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domenica 20 febbraio 2022

filosofia della nostalgia

Con Yesterday. Filosofia della nostalgia quel sentimento dominante in tempo di crisi quando il presente è opaco e il futuro incerto, viene indagato e raccontato da Lucrezia Ercoli in maniera puntuale e interessante, delicata e potente.
La nostalgia sembra essere un tratto proprio del XXI secolo, in cui il vento della Storia non è più quello della tempesta del progresso che, all'inizio del secolo scorso, spingeva più l'Angelus Novus di Klee e Benjamin verso il futuro, ma quello della retrotopia (Zygmunt Bauman) che, in un'epoca di incertezze e di un futuro sempre più imprevedibile, riconduce verso il passato e un paradiso perduto. E, come mostra la Ercoli, essa rappresenta un sentimento ambiguo, che può declinarsi tanto in una malattia paralizzante quanto in un indicatore per pensare l'avvenire, che può essere tanto affascinante quanto pericoloso.

Nostalgia (da nostos, ritorno in patria, e algos, dolore o tristezza) è un termine coniato nel 1688 - in cui confluiscono espressioni presenti in diverse lingue, dal tedesco Heimweh al francese mal du pays, dall'inglese homesickness al portoghese saudade - per indicare una malattia, una condizione clinica, causata da un eccessivo attaccamento alla patria lontana. Una patologia che accompagna l'accelerazione del tempo moderno, con i suoi cambiamenti radicali e veloci portati dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione del finire del XVII secolo. Certo già l'Odissea omerica ha delineato i contorni della nostalgia come malattia dell'esule che rimpiange la terra natia, ma è la modernità che la universalizza, la fa sfuggire ai confini della patria, per renderla nostalgia di paesi e di felicità sconosciuti (Charles Baudelaire), desiderio di una felicità che è sempre dove non si è noi. O, forse paradossalmente, l'odierno uomo di città ha eliminato da lungo tempo la nostalgia? (Martin Heidegger). E questo sarebbe il vero pericolo: l'esperienza della perdita della casa sembrerebbe incompatibile con l'omologazione moderna per cui è facile sentirsi a casa ovunque, in cui tutto è vicino e raggiungibile, immediato.  Una connectography (Parag Khanna) in cui i confini non sono più definiti tramite mappe geografiche perché trasporti, comunicazioni, reti mediali hanno trasformato i concetti di spazio e di viaggio.

