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sabato 12 ottobre 2013

letture di ottobre (I)

Ancora il corso su moderno e postmoderno, e la tappa di questa parte riguarda Horkheimer, Adorno e Foucault.
Di Michel Foucault mi è toccata una doppia razione. Prima, la lettura di Che cos'è l'illuminismo?, un breve articolo in cui il filosofo francese rileva l'importanza dell'omonimo scritto di Kant nel suo essere - con il suo riflettere sul proprio presente, sulla pura attualità, sul momento singolare in cui si scrive e a causa del quale si scrive, sull'oggi quale motivo per un compito filosofico particolare - l'abbozzo di ciò che si può chiamare l'atteggiamento moderno, consistente nell'assumere se stessi come oggetto di un'elaborazione complessa e ostica, in un'indagare archeologico e genealogico le contingenze che ci hanno fatto essere quello che siamo e la possibilità di non esserlo, farlo o pensarlo più, rilanciando un indefinito lavoro di libertà. Allo stesso tempo, l'articolo di Kant è la giustificazione della più vasta e complessa elaborazione filosofica sviluppata nelle tre Critiche: esse hanno il compito di definire le condizioni di possibilità in cui l'uso della ragione è legittimo per determinare ciò che si può conoscere, che si deve fare, che è permesso sperare, nel momento in cui la ragione, con l'illuminismo, è divenuta "maggiorenne". Seconda, quella di Storia della follia nell'età classica, nella sua parte iniziale sul "grande internamento": la tracciatura di una linea di separazione ben marcata tra ragione e follia che passa per l'istituzione delle grandi case di internamento per poveri, disoccupati, corrigendi e insensati - a un tempo luoghi di assistenza e repressione, beneficio e punizione, ma legati a nessuna idea medica quanto piuttosto a un'istanza di ordine e a un esercizio di riforma e coercizione morale (stupefacente sintesi di obbligo morale e legge civile, morale impartita per via d'assegnazione amministrativa)  -, assecondando l'idea borghese secondo cui la virtù è un affare di Stato e la repubblica del bene va imposta con la forza a tutti quelli sospettati di appartenere al male. Insomma, prigioni dell'ordine morale fondate sull'idea che se si è riusciti a sottomettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l'uomo che si è fuorviato.

Per Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, invece, la lettura è stata quella di Dialettica dell'illuminismo. "La terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura" che irradia da una ragione che ha divorziato dalla verità per l'operatività e il procedimento efficace, che ha rinunciato al significato e sostituito il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità. Per i due filosofi della Scuola di Francoforte "l'illuminismo è totalitario", impone un dominio integrale, patriarcale e livellatore (dell'astratto e dell'industria) che segna il trionfo dell'uguaglianza repressiva, il dispiegarsi dell'uguaglianza giuridica in ingiustizia inflitta, dispiegarsi che è una degenerazione che ha luogo quando "la giustizia si perde nel diritto". L'umanità moderna e illuminata ha dovuto sottoporsi a una serie di spaventosi trattamenti perché nascesse e si consolidasse "il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo". Il risultato, però, è stato quello di un pensiero reificato e trasformato in un processo automatico, dell'accantonamento dell'esigenza classica di "pensare il pensiero", quest'ultimo ridotto, invece, in cosa e strumento, limitato a compiti organizzativi e amministrativi degni di ottusi e ingenui direttori generali.

lunedì 21 maggio 2012

critica come passione durevole

Il libro vorrebbe essere una professione di libertà, e più precisamente una rivendicazione della propria consapevole scelta di insubordinazione ragionata, di rifiuto di partecipare alla propria stessa alienazione all'interno della gabbi d'acciaio globale, seguendo l'invito di Horkheimer a evitare la "pacificazione personale del filosofo in un mondo disumano" (Teoria tradizionale e teoria critica).
Occorre subito chiarire che l'orizzonte in cui ci muoviamo è costituito dal rifiuto incondizionato del proprio mondo storico e dalla complementare tensione verso un futuro diverso e migliore, seguendo le suggestioni della blochiana "ontologia-del-non-ancora". A differenza della fede, che rende inattivi e induce alla docile accettazione del "mondo-così-com'è", il principio di speranza è antiadattivo e rivolto alla prassi: spezzando la mistica della necessità e facendo balenare l'idea di un futuro alternativo, esso, con il suo "ottimismo militante", risveglia dal torpore e spinge a un'azione orientata a far sì che il futuro intenzionato trovi cittadinanza tra le pieghe del reale. Il principio di speranza ci ricorda che l'"essere-secondo-possibilità" è la stoffa di cui è intessuto il reale e che, di conseguenza, si dà sempre l'opportunità di "essere-diversamente-da-come-si-è", di riprogrammare la sintassi del mondo quand'anche esso, come oggi accade, venga proclamato intrasformabile.
Nel contesto dell'odierna alienazione globale, non esiste alcuna etica possibile se non di opposizione e di resistenza, un'etica cioè che, ispirata al monito di Adorno circa la falsità dell'intero, dia luogo a un consapevole rifiuto della totalità in cui si è proiettati. In questa strategia foucaultiana di "indocilità ragionata" (Illuminismo e critica), di consapevole disobbedienza all'ordine del mondo e di rivendicata libertà di "dire-di-no", sono nostri preziosi alleati tanto il Marcuse del "Grande Rifiuto" quanto il più prosaico scrivano Bartleby e il suo ostinato I would prefer not to. Si tratta di maturare una coscienza infelice rispetto all'esistente che permetta di "innalzarsi sopra la propria particolarità" empirica e di "dar luogo a una passione durevole", critica e antiadattiva, che induca all'adesione alla propria potenziale universalità emancipata, invocando - secondo la prospettiva di Bloch - "ciò che non c'è ancora, cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale" (Spirito dell'utopia).

(Diego Fusaro, Minima mercatalia)

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