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sabato 29 giugno 2013

una vita da portiere (di calcio)

"Ho capito ed imparato subito che la palla non arriva mai da dove te l’aspetti. Mi è servito più tardi, nella vita, soprattutto a Parigi, dove non ci si può fidare di nessuno. Dopo tanti anni, dopo avere visto tante cose, quello che so di più certo sulla moralità e sul rispetto degli uomini, sul dovere e sui diritti, mi viene dallo sport e l’ho imparato nel Racing"

(Albert Camus, 1957).


mercoledì 7 dicembre 2011

per un attimo, la verità

Ne Il Signore del Silenzio, albo 39 della serie Dylan Dog, compare il libro della Verità di Uskebasi, il più grande filosofo dei tempi di Salomone, cui il Re d'Israele aveva dato il compito di scoprire il senso della vita. Dopo trentanni di riflessione, il filosofo aveva prodotto un poderoso tomo ma il Re, venuto a conoscenza della verità in esso contenuta, la ritenne talmente atroce che pensò se ne potesse benissimo fare a meno. Così, si legge nella serie a fumetti, «ancora una volta, come fece Salomone, scacciamo Uskebasi con la sua tremenda risposta! E che la morale sia non chiedersi mai qual è il senso della vita». Commenta Roberto Manzocco, autore del saggio sulla filosofia dylaniata, «la vita non ha alcun senso, cioè è assurda; una volta portata fino alle sue estreme conseguenze, la riflessione sullo scopo dell'esistenza non può che avere un unico, terribile sbocco: il suicidio». Esplicitamente nell'albo 23 della serie dell'Indagatore dell'Incubo viene affermato che «la consapevolezza di vivere e pensare è atroce, se ti assale all'improvviso» e, infatti, il dramma esistenziale di Lancaster, personaggio dell'episodio, è che «lui sa cos'è la vita, e per questo vuole morire» (L'isola misteriosa).
I riferimenti letterari riportati dall'autore a pseudobiblia che, come quello di Uskebasi, inducono al suicidio chi entra in contatto con il loro contenuto orrorifico, vanno dal racconto Il riparatore di reputazioni di Robert William Chambers, a quello di Ambrose Bierce An Inhabitant of Carcosa, dal romanzo dello scrittore praghese Leo Perutz Il maestro del giudizio universale, a Howard Phillips Lovecraft che nell'incipit de Il richiamo di Cthulhu scrive: «Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l'incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che fi­nora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arreca­to troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d'insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occu­piamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura». La vita sarebbe assurda, un atroce scherzo senza uno scopo.
Il riferimento filosofico più evidente è, invece, quello alla saggezza silenica – che l'autore richiama solo molto più in là nel volume, in un altro contesto – ricordata da Nietzsche ne La nascita della tragedia: «Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto».
Altro riferimento filosofico, ricordato da Manzocco e riconosciuto all'interno della stessa serie, è quello ad Albert Camus e al suo Il Mito di Sisifo, che così inizia: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto viene dopo». Se si accetta, con Camus, che, nonostante tutto, Sisifo è felice, ecco un'altra strategia esistenziale proposta da Dylan Dog, oltre al richiamo al sogno e alla fantasia, per affrontare la realtà.
Infine, Manzocco chiama in causa Jean-Paul Sartre, secondo cui, afferma l'autore, «l'essenza dell'uomo consiste nell'impulso o nella brama di superare la contingenza, e di rendere se stesso un ente necessario». Ma tale sforzo non può che essere assurdo: «Tutte le attività umane sono equivalenti – perché tendono a sacrificare l'uomo per far nascere la causa di sé – e tutte sono votate per principio alla sconfitta. Così è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare popoli» (L'Essere e il Nulla). L'esistenza umana è fondamentalmente gratuita, contingente, di troppo, non si è necessari e non si costituisce «una parte inemendabile dell'arredamento ontologico del mondo».
Il libro di Uskebasi deve contenere una concezione analoga a quelle fin qui illustrate.

martedì 5 luglio 2011

oh mio dio! hanno ammazzato kenny... di nuovo

Albert Camus scrisse Il mito di Sisifo. Per Camus tutti noi, come Sisifo, siamo intenti quotidianamente a spingere una roccia fin sulla cima di una collina, per poi vederla rotolare di nuovo a valle, e sappiamo che il giorno dopo dovremo rifare la stessa cosa. Per Camus bisogna affrontare l’assurdo e accettarlo.