Il film di Woody Allen Midnight in Paris rappresenta un vero e proprio saggio visivo sulla nostalgia dell'età dell'oro, mostrando come quello che per una generazione è prosaico e volgare, per la generazione successiva si trasforma in qualcos'altro, in qualcosa di magico e vintage. Ma mostra anche che l'età dell'oro non è la stessa per ogni epoca, che la costante è piuttosto la considerazione del presente come noioso e insoddisfacente. Questa sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, l'idea di una parabola discendente è narrata nel poema Le opere e i giorni da Esiodo ed è un mito che si rafforza nella cultura romana per esempio con l'Ovidio delle Metamorfosi, e non è una proprietà esclusiva della tradizione occidentale: si tratta di un archetipo universale che si rafforza nei periodi di crisi, necessario per elaborare la disperazione provocata dalla estrema miseria, dalla mancanza di libertà e dal crollo dei valori tradizionali (Mircea Eliade), di una nostalgia delle origini che è caratteristica permanente della memoria collettiva. I
l passato è costantemente frutto di una creazione che rinnova un mito immaginario tra realtà e sogno, che popola il nostro presente di spettri che non se ne sono mai andati, di fantasmi che continuano a condizionarci: il passato non è morto, non è nemmeno passato (William Faulkner).
Una serie televisiva come Happy Days costruisce gli anni Cinquanta come quel tempo felice della storia americana contemporanea prima della catastrofe della Guerra in Vietnam, e la formula seriale e ripetitiva è perfetta per creare la continuità e la stabilità di giorni felici. La cinquantezza (Fredric Jameson) propria di produzioni degli anni Settanta e Ottanta non racconta il passato nella sua totalità ma lo epura da ogni forma di conflitto e complessità storica, lo riesuma in forma innocua, lo crea nostalgicamente senza comprenderlo. Film come Pleasantville di Gary Ross o The Truman Show di Peter Weir decostruiscono questo paradiso dei fifties mostrandolo come un inferno repressivo e proibizionista o comunque mostrando come pura simulazione la sua perfezione.
La nostalgia, così, non corrisponde a un archivio di eventi ma a una visione irreale da sogno. Ed è con l'immagine in movimento - video, cinema, televisione - che dal secondo dopoguerra, ancora più che nei decenni precedenti, il passato acquisisce una natura immaginaria, completamente svincolata dalla storia.
Da questa dimensione anche nefasta e terribile della nostalgia mettono in guardia Milan Kundera - che nell'incipit del romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere mostra come essa speri nel ritorno del tempo perduto anche quando questo è segnato da atrocità irripetibili -, Vladimir Nabokov - che ne Il dono avverte dell'inestinguibile nostalgia per le cose a cui diciamo addio anche se non le abbiamo mai amate -, le ostalgie (crasi tra osten, cioè est, e nostalgia) nella Germania dopo la caduta del muro di Berlino dei popoli dell'ex blocco sovietico, per i quali liberazione e passaggio disorientante vanno insieme. Questo senso di continuità di una comunità, questo forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato, rischia di produrre un'inversione storica (Michail Bachtin) che riporti in vita anche i cadaveri di un passato che si era superato, di essere un potente veleno in cui orgoglio nazionale e tradizione religiosa formino un cocktail reazionario.
Una serie televisiva come Stranger Things dei fratelli Matt e Ross Duffer, invece, costruisce una ottantezza, una nostalgia degli anni Ottanta come epoca dell'immaginazione, in cui la tecnologia non è ancora esplosa a livello di massa, non è ancora una presenza pervasiva nelle vite di ognuno che condiziona lo spazio pubblico e privato, e c'è una promessa di liberazione ed emancipazione non ancora soppressa da un sistema di controllo digitale. Anni in cui cose strane possono ancora accadere.
Questa la dualità della nostalgia: da una parte una nostalgia restauratrice, una fissazione regressiva bloccata nella fascinazione del ritorno dell'ordine naturale e delle identificazioni forti, un revival reazionario legato a una propaganda faziosa, una retorica nazionalista, un'esaltazione della patria; dall'altra una nostalgia riflessiva, capace di riconoscere l'irrevocabilità del passato e di fare della memoria un'eredità per progredire, generando un'attesa carica di pathos e di storia.

A svelare il vero oggetto della nostalgia è la musica: non l'assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente. Ciò di cui si ha nostalgia è ieri - yesterday -, ieri in quanto ieri, il passato in quanto passato, il tempo in quanto tempo perduto. La canzone pop è così il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica e i tormentoni musicali sono intimni (Peter Szendy) - cioè allo stesso tempo inni collettivi e melodie intime - che ripetono sempre la stessa frase, al contempo dolorosa e catartica: Tu eri e non sei più. In questo senso, la nostalgia evoca una scissione costitutiva, una cicatrice incancellabile, e rappresenta un'esperienza ineliminabile della condizione umana.
Ancora una volta si fa necessario evidenziare il potenziale venefico della nostalgia, il cui soddisfacimento allucinatorio può spegnere la vita rinchiudendola in un mondo popolato di fantasmi, in un paradiso artificiale che impedisce di affrontare il trauma della perdita e di compiere il lavoro del lutto. E tanto più nell'epoca contemporanea l'opportunità di registrare e conservare un numero di ricordi personali senza precedenti nella storia, può tramutarsi nel pericolo di perdere lo slancio verso il futuro che rende propositiva la nostalgia (Davide Sisto).
I tempi della nostalgia contemporanea continuano a accorciarsi, che la nostalgia diventa nostalgia del presente perché la sua operazione avviene per tutto e continuamente. Se ancora nei primi anni Novanta si immaginavano, con fiducia nel futuro e slancio prometeico, alternative, dai primi anni Duemila la cultura sembra essere nel segno della retromania (Simon Reynolds), del revival, della ristampa, del remake, della ricostruzione: il futuro non c'è più, è sconfitto, è perduto.
Per non essere solo il passato che non passa e torna a tormentare sotto forma di fantasma seducente, per non essere il crepuscolare e senile cliché dell'ai miei tempi che guarda con diffidenza le novità e mal si adatta ai cambiamenti, la nostalgia deve diventare un imparare dagli spettri delle rivoluzioni mancate e delle utopie non realizzate, dai revenant di chi non c'è più ma ci parla ancora. Una hauntology (Jacques Derrida) che si fa carico delle presenze spettrali, e che sembra essere il sentimento dominante delle produzioni contemporanee capaci di evocare immagini e suoni provenienti da futuri perduti (Mark Fisher). Una nostalgia che non rinuncia allo spettro - come il crepitio tipico della musica hauntologica che riproduce il rumore della puntina sul vinile e che ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un tempo che è fuor di sesto (Fischer) -, che parla al fantasma e sente cosa ha da dire, ma che oltre allo struggimento per ciò che è stato si fa carico dell'ingiunzione che viene dal passato quale motore dell'avvenire. Una nostalgia come post production (Nicolas Bourriaud) e reboot che riedita il passato in una versione che fa rivedere qualcosa di già visto ma con uno sguardo diverso, che riprogramma il non ancora dei vari futuri che si era preparati a attendere e che non ci sono mai stati.

