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sabato 30 agosto 2025

nietzsche in solo leveling

Oltre che nei romanzi fantascientifici di Warhammer, Friedrich Nietzsche è citato anche in un anime di cui ho recentemente recuperato la visione, Solo Leveling. Si tratta di una serie sudcoreana scritta e illustrata da Chugong, che narra le vicende dell'Hunter Sung Jinwoo e delle prove che deve affrontare per diventare più forte.

Ancora una volta, è citato l'aforisma nietzscheano della lotta coi mostri e dello sguardo nell'abisso. Inoltre, successivamente, si cita il detto per cui ciò che non ci uccide ci rende più forti.



venerdì 29 agosto 2025

nietzsche nel xxxi millennio

Ho sempre praticato l'universo fantasy di Warhammer, ma da un anno ho iniziato a addentrarmi anche in quello fantascientifico, leggendo un po' di lore in romanzi e manuali, e ovviamente acquistando qualche miniatura. In particolare, sto leggendo la saga The Horus Heresy, ambientata nel XXXI millennio, cioè 10.000 anni prima del classico Warhammer 40K. Nel quarto volume che sto concludendo di leggere, scopro che Friedrich Nietzsche è ancora almeno in parte noto a quell'altezza storica, sideralmente lontana dall'oggi, perché se ne cita un aforisma. 
Riporto qui il passo.

Era impossibile comprendere la natura dello spazio warp. L'oceano agitato e ribollente di non-materia grezza era psicoattivo. Era in egual misura un prodotto della psiche di coloro che lo osservavano e una distesa mutevole animata di volontà propria. Una volta, sulla Terra Antica, un filosofo aveva detto che se un uomo avesse guardato troppo a lungo nell'abisso, l'abisso avrebbe guardato in lui. Mai come nell'immaterium quel detto si dimostrava veritiero. Il warp era uno specchio delle emozioni di ogni essere vivente, un mare di turbolenti echi cognitivi, i filamenti oscuri di ogni desiderio nascosto e di ogni sofferenza inconscia mescolati insieme in una massa grezza e disordinata. Ser fosse stato possibile usare una singola parola per descrivere la natura del warp, quella parola sarebbe stata caos.
Il warp era cambiamento. Era una scatenata e febbrile assenza di ragione.



martedì 25 febbraio 2025

ribellione, non rivoluzione

Nel raccontare con In ogni caso nessun rimorso la vita rocambolesca e le ferme opinioni di Jules Bonnot, Pino Cacucci immerge il lettore nell'esistenza di uno dei milioni di senza lavoro che l'Europa degli inizi del secolo, così presa dalle conquiste coloniali e dalla frenesia della Belle Epoque, teneva a bada con crescente difficoltà, affidandosi all'incessante opera delle squadre antisommossa e alle bande di pistoleri al soldo dei grandi industriali.
Jules Bonnot ha un cuore maledetto, che aveva pompato per anni un sangue schiumoso di sensazioni dolorose, riempiendo le arterie di rancore per le umiliazioni, le stesse che tanti sopportavano senza impazzire, mentre in lui avevano provocato una sete di vendetta inestinguibile. Ha un fuoco nelle viscere, che gli bruciava dentro fin da bambino, alimentato dalla fame, dalle bastonate, dall'inutilità di qualsiasi sforzo compiuto per sfuggire al marchio della miseria, quel fuoco acceso da una sensibilità nefasta. Ha occhi che sono nemici della sua sopravvivenza, perché non possono non soffermarsi su ogni cosa servisse a trarne sofferenza, rifiutandosi di scorrere sulla vita come davanti a uno spettacolo estraneo. Tutto questo lo porta a essere uno di quegli uomini diversi dagli altri, da tutti quelli che rimangono a capo chino fino all'ultimo dei loro giorni, in una rassegnazione muta.

