – secondo l'analisi portata avanti da Roberto Manzoccoda una visione della realtà che mescola elementi che vanno «dalla teoria degli universi paralleli ad un'estetica di gusto surrealista, da una concezione onirica del mondo ad una fiabesca», facendo riferimento e fondendo filosofia, scienza, teologia. Anche, l'elemento metafinzionale della serie, uno dei suoi principali ingredienti secondo l'analisi dell'autore, serve a «promuovere la visione della realtà implicita in Dylan Dog, ossia l'idea che tra la veglia e il sogno non ci sia poi una gran differenza».
Nel secondo Speciale, Gli Orrori di Altroquando, compare la figura di un Dio mostruoso e non indistruttibile, creatore del Cielo eccetera. Nel numero 39 della serie, Il Signore del Silenzio, la vita è definita come «il sogno di un Dio crudele». In generale la visione teologica del fumetto sembra essere prossima a quella della gnosi, per cui «il divino è assolutamente trascendente e al di là del pensiero umano» e «la realtà materiale è il prodotto di divinità inferiori, creature potentissime ma imperfette». Una di queste ultime sembrerebbe essere il gatto di strega Cagliostro, definito nell'albo numero 18 della serie come capace, se volesse, di «far sparire il mondo intero! È come un bambino che sogna, ma i suoi incubi possono diventare realtà!». 
Questa idea del mondo come prodotto di un'entità infantile che lo crea solo per divertimento – ci ricorda l'autore – è l'oggetto di riflessione di Eugen Fink, che ne Il gioco come simbolo del mondo, partendo dai frammenti di Eraclito in cui è espressa l'idea della realtà come fuoco che eternamente muta e diviene e del corso del mondo come continua lotta degli opposti, sostiene: «Eraclito dice nel frammento 52 "il corso del mondo è un bambino che gioca a dadi, è il regno di un bambino". La creazione più originale ha il carattere del gioco».
Ma se, in Dylan Dog, Dio è dunque assente o irrilevante, allora – deduce l'autore – l'uomo è insignificante rispetto all'immensità dell'universo. Nel secondo racconto del Super Book numero 3La cosa – protagonista è il pianeta Terra che si interroga sul senso della sua esistenza e del suo viaggio cosmico in maniera affatto dissimile rispetto all'atmosfera dell'incipit del saggio di Nietzsche Su verità e menzogna in senso extramorale: «In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. – Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell'intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell'intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui. Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch'essa nuota attraverso l'aria con questo pathos e si sente il centro che vola di questo mondo. Non vi è nulla di abbastanza spregevole e scadente nella natura, che con un piccolo e leggero alito di quella forza del conoscere non si gonfi senz'altro come un otre. E come ogni facchino vuole avere i suoi ammiratori, così il più orgoglioso fra gli uomini, il filosofo, crede che da tutti i lati gli occhi dell'universo siano rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare».
Anche Svevo scrive analoghe riflessioni sulla natura parassitaria degli esseri umani: «Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di malattie» (La coscienza di Zeno). E pensieri analoghi aveva già espresso anche Pascal: «Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell'eternità che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che m'ignorano, mi spavento, e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora» (Pensieri).

mercoledì 31 agosto 2011

relatività

Anche per Eraclito non poteva mancare l'accostamento ad un'opera di Escher: praticamente immediato quello fra la litografia Relatività (1953) e il frammento «Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù» (fr. B60).
Entrambi a sottolineare l'intima unità dei contrari, come quella tra luce e tenebre.


domenica 28 agosto 2011

luce e tenebra

«Là dove c'è la luce, le tenebre sono in agguat. Questo l'incipit di tutti gli episodi della serie nipponica Garo, e mi sembra perfetto per introdurre la filosofia di Eraclito.
In particolare, la sua idea di unità dei contrari per cui «L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia [e tutto accade secondo contesa]» (fr. B8).
Gli opposti non possono essere aboliti, se non si vuole distruggere la cosa in cui si realizzano; il nodo, la struttura intima di ogni cosa è l’unione, la connessione di contrari, di convergente e divergente: condizione necessaria per l’esistenza della cosa stessa è l’esistenza delle forze contrastanti che, momento per momento, la sostengono, la realizzano. Qualunque cosa solo «mutando riposa» (fr. B84a), perché la conseguenza di una eventuale interruzione della tensione continuamente cangiante dei contrari, degli opposti, sarebbe la sua distruzione, la sua disgregazione. Dipendenza reciproca degli opposti, che sono momenti di uno stesso processo, non sono nulla di consistente e permanente in sé.
Quindi, là dove c'è la luce, non possono che esserci anche le tenebre.

garo

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