Anche la vita e la morte di Kenny di South Park possono essere viste come un’espressione dell’assurdo. Il compito di Kenny è morire e, per lo più, la gente ride o non lo nota, punizione assurda e priva di senso come il compito di Sisifo. L’atteggiamento indifferente verso la morte di Kenny è l’atteggiamento dell’assurdo perché riflette l’indifferenza dell’universo nei confronti della mortalità umana. Quindi, come Sisifo che spinge il masso tutti i giorni, Kenny deve affrontare il suo destino senza trovare una consolazione nelle risposte. Egli viene ucciso solo per essere resuscitato e poi di nuovo ucciso. Come Sisifo, deve spingere tutti i giorni lo stesso masso, senza una ragione confortante del perché la sua vita non abbia senso. Anche se non moriamo continuamente come Kenny, tutti noi gli assomigliamo poiché dobbiamo affrontare l’assurdità della vita.
Per Camus Sisifo è un eroe perché, cosciente della sua condizione assurda, sceglie di affrontarla e accettarla e così è più forte del suo macigno: comprende che la vita non ha alcun significato intrinseco, tuttavia continua a vivere. Camus definisce tale posizione come una rivolta poiché l’assurdo viene compreso ma non si cede alla rassegnazione. Sisifo dice “sì” al suo destino e non lo rifiuta, non si dispera né pensa di potersi sottrarre a esso, è privo di illusioni e non cerca consolazione in storielle confortanti riguardanti il significato della vita. La lotta di Sisifo gli appartiene sino in fondo e sta a lui deciderne il valore poiché non ci saranno mai risposte riguardanti lo scopo della vita. Sisifo dice “sì” al suo compito assurdo, proprio come Kenny sembra accettare la sua funzione comica: continua, come Sisifo, a dire “sì” al suo compito e dà un significato a se stesso, nonostante l’assurdità della vita.



(da Karin Fry, Oh mio Dio! Hanno ucciso Kenny… di nuovo. Kenny e l’esistenzialismo, in South Park e la filosofia)

venerdì 29 aprile 2011

un anime per tutti e per nessuno (2di2)