"L'umanità si sacrifica per certe idee fisse, quali la verità, la giustizia, il dovere... che considera come ideali. Bisogna distruggere le idee fisse. La mia causa non è universale, bensì unica, come unico è ciascun individuo... Vero è ciò che è unico, falso ciò che non mi appartiene, e falsi sono la società e lo stato, a cui tu dai la tua forza e da cui sei sfruttato."
Jules sottolineò il paragrafo con il lapis e richiuse il libro: L'unico e la sua proprietà, di Max Stirner, il filosofo teorico dell'anarchismo individualista. La copertina sdrucita era cosparsa di macchie e ombre: l'unto e il sudore delle sue dita, che erano tornate ancora una volta a immergersi nel grasso dei motori. La fiamma della candela tremolava, si innalzava e si abbassava bruscamente, segno che la cera mista a sego stava esalando gli ultimi respiri. Forse aveva ancora dieci minuti di luce, prima che l'agonia dello stoppino volgesse al termine. Riaprì il libro e cercò il capitolo che aveva letto almeno dieci volte, segnandolo con un punto esclamativo accanto al testo.
"Rivoluzione e ribellione non vanno considerate sinonimi. La prima consiste nel rovesciamento dello status quo, dell'ordine costituito, ed è quindi un atto politico e sociale. La seconda, pur avendo come inevitabile conseguenza una trasformazione dello stato di cose esistente, non nasce da questo, bensì dall'individuale scontento degli uomini. Non è una rivolta armata, ma un insorgere di individui, un ribellarsi, senza alcun pensiero alle conseguenze che ne potranno derivare. La rivoluzione mira a un'organizzazione nuova; la ribellione ci porta invece a non lasciarci più organizzare, ma a organizzarci da soli, e non ripone fulgide speranze nelle istituzioni... La rivoluzione ci comanda di creare istituzioni nuove; la ribellione, di sollevarci e innalzarci."
"Ribellione", mormorò Jules adagiandosi sulla branda. Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté, avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori, sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner "l'intelletto più fertile della sua epoca", pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu distratto dall'idea che in quella lurida soffitta ci fossero le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio delle cimici. Jules sospirò e subito fu preso da un attacco di tosse- Quella maledetta polvere. Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della socialdemocrazia, quando l'unico scopo era costruire cannoni per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare i muscoli ai vicini europei. No, non c'era speranza nella rivoluzione. La ribellione era un'altra cosa.
Gli tornò alla memoria Gaetano Bresci. Tre pallottole nel petto del re, un re così galantuomo da aver dato una medaglia al generale Bava Beccaris, per le sue cannonate sui dimostranti. La sua era stata fin dall'inizio una missione suicida. In quanto ai re, hanno sempre i loro figli a cui passare lo scettro e il comando dei cannoni da puntare sulla folla. Niente era davvero cambiato. Ma, in definitiva, c'era un modo concreto per cambiare qualcosa? Servivano, forse, micidiali bombe? Ma le stragi di borghesi e poliziotti avevano offerto al potere l'occasione di sobillare l'opinione pubblica a tal punto da consentire il varo di leggi degne della peggiore tirannide, che davano a polizia e magistratura illimitati poteri nella persecuzione dei "sovversivi".
L'azione, non restava che l'azione. Ma senza immolarsi, senza rivendicarla, senza offrire la gola ai mastini. Colpire gli sfruttatori amanti di ghigliottine e champagne in ciò che più stava loro a cuore: il denaro. Non per arricchirsi, ma per restituire un po' del terrore che distribuivano, illusi di restarne al riparo. Non con le bombe, ma con le armi in pugno, per riprendersi una parte di tutto quello che sottraevano a milioni di disperati come lui. O forse, soltanto per il gusto della vendetta.

sabato 5 marzo 2022

nietzsche e l'antifilosofia [3]

Un argomento ancor più essenziale concernente la difficoltà d’interrogare il testo nietzscheano è che la causa centrale della sua impresa non è altro che Nietzsche stesso. È una singolarità filosofica davvero sorprendente. È Nietzsche stesso a trovarsi al cuore del proprio dispositivo in quanto principio di valutazione centrale della propria impresa. Vi si convoca da sé e chiama noi come testimoni. Non è soltanto un autore, ma è lui stesso un pezzo di testo, e un pezzo strategicamente centrale. Ricordatevi di quel
Nietzsche contra Wagner:
la follia può essere la maschera per un sapere infelice troppo certo.

Ciò che è depositato in questo enunciato come principio immanente alla propria valutazione è un regime della certezza soggettiva assoluta, una tensione del pensiero, un sapere troppo certo, un sapere in eccesso su se stesso tramite la propria tensione che vale come prova. È l’argomento centrale della disposizione del testo stesso, il testo nietzscheano è il depositario di un eccesso. Esso è ciò in cui tale eccesso si deposita e Nietzsche non ha nulla in contrario, in fondo, nel chiamarlo “follia”, nella misura in cui questa non è altro che la maschera di un sapere infelice troppo certo. Questo eccesso è una sovratensione della verità, una verità esposta nel regime di un’appropriazione così radicale o così tesa che essa è, di per sé, la propria esposizione provocante. Per quanto appassionato possa essere nella propria sincerità, Nietzsche è di quelli che sanno. “Conosco la mia sorte”, dice alla vigilia della sua caduta,

un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. (Ecce homo)

Conosce il pericolo a cui s’espone; sa che il suo pensiero ruota attorno a questo centro pericoloso e tragico che, chiaramente, annienterà la sua vita. Il grado di rischio nel quale un uomo vive con se stesso è per lui la sola misura valida di ogni grandezza. Soltanto colui che rischia sublimemente la propria vita può guadagnare l’infinito. Cosa importa se il costo è la vita, visto che raggiunge la verità. La passione è più dell’esistenza, il senso della vita è più della vita stessa. Il testo è lì solo per accogliere e al tempo stesso placare quest’eccesso. L’accoglie. Questa sarà la sua dimensione di tensione e di prova interna, ma lo calma e lo inscrive.