lunedì 8 febbraio 2016

malinconia, utopia, realismo

Gianluca Cuozzo in Utopie e realtà lega insieme melancolia, utopia e realismo e traccia i risultati del loro contatto fecondo, del loro incontro proficuo. La malincolia è un “radioso rimpianto” (Baudelaire), un anelito all'inversione del tempo, da cui emerge il ricordo dell'inadempiuto, di un residuo di realtà da concretizzarsi che è precisamente ciò di cui si nutre l'utopia concreta: far dell'inadempiuto la chance, l'opportunità del momento, senza allentare i legami imprescindibili dell'alternativa utopica con il mondo reale. Armarsi di melancolia, per Benjamin, significa acquisire una competenza storico-mondana davvero intransigente rispetto a ogni “ingenuo ottimismo” e “volgare naturalismo storico”; essa spinge a intravedere le crepe della decadenza ma anche a immaginare azioni che aprano la storia a quel potenziale di alterità che essa stessa cova. La melancolia si mostra quindi come il risvolto interno del nastro dell'utopia, come il principio gravitazionale di realtà che le è necessario. Anche se sotto il segno dell'angoscia, essa restituisce la domanda circa l'altro luogo dell'ancora aperto nella storia.
È nell'ambiguità irriducibile della complessione melancolica – avvinghiata alla terra ma insieme disperatamente protesa verso le altezze celesti, condannata all'infelicità passata eppure aperta sul margine possibile – che va ricercata una declinazione del pensiero utopico che, sebbene non rassegnato al presente, sappia però resistere alle filosofie del progresso sempre passibili di rovesciarlo in distopia. È in una archeologia o anamnesi del residuale in cui “nulla di ciò che è avvenuto dev'essere mai dato per perso” (Benjamin), in cui muoversi come “straccivendoli” – robivecchi che per Baudelaire è l'alter ego del poeta, uomo incaricato di raccattare i rifiuti di giornata di una grande città e perciò in possesso delle chiavi per decifrare le sparse rovine della realtà moderna – a caccia degli scarti e del pattume dimenticato dell'esistente che sono però possibilità emancipative tuttora futuribili e latenti in questi stessi lacerti e cascami del passato, che si reimmette l'utopia nel circuito della realtà.
La natura è il punto di massima prossimità tra utopia e realismo: il sogno di ripristino, per nulla regressivo, di una condizione perduta da cui dipende la stessa sopravvivenza dell'uomo. Ecco che desiderio dell'altrove e critica del presente conducono a una ecosofia senza la mediazione della quale non vi è salvezza storica, utopica in senso vero.