Per l’ultimo angelo, il diciassettesimo, Tabris, la missione, come per i suoi simili, è arrivare nel cuore sotterraneo di Neo Tokyo 3 per entrare in contatto con Adam – il principio –, scatenando così, però, la fine del mondo e l’estinzione della razza umana. Non ha scelta, deve farlo, come hanno provato a farlo gli altri Angeli prima di lui.
Che scelta si ha? Scegliere è assurdo, non c’è azione moralmente migliore e, per dirla con Sartre, ai fini dell’essere «è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli» (L’essere e il nulla). Essere Angelo o essere umano è ugualmente assurdo, ma se gli Angeli, che compulsivamente sono attratti dal sottosuolo di Neo Tokyo 3, sembrano non possedere il libero arbitrio, gli esseri umani sembrerebbero averlo a portata di mano. Eppure alla domanda “perché piloti l’Eva?” Shinji non sa rispondere. Cosa rimane dunque? La morte, anzi la possibilità della morte.
Una volta arrivati al cuore di Neo Tokyo 3, dopo uno scontro con l’Eva 01, l’angelo Tabris scardina le regole e sceglie, si fa responsabile del suo destino e si libera: l’Angelo sceglie di suicidarsi – lasciandosi stritolare dall’Eva 01 – per affrancarsi dalle catene dell’eternità e della non scelta, per stanchezza, un grado di spossatezza così elevato da portare all’abolizione dello spirito di sopravvivenza e di autoconservazione.
L’assurdità della vita e l’altrettanto assurdità di quella finzione che chiamiamo male non hanno modo di essere affrontate in chiave morale? Vale la pena lottare, anche quando spingere il masso su per la collina è impossibile? Davvero Sisifo è felice? (Albert Camus, Il mito di Sisifo).
L’istinto di conservazione, la volontà di vivere, non sono una mera questione di specie, ma sono il fulcro stesso dell’individualità e Shinji fa un passo da oltreuomo scegliendo, innescando la volontà di potenza. Il corpo appena abbozzato del ragazzo fluttua nel vuoto, un tratto disegna una linea che fa da terreno: «Guarda, con questo sono nati il sopra e il sotto. Però, con questo è sparita una libertà. Ora sei costretto a stare in piedi sul sotto. Però, questo ti tranquillizza. Perché il tuo stesso animo ha ottenuto un po’ di semplificazione. E così puoi camminare. Tale è la tua volontà. Il mondo che ti circonda è il mondo in cui esistono il sopra e il sotto. Ma in questo mondo tu puoi camminare liberamente. E se lo volessi, potresti anche cambiare la posizione del mondo. Quindi anche la posizione del mondo non resta sempre la stessa. È qualcosa che muta nello scorrere del tempo. E anche tu stesso puoi cambiare. Poiché a dare forma a te stesso sono il tuo stesso animo e il mondo che lo circonda. D’altronde, questo è il tuo mondo. È la forma della realtà che tu percepisci. Senza un altro essere distinto da te stesso, tu non puoi comprendere la tua stessa forma. È nel guardare la forma delle altre persone, che si conosce la propria forma. È nel guardare le mura tra sé e le altre persone, che si conosce l’immagine della propria forma. Senza l’esistenza delle altre persone, tu stesso sei invisibile a te stesso. Prendendo coscienza delle differenze tra te e gli altri, dai forma a te stesso». Shinji, individuo, sceglie, sceglie di vivere, di affermare la sua particolarità, nonostante l’assurdo, nonostante l’illusione, e manda in frantumi il Progetto per il perfezionamento dell’uomo con il quale la SEELE si apprestava ad affrontare l’Armageddon – l’unico modo per scongiurare l’estinzione della razza umana è costringerla a evolvere, a uscire dal tempo e ricercare una nuova eternità, a compiere un salto verso un unico essere di natura divina, un’unica forma di coscienza che elimini gli individui, che elimini l’altro, inverta l’AT-Field così che i confini dell’individualità siano aboliti.
In questo è sartriano. Allo stesso modo, la scelta di Shinji è una rivolta, e in questo è camusiano. Tornando alla sua individualità, scegliendo di vivere, esercita la volontà di vivere, quella che agli Angeli è sconosciuta, e si ritrova proprio nella condizione di Sisifo, in lotta ma felice. La rivolta di Shinji – un percorso inverso rispetto a quello della SEELE – ha un valore individuale e al contempo universale: è il dovere morale della rivolta nonostante l’assurdo.

(da Jadel Andreetto, Neon Genesis Evangelion (Un anime per tutti e per nessuno), in Pop Filosofia)

venerdì 22 aprile 2011

sisifo è felice

Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza.
I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi. In quanto a quello di cui si tratta, vi si vede soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l'enorme pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cento volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza cielo e dal tempo senza profondità, la meta è raggiunta. Sisifo guarda allora la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.
È durante questo ritorno, questa pausa, che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra egli stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. E' più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo.
Se codesta discesa si fa, in certi giorni, nel dolore, può anche farsi nella gioia. Questa parola non è esagerata. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. Una sentenza immane risuona allora: "Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dell'anima mia mi fanno giudicare che tutto è bene." L’Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime così la formula della vittoria assurda. La saggezza antica si ricollega all’eroismo moderno.
“Io reputo che tutto è bene” dice Edipo e le sue parole sono sacre e risuonano nell'universo selvaggio e limitato dell'uomo, e insegnano che tutto non è e non è stato esaurito, scacciano da questo mondo un dio che vi era entrato con l'insoddisfazione e il gusto dei dolori inutili. Esse fanno del destino una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimenti, l'uomo assurdo, quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli. Nell'universo improvvisamente restituito al silenzio, si alzano le mille lievi voci attonite della terra. Non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo assurdo dice sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo si volge verso la propria vita, Sisifo, tornando al suo macigno, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Quest'universo, ormai senza padrone, non gli appare né sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.

(da Albert Camus, Il mito di Sisifo


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