Allora, nella misura in cui il testo è depositario di un eccesso su di sé della verità, questa disposizione si attesterà nella sua forma o nel suo stile. Ciò che è sottratto all’argomento deve necessariamente ritrovarsi o superarsi, in quanto eccesso su di sé del vero, nella potenza della forma. Ciò che varrà come prova per la verità è esattamente questa potenza tale per cui la prosa la capta o l’organizza nel registro della sua forma. Nel suo ruolo organicamente filosofico, la poesia testuale nietzscheana è dunque contemporaneamente la possibilità della verità e la possibilità di sopportarla. È la sua potenza e la possibilità di sopportare tale potenza. In quanto poeta o filosofo-artista, in preda alla propria scrittura, Nietzsche è la via della verità che egli proclama. Bisogna esporre la verità come vita, e non come argomento convincente. Ma esporla come vita vuol dire esporre se stessi. Questa esposizione consiste nella poetica stilistica.

Nietzsche è colui che ha spinto all’estremo l’imperativo di parlare rigorosamente a proprio nome. D’altronde, c’è una connessione eclatante fra ciò che egli intende con “parlare per se stesso” e ciò che Lacan vuole dire con la formula “non cedere sul proprio desiderio”. Se quest’ultima massima evoca qualcosa nella storia della filosofia, Nietzsche ne è chiaramente l’incarnazione quando dice di essere o d’installarsi al cuore del proprio enunciato, al punto che l’espressione “non cedere” verrà naturalmente alla sua penna in Ecce homo:

il mio istinto si decise inesorabilmente a finirla di cedere [...] di procedere con altri, di scambiarmi con altri [...]. Io ho un dovere [...] e cioè quello di dire: Ascoltatemi! Perché sono questo e questo. E soprattutto non scambiatemi per altro!

È veramente di “non cedere” che si tratta, in maniera tale da essere ben convinti di ciò che si enuncia, dal momento che lo si enuncia in quanto se stessi, nel desiderio al quale si è coestensivi. Conquistare la possibilità di prendersi per se stessi è l’autentica posta in gioco del “dire filosofico”.

Parlare a proprio nome, prendersi per se stessi, si unisce a una convocazione del vero come figura della decisione, e non in quella dell’esteriorità o dell’adesione. La verità è sempre all’interno del registro della decisione.

Io per primo ho il metro per le “verità”, io per primo posso decidere. (Ecce homo)

Il che significa sempre anche: io sono il primo che parla [la verità], e io la decido, non all’interno del regime dell’approvazione o dell’argomentazione, ma in quello dell’enunciazione, perché è l’enunciazione che collega la verità alla sua potenza. C’è una decisione di verità, ma non c’è nulla che sovrasti questa decisione per garantirla o autorizzarla. Si autorizza soltanto da sé.

Ne consegue che la verità si dà sempre come figura del rischio, al contrario di ogni figura di saggezza o di contemplazione. Il problema consisterà interamente nel sapere ciò che si è capaci di sopportare. Non è la questione della ricerca [della verità] o della sua contemplazione, ma quella della maniera in cui la si tollera. La verità è, in parte, una questione di sofferenza. Una sofferenza che [Nietzsche] s’infligge, ma non nel senso redentore o cristiano, ovvero nel senso che occorre soffrire affinché dal fondo di questa sofferenza giunga la redenzione salvifica. No, è unicamente per sapere quale animale sono.

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più. (Ecce homo)

Una verità non è mai ciò che si argomenta o si discute, ma ciò che si dichiara. Ogni verità si dà nella figura rischiosa di una dichiarazione, il cui principale testimone è il soggetto stesso dell’enunciazione nella sua capacità di sopportare, di reggere ciò che dichiara. Questa figura, a dispetto della sua somiglianza, è in realtà l’opposto della figura del martire.