sabato 27 dicembre 2014

filosofia della crudeltà

Nella sua Filosofia della crudeltà Lucrezia Ercoli indaga le implicazioni etiche ed estetiche di questo enigma che è la crudeltà, cruda bestialità pre-civile, mostruoso e grave vizio, ma insieme anche sacra violenza purificatrice, desiderio e piacere che già da sempre appartiene all'umanità. L'opera di Escher Illusione con angeli e diavoli - o Limite del cerchio IV - rende visivamente questo concetto, rileva l'autrice nell'introduzione, per cui "la barriera tra la crudeltà e il suo contrario si fa permeabile e sfuma", il mondo è pieno di bene e di male e gli angeli possono diventare diavoli, e viceversa.
Il punto di partenza del saggio non può che essere il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, secondo il quale "tutto ciò che agisce è crudeltà" (Il teatro e la crudeltà) perché la crudeltà non è altro che la vita che supera ogni limite e si mette alla prova, è la legge che regola ogni creazione, inscritta nello statuto stesso della vita: "è l’esercizio della coscienza che conferisce a ogni atto della vita il colore del sangue perché 'è chiaro che la vita è sempre morte di qualcuno'. La crudeltà mette in luce, quindi, il necessario determinismo a cui è sottoposto ogni nostro atto di vita, che, per la sua decisione di esistere, genera morte". La crudeltà è il prezzo da pagare per svelare come la cultura possa divenire nient'altro che passività, consuetudine, pigrizia, stereotipo.
Figura di questa crudeltà è l'Eliogabalo dello stesso Artaud - 'leggenda nera' evocata anche da molta altra letteratura, poesia e arte figurativa: Verlaine, Wilde, D'Annunzio, Huysmann, Alma-Tadema -, i cui "comportamenti crudeli condannati dalla ratio diventano domande martellanti che mettono in discussione la consistenza granitica delle certezze". Egli non è né Dio né padrone ma soltanto se stesso, è sfida, tensione, energia crudele e luminosa, liberatrice ed emancipatrice. "Attraverso l'uso spregiudicato della crudeltà 'gratuita e immotivata' riesce a sfuggire, almeno temporaneamente, alla tirannia che cancella la sua personalità. Libera il proprio corpo e il proprio desiderio con un processo di differenziazione, carico di decisioni sanguinose e crudeli". In Eliogabalo la crudeltà è il riverbero di una ribellione faticosa e coraggiosa contro la legge naturale e la morale istituita. La crudeltà di Eliogabalo, che scioglie le pietrificazioni della vita, è la distruzione e ricomposizione del processo alchemico, è la ricerca di un corpo senza organi (Deleuze) che eluda la presunta fissità ed esclusività del reale, è vita acrobatica estrema e paradossale che fa di ogni attimo una questione di vita o di morte, è sfrontata lotta contro le convenzioni che apre alla possibilità ma non può lasciare illesi, è transvalutazione di tutti i valori.
E così si arriva a Nietzsche, a quel trattato sulla crudeltà che è la Geneaologia della morale, ma non solo. La crudeltà spietata e violenta è l'opera di salvifica demistificazione della ragione, è eroismo del pensiero che scava a fondo, decostruisce le false prospettive, è veglia lucida. E si arriva a Bataille, per il quale l'arte è esercizio di crudeltà che viola e tortura la falsa solidità e unità aprendo alla meraviglia e all'orrore, che "mette a morte le forme chiuse, mette tutto irrecuperabilmente 'in questione'. Consente di oltrepassare il confine tra la polis e la silva, tra la civiltà e la ferinità". 
La crudeltà sarebbe, quindi, un compito ineludibile di contrapposizione all'inerzia della vita pacifica, che è in realtà vita seduta, comune vigliaccheria quotidiana: "apre una tensione etica che rifugge dal dogmatismo degli stereotipi, che non pretende un redde rationem, ma lascia bruciare la carne". E l'arte da un'estetica crudele - dalla carne esposta nelle macellerie di Francis Bacon ai corpi disfatti di Ciprì e Maresco, dalle violenze insensate di Arancia meccanica alle mutilazioni crudeli delle vittime della fiction Dexter -, non respingendo il caos ma componendolo e trasformandolo, 'forsennando' (Derrida) il linguaggio formale della mera rappresentazione, "crea un inquietante quanto seducente caosmos che lascia aperto il senso duplice della crudeltà", realizzando uno 'shock' (Benjamin), un 'urto' (Heidegger), che come un proiettile rompe una corazza protettiva.