Il dire autentico, vero, dunque il diro filosofico-artistico, è l’esposizione dell’enunciazione come rottura, l’esposizione dell’elemento del terribile come rottura interna al dire stesso. Ora, ogni volta che si verifica un’esposizione integrale dell’enunciazione come rottura, ciò coinvolge l’umanità intera, anche se questo coinvolgimento non riguarda che uno soltanto dei suoi punti. È in gioco la sorte dell’intera umanità. Ecco perché Nietzsche può dire: porto sulle spalle il destino dell’umanità senza che per lui questa frase sia esagerata o delirante. Semplicemente, infatti, è in procinto di stabilire un regime di discorso senza scarto fra colui che dice e ciò che è detto. È ciò che potremmo chiamare, con termini lacaniani, il punto di capitone della storia del pensiero.


[Alain Badiou, Nietzsche. L'antifilosofia 1. Seminario 1992-1993]

sabato 12 febbraio 2022

nietzsche e l'antifilosofia [2]

Il vettore di questo seminario sarà Nietzsche. Lo abborderemo attraverso tre obiettivi:

  • Per cominciare, tentare d’individuare la statura del testo nietzscheano, d’interrogarne l’essenza filosofica.

  • In seguito, domandarsi in quale misura il XX secolo sia stato nietzscheano. Da Heidegger a Deleuze si dirigerà, mi sembra, una sorta di arco o di scarto massimale attorno alla questione della contemporaneità di Nietzsche.

  • Infine, si tratterà di determinare la natura del rapporto fra la filosofia e l’arte. All’annuncio hegeliano della fine dell’interesse filosofico per l’arte, in opposizione a questo, si è avviata, a partire dall'inizio del XIX secolo, una vigorosa promozione dell’arte come condizione radicale del pensare. L’arte è innanzitutto, per Nietzsche, un tipo soggettivo. Prima e più essenzialmente dell’opera, l’arte è la figura dell’artista. Rispetto al quale Nietzsche disegna il tipo del filosofo-artista, che non è o non è più il prete. È la questione dell’arte come figura di verità. Essendo l’arte, nel mio linguaggio, una procedura generica, come ogni procedura di verità.

La mia strategia in questo seminario consisterà dunque nell’intrecciare queste tre interrogazioni: topica, storica e generica.


Interrogare il testo nietzscheano suscita poi un’altra difficoltà. Quella di sapere cosa vuol dire con esattezza utilizzare il testo nietzscheano. O più precisamente: quale domanda possiamo rivolgere a un testo siffatto? Il testo è qui, ma non è aperto. Non si dà nella forma della proposizione: espone più di quanto non proponga. Il montaggio nietzscheano non è un montaggio in cui la negazione precederebbe o costituirebbe la possibilità dell’affermazione. Al contrario - ed è un punto che Deleuze sottolinea con grande pertinenza -, c’è una sorta di stallo, di distacco singolare fra la dimensione negativa, critica, o, diciamo, distruttiva, e il regime della serenità affermativa che Nietzsche chiama il “Grande Meriggio”. O ancora, se volete, il testo nietzscheano non è per nulla dialogico. Nietzsche è un pensatore che espone il proprio pensiero attraverso una figura sottratta tanto alla dialogicità quanto alla dialettica. Il sottotitolo del Crepuscolo degli idoli ce lo ricorda: Come si filosofa col martello. Un colpo di martello non è affatto ciò cui si rivolge una domanda. Il colpo di martello è contemporaneamente ciò che deve distruggere quel che merita di esser distrutto e ciò che deve conficcare il chiodo dell’affermazione primordiale. Su quest’incudine arroventata dal fuoco della potenza si forgia sempre più duramente, intensificata a ogni colpo, la formula che poi corazza di bronzo il suo spirito, quella della grandezza dell’uomo. Si può anche dire che il dispositivo nietzscheano consiste nel disfare il regime argomentativo. Ricordatevi della massima decisiva nel Crepuscolo degli idoli e della sua forza d’urto:

quel che si limita a lasciarsi dimostrare ha poco valore.

Bisogna intenderla in senso forte: è un giudizio essenziale, perché, beninteso, il valore, la valutazione è appunto l’operazione-chiave in Nietzsche. La sua filosofia è fondamentalmente una filosofia della valutazione, della trasvalutazione. Dal momento che la ragione è valutante, la filosofia non può essere dialogica.


[Alain Badiou, Nietzsche. L'antifilosofia 1. Seminario 1992-1993]

martedì 1 febbraio 2022

nietzsche e l'antifilosofia

Finite di correggere le ruminazioni sugli aforismi della Gaia scienza prodotte dai miei studenti di quinta, è ora di leggere il testo appena pubblicato da Mimesis del seminario del 1992-93 su Nietzsche tenuto da Alain Badiou presso l'École Normale Supérieure, il primo del ciclo dedicato al tema dell'antifilosofia.
Badiou stesso riconosce come, rispetto a altri seminari in qualche modo totalizzati e architettonicamente composti in opere poi pubblicate, il seminario su Nietzsche rimanga a sé stante, non preparato né successivamente ripreso ma lasciato da parte nella sua impresa filosofica.
Del resto, si chiede sempre Badiou, non è forse questo il destino di Nietzsche nonostante il chiasso - e il malinteso - intorno alla sua opera? E comunque, Nietzsche può essere amato da Badiou per lo stile e la lingua, ma resta sempre un avversario filosofico.
Badiou non se ne occupa, quindi, quando Foucault, Deleuze e tutto il gotha filosofico (Derrida, Klossowski, Lyotard, Nancy) ne fanno un loro riferimento, una fonte decisiva, consacrandolo come una sorta di re postumo del pensiero contemporaneo. Capisce, invece, che non può essere totalmente cattivo, quando nel 1991 viene pubblicato un libro-manifesto Perché non siamo nietzscheani nel quale a dichiarare guerra al filosofo tedesco sono quelli che Badiou definisce "filosofi" reazionari e rivali umiliati dei veri pensatori. Se tutti questi si riuniscono sotto il grido "morte a Nietzsche", allora...
Allora Badiou inizia a interessarsene, a partire dall'ultimo, da quella fine in cui un uomo "Nietzsche" diviene il personaggio centrale di Nietzsche senza virgolette, in cui tutto si rischiara discretamente da ciò che fu troppo ardente, in cui la vita del solitario in marcia verso la follia si ordina alla modesta rivoluzione totale di colui che, benché capace di sbarazzare una volta per tutte l'umanità dal veleno religioso, dalla figura disgustosa del prete e dagli effetti disastrosi della colpevolezza, capace d'instaurare il regno del grande "Sì" per tutto ciò che diviene, riesce a confessare che preferisce, comunque, essere "professore a Basilea piuttosto che Dio".

lunedì 10 gennaio 2022

da koons a nietzsche

A dicembre ho organizzato una uscita didattica per portare le mie due classi quinte alla visita guidata della mostra, presso Palazzo Strozzi a Firenze, dell'artista contemporaneo Jeff Koons.
Uno degli interessi era la connessione dell'opera di Koons con la filosofia di Nietzsche, che l'artista stesso considera come uno dei riferimenti per la sua arte.

A partire dal titolo della mostra, Shine. La brillantezza, la lucentezza. Ma anche allusione al pressoché omofono tedesco schein, che è il sembrare, quindi l'apparenza, la parvenza. Le opere di Koons sono spesso costituite da o contengono superfici lucenti, sculture in acciaio inossidabile colorato dall'effetto brillante e riflettente. Brillantezza e parvenza che possono rimandare all'idea nietzschiana. Che cos'è per il filosofo tedesco "parvenza" ce lo dice lui stesso nell'aforisma 54 del primo libro della Gaia scienza
In verità, non l’opposto di una sostanza – che cos’altro posso asserire di una sostanza qualsiasi se non appunto i soli predicati della sua parvenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una x sconosciuta e pur anche togliere! Parvenza è per me proprio ciò che opera e vive, che si spinge tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più – che tra tutti questi sognatori anch’io, l’«uomo della conoscenza», danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per prolungare la danza terrena e con ciò appartiene ai sovrintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.
Non una negativa superficialità o un'ingannevole apparenza, anzi tutto ciò che è profondo ama la maschera, sostiene sempre Nietzsche.

In tutte queste s
culture in acciaio colorato brillante e riflettente, nella serie delle Gazing Ball con le sue sfere di vetro soffiato blu, questa parvenza lucente riflette l'ambiente in cui le opere sono collocate e lo spettatore che le sta guardando, includendoli nell'opera. Così, nessuno in realtà vedrà mai la stessa opera. Anche questo può far pensare a Nietzsche e a come, secondo la sua filosofia, non vi sia nulla di ultimo e definitivo, non si possa condividere la fiducia nell’esistenza di fatti incontrovertibili, perché il fatto è sempre qualcosa che prende forma soltanto all’interno del complesso processo interpretativo di volta in volta attuato dal soggetto conoscente (Non esistono fatti, solo interpretazioni), così che ogni conoscenza ha solo una natura prospettica (prospettivismo), perché legata al punto di vista del singolo soggetto conoscente, ai suoi particolari interessi e bisogni. E a ciò non esiste assolutamente scampo, né alcuna strada per scivolare e sgattaiolarsene via nel mondo reale! Siamo nella nostra rete, noi ragni, e qualunque cosa venga da noi imprigionata qua dentro, non la potremmo acchiappare se non in quanto è ciò che si fa appunto prendere nella nostra rete (Aurora).