lunedì 24 marzo 2014

la pubblicità come discorso morale

La tesi del bel saggio di Emanuele Coccia, Il bene nelle cose, è che le merci siano "la figura estrema del bene, l'ultimo nome che l'Occidente ha dato al bene" e, di conseguenza, che la pubblicità sia "un immenso esperimento dell'immaginazione morale collettiva contemporanea, quello assieme più vasto, più pervasivo, più visibile" e "un'immensa riflessione iconica e concettuale sul mondo e i suoi elementi, e assieme sulla felicità umana, le sue forme, le sue possibilità". Questo amore dell'uomo per le cose, quest'amore effimero di un uomo che vive di cose e per le cose, è affrontato dall'autore in modo interessante, originale e serio, evitando posizioni apocalittiche (moralistiche)  e indagandolo, invece, con "uno sguardo più indulgente e meno paranoico di quello dei maestri del sospetto e assieme più rigoroso"; ma non si cade, ovviamente, neanche in posizioni integrate. Si riconosce, piuttosto, che il desublimato universo morale della pubblicità è perfettamente analogo ad altre forme di morale pubblica, esposta sui muri o in spazi pubblici, che nulla hanno di tratti sublimi: "la celebrazione di una battaglia di sterminio di un popolo nei bassorilievi romani non è necessariamente più nobile e sublime che l'invito a riconoscere in una borsa il segreto della nostra felicità".   
Proprio dai muri parte l'analisi di Coccia, perché è su di essi che storicamente vita spirituale e vita materiale divengono inseparabili, è su di essi che si incarnano la memoria e l'autocoscienza di una città, che è soprattutto "un essere di superficie che non smette di darsi a vedere, di comunicare l'immagine di sé, di parlare di se stessa". Se la politica è la forma suprema di architettura (Aristotele) e l'architettura è sempre l'organo di un sogno pubblico, i muri sono "cosa politica" e "fantasmagoria diventata pietra" (Benjamin), sono lo "spazio di proiezione e di produzione fantasmagorica" pubblica e condivisa - tanto per scritture e immagini ufficiali, quanto per umori del popolo, opinioni individuali, proteste e ribellioni - nel quale insieme la città si costituisce materialmente e si fa autocoscienza, riflettendo su se stessa, sul proprio ethos collettivo e sulla propria moralità concreta (Hegel): "è in questo spazio che ogni cittadino apprendeva i saperi politici condivisi, le regole pubbliche, i valori civici universalmente riconosciuti, l'assiologia della polis". In questa antica tradizione di una "morale su pietra" si iscrive, dunque, la pubblicità, essendo l'ultima trasformazione di questo sapere pubblico del bene e del male che oriente le nostre scelte e definisce i nostri costumi. 
Ancora, secondo Coccia la pubblicità è il dialetto principale con cui le città della nostra epoca formulano la morale contemporanea che ha ormai "assunto il fatto che il destino dell'uomo è una vita tra le cose e che questa vita tra le cose non potrà, mai, essere trascesa". Essa è, quindi, il sintomo della rivoluzione morale che afferma la vita ordinaria, l'immanenza della felicità, la presenza del bene sulla terra, "un bene che coincide con l'infinità delle forme che la materia e gli elementi possono assumere", con le cose stesse, la loro forma e colore e profumo: "la pubblicità è la moralizzazione integrale del mondo umano". "Quella veicolata dalla pubblicità è una morale integralmente intramondana: non promette salvezza da questo mondo ma definisce i modi in cui le cose del mondo si fanno felicità oggettiva".

sabato 30 novembre 2013

da benjamin a wall-e (letture di novembre III)