Ancora, infine, includendo lo spettatore nell'opera stessa, elevandolo alla dignità di evento estetico, l'arte di Koons gli svela il segreto 
secondo cui ogni uomo è un miracolo irripetibile, osa mostrare che nella propria unicità egli è bello e degno di considerazione, nuovo e incredibile.
Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessuna combinazione per quanto insolita potrà mescolare insieme per una seconda volta quella molteplicità così bizzarramente variopinta nell’unità che egli è (Schopenhauer come educatore).
L'uomo lo sa, sostiene Nietzsche, ma lo nasconde come una cattiva coscienza. Koons ce lo ricorda e ci invita alla felicità di questa liberazione.

sabato 1 gennaio 2022

per l'anno nuovo

Non potevo (ri)cominciare che utilizzando Nietzsche, l'aforisma 276 con cui si apre il quarto libro de La gaia scienza, capolavoro di levità e lucidità. 


Io vivo ancora, io penso ancora. Oggi ognuno si permette di esprimere il suo augurio e il suo più caro pensiero: ebbene, voglio dire anch’io che cosa oggi mi sono augurato da solo e quale pensiero quest’anno, dopo molto tempo, m’è venuto in animo – quale pensiero deve essere per me fondamento, garanzia, dolcezza di tutta la vita futura (?) da questo 1° gennaio 2022. Voglio tornare a scrivere delle cose, di quel che v'è almeno per me di bello in loro così sarò uno di quelli che scrivono (tanti? troppi?). Scrivere: sia questo d’ora innanzi il mio ritrovato impegno! Non voglio necessariamente realizzare chissà cosa. Non voglio necessariamente commenti, non voglio neppure necessariamente lettori. Scrivere di nuovo sia la mia unica intenzione! E, insomma: prima o poi voglio di nuovo essere uno che scrive!

lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

mercoledì 13 febbraio 2019

filosofia come narrazione complessa

Uno spettro si aggira nel discorso filosofico del Novecento: la letteratura come altra forma di scrittura al di là dei limiti del logos. Un fantasma, quello della letteratura, al contempo desiderato e forcluso dalla filosofia, mai del tutto attraversato per incontrare il reale della scrittura in una nuova forma. Ecco ciò che è stato mancato dalla filosofia, secondo il filosofo Simone Regazzoni
In questo Iperomanzo - saggio da leggersi in coppia con la recente monografia su Derrida pubblicata presso Feltrinelli - Regazzoni prospetta la fine della separazione tra filosofia e mimesis poetica, il cui antico dissidio Platone poneva all'origine della specificità filosofica: un andare verso-l'origine-oltre-la-fine della filosofia attraverso il ricongiungimento tra filosofia e poesia. Ecco l'ingiunzione per la filosofia: misurarsi, fino in fondo, con la propria fine come esaurimento di ciò che la filosofia può pensare in forma argomentativa, reinventare la propria scrittura.
È Nietzsche che aveva iniziato a portare la filosofia oltre se stessa, attraverso una pratica di scrittura che non rimanda più a una qualche verità da scoprire o enunciare. Il mondo divenuto favola non si lascia più concipere, cioè afferrare dal concetto, non si lascia più dire nella forma di un discorso vero. La finzione è un elemento costitutivo della realtà, ed è proprio perché sono venute meno l'idea di realtà e di verità come qualcosa di presente, stabile, afferrabile attraverso il logos, dicibile in un discorso razionale, che la filosofia deve trovare, attraverso la letteratura, una nuova forma di pensiero in grado di misurarsi con la complessità. La filosofia diviene operazione di stile, che con Nietzsche dà vita a pagine tra le più alte che la letteratura tedesca abbia conosciuto. Nel Novecento, Ermeneutica e decostruzione sono state forme di preparazione all'assolutamente nuovo che è la letteratura, tuttavia esse non hanno mai messo davvero in atto la letteratura ma si sono limitate a dichiararla, vale a dire ancora recuperarla in un logos: essa, invece, andrà praticata, scritta. Dunque, occorre alla filosofia un gesto che vada al di là della decostruzione dell'apparato della razionalità metafisica, di cui sono state mostrate le aporie, l'instabilità dei margini, l'impossibilità di funzionare secondo un sogno di purezza che non avrà mai luogo; occorre alla filosofia misurarsi fino in fondo con un mondo vero diventato favola. Oggi, secondo Regazzoni,  pensare la filosofia significa, inevitabilmente, pensare il romanzo: "romanzo" è dunque il nome dell'impasse attorno a cui è ruotata e ruota la questione della fine e del superamento della metafisica come pratica di un pensiero che pensa altrimenti, al di là del monologos, al di là del concetto, al di là della teoria.
Le tappe della storia di questa impasse ricostruita da Regazzoni comprendono, tra gli altri, Barthes, Derrida ed Eco.
Roland Barthes ha dato corpo alla scrittura della preparazione, alla simulazione dell'opera in corso, a uno spazio di indecisione e indistinzione tra teoria e scrittura, saggio e romanzo, filosofia e letteratura. Ma questa preparazione del romanzo sarà solo la storia interiore di un uomo che vuole scrivere e non avrà nulla di un thriller, ahimè - dispiacere, rimpianto, rammarico, pentimento, dello stesso Barthes.
Anche Jacques Derrida, nella sua infinita preparazione all'opera impossibile, nell'infinito intrattenimento della sua filosofia con il fantasma della letteratura, non ha mai scritto il desiderato libro impossibile da scrivere, illeggibile, impensabile per il suo stesso autore. Eppure esso rappresenta il centro vuoto che orienta la scrittura del filosofo francese. La resistenza dell'esistenza al concetto di sistema, la singolarità dell'esperienza nel suo rapporto con la lingua, orientano la filosofia di Derrida come ricerca di una scrittura singolare, idiomatica e autobiografica, che eccede l'orizzonte del senso e l'astrazione della pura teoria: questa è stata la pratica costante di Derrida e la specificità e la grandezza del suo pensiero. Ma il suo limite è stato quello di una strategia testuale segnata da un'idea avanguardistica di letteratura in cui la narrazione è negata, legata a un contesto culturale in cui la letteratura era vista essenzialmente come operazione di stile, gesto di rottura con la forma del romanzo classico.
È la neoavanguardia italiana che comincia a riflettere sui limiti delle strategie di sovversione semantica, di illeggibilità, e rivaluta, in nuove forme, trama, avventura, azione, recuperando la dimensione la narrazione, l'intreccio. Con Il nome della rosa Umberto Eco produce un romanzo sperimentale e insieme popolare, in cui l'avanguardia si compie nel pop e in cui avviene la riunificazione di filosofia e narrazioneil superamento delle impasses teoretiche della filosofia del Novecento avviene così con un thriller che vende milioni di copie in tutto il mondo. Grazie a un intreccio forte, un plot, un mythosEco fa del romanzo uno spazio filosofico, non scrivendo romanzi filosofici nel senso di romanzi con una tesi, come aveva fatto Sartre, ma realizzando, invece, lo spazio per un pensiero filosofico altro: lo spazio in cui pensare ciò che non si può teorizzare, lo spazio di una filosofia che eccede i limiti del logos.
Bisogna partire da Eco, dunque, ma anche andare al di là di Eco stesso: l'ulteriore sfida è quella del polymythos, della molteplicità delle linee narrative e delle trame. La sfida della multitrama è quella che è stata fallita dal cosiddetto romanzo massimalista, nel quale l'esuberanza diegetica segue un principio addizionale e della digressione, un accumulo senza fine che va verso il caos, verso l'esplosione della trama come principio d'ordine. Per eccesso di narrazione, quindi, viene nuovamente meno la trama, ed è questo il limite delle opere di Pynchon, Wallace o Bolaño, cedere sotto il peso della molteplicità del narrabile. 
È necessario, invece, narrare senza perdersi in essa, ed è ciò in cui riesce la più potente invenzione narrativa degli ultimi vent'anni, la nuova serialità televisiva, la complex TV. Ancora una volta, dopo Eco, è dunque nello spazio della popular culture che avviene la sintesi più avanzata e innovativa delle grandi questioni sollevate alla frontiera tra filosofia e letteratura nel corso del Novecento: universi narrativi iper-diegetici, multiplot, che affrontano grandi questioni etiche, politiche, esistenziali, metafisiche. La complessità dell'iperserialità non è solo legata alla molteplicità delle linee narrative, ma anche all'ibridazione di generi e stili, al gioco intertestuale di citazioni e rinvii, che danno vita a un testo stratificato.
Come può, dunque, la filosofia pensare ciò che non si lascia più cogliere nelle maglie del logos, di un discorso teorico che enunci una tesi vera sul mondo? La risposta di Regazzoni è mettendo in discussione l'idea di mondo come totalità dotata di senso, l'idea di unità e unicità del mondo, rompendo con la dimensione di un pensiero che sia uno, con la volontà mono-logica del filosofo che pensa, che esprime il proprio pensiero come uno. Un pensiero polifonico, dunque, che può realizzarsi solo nell'apertura radicale al molteplice data da una modalità di scrittura sistematicamente tesa a produrre pensieri che l'autore non sa di pensare, a produrre mondi con un'autonomia interiore in cui le voci dei personaggi sfuggono al proprio autore.
In questo gioco dei mondi il pensiero sfugge strutturalmente al proprio autore, si fa molteplicità attraverso letture cui l'autore non avrà nemmeno pensato. Questo iperomanzo,  macchina per produrre molteplici interpretazioni, non è altro che la forma di scrittura che si fa carico nel modo più radicale della decostruzione del logos come monologismo, che pensa il gioco dei mondi, che si fa spazio eracliteo di gioco e di conflitto di un pensiero plurale senza sintesi. 
È così che si eredita la decostruzione, rispondendo all'esigenza di una nuova forma di presentazione per la filosofia, all'esigenza di una nuova modalità di pensiero che, giunto al punto di esaurimento del proprio possibile come possibile di un "io penso", si apra a una dimensione altra di scrittura in grado di ospitare un pensiero molteplice. Bisogna attraversare la fine di una forma storica di discorso che ha preteso di distinguersi, in quanto dominio del logos, dalla narrazione-mythos, fine che è nuovo inizio della filosofia come narrazione complessa, come pensiero che si affida alla plurivocità della narrazione come modalità di discorso che si misura con ciò che non può essere detto semplicemente in un discorso dotato di significato ma che deve essere raccolto in una trama, non dedotto ma narrato.
Il romanzo pensa, un pensiero a molti mondi in cui l'ultima parola del pensiero è lasciata all'altro.

mercoledì 14 dicembre 2016

nietzsche filosofo

Alla morte di Nietzsche, avvenuta all’aprirsi del secolo Novecento, D’Annunzio scrisse un poemetto (poi raccolto in Maia) intitolato “A un distruttore” e Claudio Treves in un articolo di fondo dell'”Avanti!”, allora da lui diretto, lo celebrò come il “distruttore della morale borghese”.
Alla sua figura teorica e letteraria e alla sua fortuna successiva è dedicato l’appuntamento di venerdì 16 dicembre 2016, dalle ore 17 alle 19, organizzato dalla sezione pratese della SFI presso la Sala Conferenze della Biblioteca Lazzerini di Prato.
Gli interventi saranno a cura di Stefano Berni (docente del Cicognini-Rodari), sul rapporto Nietzsche-Foucault in merito alla questione del corpo; di Silverio Zanobetti, su Nietzsche e Schopenhauer come educatore; di Giuseppe Panella, intorno a Nietzsche e Leopardi; e di Stefano Petruccioli, su un reboot di Nietzsche, sottotitolo del suo recente libro Filosofare con la katana.

lunedì 31 ottobre 2016

letture di ottobre

Ogni tanto ritorno a Dave Eggers, questa volta con il bel Conoscerete la nostra velocità, struggente e ironico, geniale e irriverente. Un po' piatto ed eccessivamente cronachistico il romanzo su Alessandro Magno di Klaus Mann.
Arriva al 6° volume e continua a essere appassionante e graficamente esaltante la Saga fumettistica di Brian K. Vaughan, di cui - letto in prospettiva cinematografica - ho molto gradito anche l'avventura del Dottor Strange Il giuramento.
Per la saggistica, interessanti alcuni contributi della fenomenologia curata da Matteo Pellone di un mito (post)moderno quale James Bond, così come il saggio di Giuseppe Panella sulla scrittura di Curzio Malaparte L'estetica dello choc. Sempre piacevoli e ricchi anche i brevi saggi di Alain Badiou, come quest'ultimo appello alla corruzione della gioventù e invita a La vera vita.
Continuando le letture nietzschiane, il bel confronto tra Nietzsche e Foucault sui temi della corporeità e del potere svolto da Stefano Berni nell'ottica di una critica radicale della modernità, la biografia intellettuale di Friedrich Nietzsche scritta da Lou Andreas-Salomé, il noioso Atlante della sua vita e del suo pensiero curato da Giorgio Penzo, il mal scritto - come tutti i libri di Salvatore Natoli, secondo me e al di là dell'interesse dell'argomento - Nietzsche e il teatro della filosofia, il percorso su Il nichilismo di Franco Volpi.

venerdì 30 settembre 2016

letture di settembre

Veramente poche pagine lette questo mese.

Glamorama, ultimo romanzo che mi mancava di Bret Easton Ellis

Per la saggistica filosofica, lo scritto sull'insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio Otobiographies di Jacques DerridaLa creazione del mondo di Jean-Luc Nancy, Il nodo di Gordio che raccoglie i due testi di un dialogo indiretto tra Ernst Jünger e Carl Schmitt su Oriente e Occidente nella storia del mondo.

Ancora un volume, L'attacco dei mostri di neve mutanti, con le strisce di Calvin & Hobbes realizzate da Bill Watterson.

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