Dopo Gioco d'azzardo e Regno senza grazia, mi son dato alla lettura di un altro saggio di Gianluca Cuozzo sulla Filosofia delle cose ultime. I temi sono ancora una volta quelli della società dei rifiuti e di un mondo senza più grazia da salvare, ma qui trattati forse con un maggior spessore filosofico, perché "in un mondo sopraffatto dai rifiuti, la filosofia ha il compito di assumere come proprio oggetto di indagine anche questa realtà imbarazzante e pervasiva, capace di colonizzare l'immaginario umano con incubi i cui protagonisti sono 'ratti e paranoia'". Così l'incipit del saggio, in cui l'autore da sapiente straccivendolo e collezionista cammina e avanza tra le rovine della storia e della società accumulando sacri e profani rottami di ogni cosa, filosofia, letteratura, cinema, arte, pubblicità.
Con questi pezzi tagliati, Cuozzo compone un puzzle in cui la spazzatura fa da controcanto osceno della produzione e del consumo, rappresentando l'inadempiuta utopia della società, le attese e le aspirazioni da essa disattese e tradite, la sua promessa inappagata di felicità. Le marginali cose ultime costituiscono un universo di aspettative ancora pulsante, mai quieto, pronto a tendere degli agguati alla nostra rappresentazione ideologica, delle schegge messianiche, brani divelti del tempo che aspettano che qualcuno li raccolga - usandoli nel modo giusto - per realizzare nel presente il loro potenziale salvifico.
Il filosofo, come il robottino della Pixar Wall-E - a sua volta versione post-moderna e tecnologica dell'angelo della storia di Walter Benjamin - ha il compito di (r)accogliere questa protesta caparbia e sovversiva contro ciò che è tipico, ordinario, classificabile secondo le convenzioni stabilite di ciò che è stato scartato e che potenzialmente insorge in una forma di contestazione - a un tempo anarchica e messianica - capace di liberare l'uomo dalla schiavitù nei confronti delle merci e dei beni di consumo, annunciando un possibile altro, un mondo diverso a venire.


domenica 28 aprile 2013

la società dei rifiuti

Nel suo saggio Gioco d'azzardo, Gianluca Cuozzo per illustrare la società dello spreco e i suoi miti - come recita il sottotitolo del volume - (ri)pesca immagini dell'inizio della modernità, come i dipinti fiamminghi di Bruegel e Bosch: "le zampette che trascinano l'uomo à la coque, con un coltello in esso già conficcato, verso il chierico mollemente disteso sotto l'albero della Cuccagna - come si può vedere nel dipinto di Pieter Bruegel Luilekkerland (1567) -, sono le stesse che, dopo il momentaneo appagamento, mettono il desiderio nella condizione di una rincorsa senza fine verso ciò che manca e che non può non alimentare la nostra brama di possesso"; mentre le oniriche "creature grottesche consistenti di sola testa e di sole fauci" che popolano l'impressionante Giudizio universale di Vienna (1482-1504) di Hieronymus Bosch rappresentano come tali desiderio e brama possano proseguire "finché non rimanga più nulla da ingurgitare che non sia la nostra stessa bocca da sfamare".

A rendere possibile e garantire tale "rincorsa senza fine" è la moda, che Günther Anders definisce come "il provvedimento di cui si serve l'industria per rendere i suoi prodotti bisognosi di essere sostituiti", sicché "ogni pubblicità è un appello alla distruzione" (L'uomo è antiquato II). Moda di cui Walter Benjamin riconosce il legame con la morte, il suo essere "nient'altro che la parodia del cadavere screziato, la provocazione della morte attraverso la donna e un amaro dialogo sottovoce con la putrefazione", ed è per questo, infatti, che "cambia così in fretta; solletica la morte e, quando questa si guarda attorno per sconfiggerla, essa è già diventata un'altra, nuova" (Parigi capitale del XIX secolo). Benjamin, del resto, al cui angelo della storia Cuozzo affianca, quale versione postmoderna e tecnologica, Wall-E, il robottino della Pixar che accumula rifiuti su rifiuti in un mondo devastato, e che ricordava e intimava come occorra "bonificare i terreni su cui finora è cresciuta solo la follia. Penetrarvi con l'ascia affilata della ragione. Ogni terreno ha dovuto una volta esser dissodato dalla ragione".

lunedì 6 febbraio 2012

filosofia nel juke-box

Nel saggio Tormentoni! Filosofia nel juke-box, Peter Szendy tenta di svelare l'arcano meccanismo con cui i tormentoni della musica pop producono attraverso il loro ascolto una inebriante, irrazionale e invincibile identificazione: «la più potente delle tentazioni provocata dal ritornello della canzone popolare» è quella di «avvolgersi, come in un vecchio cappotto, nella situazione che essa ci ricorda» (Benjamin). La canzone, quando prende la forma del motivetto da fischiettare e da canticchiare, è il genere per eccellenza che accompagna i nostri giri, le nostre azioni, le nostre passeggiate quotidiane.
Mentre l’unico e il cliché, l’incomparabile e l’interscambiabile, la psiche e il mercato, il singolare e il banale, sembrerebbero termini inconciliabili e incompatibili, i tormentoni musicali ci svelano inaspettatamente una paradossale e vertiginosa esperienza unica pur nella ripetizione e nella generalità dello stereotipo perché «ogni spettatore unico deve decidere da sé, deve fare da sé» (Kierkegaard). Il cliché, nella sua banalità interscambiabile, è tuttavia ogni volta unico per ognuno. Proprio quando, ascoltandoli, più nulla sembra possibile, i tormentoni vengono improvvisamente a snidare in noi ciò che di più segreto custodiamo: un momento passato, un istante che ci è caro, un’emozione o una pulsione inconfessabile, che appartengono solo a noi.
La melodia ossessiva, assillante (haunting) è come un fantasma che ritorna – con una singolare forza di apparizione e di reiterata irruzione (andirivieni spettrale) – a infestarci, come un tarlo o un virus nell’orecchio che non smette di riprodursi in noi, provocando una certa entusiasmante saturazione: cioè degli ingorghi e intasamenti nella circolazione interiore della nostra psiche, ma anche degli slanci di entusiasmo, dei voli lirici di un’incomparabile forza emotiva. Come dei fantasmi, come degli spettri, queste melodie vengono a tormentare: esse sono tormentoni, appunto, ossia grandi tormenti, ritornelli che abitano e assillano la vita di colore ai quali incessantemente ritornano.
I tormentoni hanno la forza di trascinamento e di raccoglimento propria degli inni: sono un inno intimo, una sorta di Marsigliese della psiche, incontenibile, compulsiva, impossibile da fermare; in ognuno di noi giocano il ruolo di un’Internazionale per delle intime commemorazioni (si confondono, così, le frontiere tra privato e pubblico). I tormentoni, insomma, diventano degli inni capaci di veicolare un’intimità inconfessabile e singolare, pur essendo al tempo stesso delle merci musicali perfettamente comuni, assolutamente equivalenti e indifferenti.
I tormentoni si fanno carico di ciò che si è cristallizzato in quanto vita o tratto di vita: ciò che ha preso forma diventando uno, unico, come una proprietà incomparabile. Un istante, un’estate, un anno divenuti incomparabilmente nostri. Quello che un gran numero di tormentoni canta e ci fa cantare è proprio la fama o la gloria di un momento spesso inconfessabile, in ogni caso singolare. A tutti noi il tormentone canta che… ah, no! non toccherà a me, io non sparirò certo così. Oh no, not I, I will survive. Il tormentone si costituisce come struttura di autoconservazione, esso si fa carico dell’affetto di ogni istante unico per ripeterlo all’infinito, capitalizza il tempo vissuto, qualsiasi esso sia, e quando ritorna quel momento singolare che il tormentone commemora, nella sua indifferente fedeltà a tutto e a niente, questo momento ritorna accresciuto degli interessi nostalgici di un io c’ero, ero lì, ecco ciò che ho vissuto come nessuno mai, ciò che è stato e che non sarà più. Nostalgia, malinconia di tutti i tormentoni.

giovedì 29 dicembre 2011

figure del conflitto

Della raccolta di saggi Figure del conflitto si salvano ben pochi articoli e spunti. Ma qualcosa sì. Tipo queste citazioni.

Varcare la frontiera è stato spesso sinonimo di conquista e di dominio, ma si tratta di un rischio insito in tutte le relazioni umane, quando a guidarle sono i rapporti di forza. Al contrario, il rispetto delle frontiere costituisce già di per sé un segno di pace. In se stesso quindi il concetto di frontiera indica la distanza minima tra gli individui, affinché questi possano comunicare fra loro come desiderano. Imparare la lingua dell'altro e i suoi codici significa stabilire con lui una relazione simbolica basilare, rispettarlo ed entrare in comunicazione: superare la frontiera. Una frontiera è fatta dunque per essere oltrepassata: è una soglia che invita al passaggio, non un muro che lo impedisce. (Marc Augé, Frontiere e globalizzazione)

L'essere umano è immerso nel mondo invece che presupporsi al centro delle sue metamorfosi. Farsi piccoli per sentire la grandezza. Spiritualizzarsi nella materia. Uscire dalla propria corazza autoritativa, esclusiva e contemplativa. Cercare la propria internalità nell'esternalità. Immaginarci fuori di noi, diffusi e disciolti in infiniti campi di forza. Destreggiarsi in essi. L'idea che le tecnologie siano protesi dell'umano, che queste protesi, frutto di intelligenza e strumento di lavoro sociale, entrino per ciò stesso a far parte integrale della natura umana. Invasato, una eccitazione che la persona che non riesce più a contenere dentro la pelle, la divisa, il costume e le mode di un comportamento sociale normalizzato. (Alberto Abruzzese, Senza titolo)

Auschwitz non è sacrificio, perché le vittime per i carnefici non avevano alcun valore: scarafaggi, come la creatura annientata nella Metamorfosi di Kafka. 
Benjamin aveva già detto che bisogna spezzare la falsa e aberrante totalità del simbolo per arrivare al frammento: il torso. Questa azione di decomposizione del mondo in frammenti è il processo stesso della significazione, per cui il senso sembra potersi dare soltanto attraverso rovine.  
Il sistema hegeliano che risolve dialetticamente il negativo, lascia ai suoi margini una "negatività senza impiego"; e io sono, dice Bataille, «esattamente questa negatività senza impiego». E dunque «la mia vita, la ferita aperta che è la mia vita - da sola costituisce la confutazione del sistema chiuso hegeliano».  
(Franco Rella, La filosofia e i possibili)
 
Un nuovo soggetto si è costruito, sia attraverso nuovi saperi, sia attraverso una nuova attività produttiva, divenuta sempre più ampiamente intellettuale e cooperativa. Il nuovo soggetto produttivo è immerso in una nuova temporalità che non ha nulla a che fare coi tempi della giornata lavorativa classica. Esso ha anche a che fare, inoltre, con una nuova mobilità nello spazio. Volendo continuare nella caratterizzazione di questo nuovo soggetto possiamo aggiungere che, a partire da questa condizione, qui si determina un nuovo regime di desideri, quindi nuove potenzialità costituenti.
(Antonio Negri, Sul concetto di rivoluzione) 

lunedì 4 luglio 2011

l'aura fumettistica

Dimmi, figliolo, conosci un critico che si chiamava Walter Benjamin? Scrisse un saggio che si intitolava L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Vedi, Benjamin si preoccupava della produzione di massa... stampa, fotografia... del modo in cui influenza l'aura dell'arte. Guardare una foto della Monna Lisa su una rivista è come vedere il dipinto vero al Louvre? Copiare l'arte ne cambia l'essenza artistica?
"Quel che si atrofizza nell'epoca della riproduzione tecnica è l'aura dell'opera d'arte". E poi, più avanti "Si potrebbe dire generalizzando che la tecnica di riproduzione distacca l'oggetto riprodotto dal dominio della tradizione. Creando riproduzioni, essa sostituisce una pluralità di copie a un'esistenza unica". Argomento affascinante, no?

Così ragiona il mutante degli X-Men Nightcrawler, riprodotto nel disegno, su X-Men: Divided We Stand 1 del giugno 2008, in Wolverine 231 dell'aprile 2009.

Segnalato da Dreca. Visto in cosa ci si può imbattere leggendo fumetti?

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