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giovedì 31 marzo 2016

letture di marzo

Il romanzo di Julia Kristeva I samurai è una sorta di sequel de I mandarini di Simone de Beauvoir: la generazione degli intellettuali francesi tra gli anni Sessanta e Ottanta non sono tanto detentori del sapere e del potere culturale entusiasti del loro impegno quanto piuttosto guerrieri che considerano la vita come un'arte marziale, la scrittura come un atto di piacere e di guerra insieme: poesia, gioco di sciabole o calligrafia, ogni arte è un'arte marziale in cui ci si mette a morte per rifarsi un nuovo corpo, una nuova forma. Bellissimo romanzo, e romanzo d'amore: "Sono insieme perché sono separati. Chiamano amore questa mutua adesione alla propria rispettiva indipendenza. Questo li ringiovanisce, sembrano adolescenti: addirittura bambini. Che cosa vogliono? Essere soli insieme. Giocare da soli insieme, e a volte passarsi la palla, tanto per dimostrare che in quella solitudine non c'è dolore".

I quattro racconti di Wu Ming che compongono L'invisibile ovunque raccontano, con stili di scrittura diversi, quattro diversi modi di sfuggire alla guerra, alla Grande guerra: da ardito che le corre incontro, da finto folle col rischio di rimanere vittima della propria finzione, da artista surrealista, da maestro del camouflage mimetico.  
Letture rapide, e assai poco significative, per la storia di un serial killer malato di Alzheimer narrata dal coreano Kim Young-Ha in Memorie di un assassino, e per i micro racconti raccolti in La vendetta di Agota Kristof.
Finito il romanzo di Charles Dickens La piccola Dorrit.

Poco filosofici i percorsi tracciati ne I mondi di Miyazaki dai contributi raccolti a cura di Matteo BoscarolConcluso il viaggio tra le Filosofie nel mondo, così come i saggi di Salvatore Natoli Soggetto e fondamento, la storia del volo ricostruita da Mirko Molteni ne Le ali di Icaro e  quella delle macchine, dalla loro infanzia alle moderne e inutili, raccontata in Tecnica curiosa da Paolo PortoghesiDella non convenzionale introduzione alla filosofia di Tommaso Ariemma, Niente resterà intatto, della Filosofia dell'umorismo di Lucrezia Ercoli, ho già scritto. Delle ottime storie incredibili dei meravigliosi materiali di cui è fatto il mondo raccontate con gran stile da Mark Miodownik in La sostanza delle cose scriverò magari più in là.

Molto belli il viaggi raccontati e disegnati da Igort nell'impero dei segni nei suoi Quaderni giapponesi e tra le memorie dai tempi dell'URSS nei suoi Quaderni ucraini. Dopo Golem, un altro graphic novel di LRNZ, Astrogamma, sempre con una grande capacità grafica, superiore a quella di scrittura della storia. Non particolarmente originale ma comunque gradevoli nella loro classicità le storie di samurai scritte da Roberto Recchioni e ben disegnate da Andrea Accardi in Chanbara. Ispirato all'omonimo racconto di Edgar Allan Poe, La maschera della Morte Rossa, graphic novel che ai temi della vanitas umana e dell'ineluttabilità della morte unisce quello sui vizi e peccati capitali e una storia di vendetta, è invece banalmente scritto da Marco Rocchi e non brillantemente illustrato da Giuseppe Dell'Olio.
Altri primi cicli narrativi dell'universo Marvel che arrivano a conclusione sono i superiori e più minacciosi - adatti a più minacciose minacce - oltre che incredibili X-Men guidati da Magneto e scritti da Cullen Bunn, l'ottima possente Thor - nelle cui vene scorre il tuono - scritta da Jason Aaron, il nuovamente in nero Daredevil di Charles Soule, i migliorabili nuovissimi e completamente differenti Avengers di Mark Waidla nuova Wolverine e le sue cloni/sorelle di Tom Taylor, la quanto meno originale squadra di mostri gestita dallo SHIELD e allestita in Howling Commandos da Al Ewing, autore anche dei cosmici Ultimates impegnati a cominciare con l'impossibile, l'eccezionale Hulk di Greg Pakgli Illuminati di Joshua Williamson con la loro vita criminale, gli incredibili Avengers pessimamente assemblati da Gerry Duggan in una nuova squadra unione, i nuovi X-Men originali, adolescenti e venuti dal passato cui Dennis Hopeless fa affrontare i fantasmi di Ciclope ma di cui si poteva francamente fare a meno, come si potevano evitare i nuovi Inumani impegnati da James Asmus in una reazione globale al loro proliferare.

lunedì 29 febbraio 2016

letture di febbraio

La nuova avventura del duo Hap e Leonard scritta da Joe R. LansdaleHonky Tonk Samurai, vede i due improbabili detective metter su una sgangherata squadra - dei "samurai" pronti a andare fino in fondo, a rischiare la vita, ma desiderosi di salvare la pelle - per risolvere un caso la cui verità, alla fine, forse si sarebbe preferito non conoscerla. 

Lettura seriale anche per Fabio Geda che, insieme a Marco Magnone, dà inizio alla saga adolescenziale Berlin con il primo volume, I fuochi di Tegel.

Il ritratto di Descartes realizzato da Steven Nadler con il suo Il filosofo, il sacerdote e il pittore è piuttosto inconsistente e superficiale dal punto di vista filosofico e, insieme, molto poco attraente dal punto di vista letterario e narrativo: una piatta e ridotta biografia concentrata sull'incontro tra il filosofo francese residente nell'Olanda del secolo d'oro e il sacerdote cattolico Bloemaert, e sul probabile ritratto del suo amico che quest'ultimo avrebbe fatto realizzare al famoso Frans Hals, in un'epoca e in un luogo agitato da una febbre ritrattistica, prima della partenza del filosofo per la Svezia, in modo da averne sempre un caro ricordo. Così Nadler ricostruisce la genesi della più nota opera pittorica che ritrae Descartes. E il libro è tutto qui. Deludente.
Lettura derivata dal seminario sulle cartesiane Meditazioni metafisiche che sto tenendo a scuola, e da cui derivano anche le letture dirette dei testi del filosofo francese: Discorso sul metodo e i due trattati Il Mondo. L'uomo. Per questo e per gli altri seminari, la Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes di Emanuela Scribano, la Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele di Giovanni Reale e la Guida alla lettura della Nascita della tragedia di Nietzsche di Gherardo Ugolini.

Sempre in ambito filosofico, le piacevoli Lettere persiane di Montesquieu, il breve intervento di Jacques Derrida sui temi di Incondizionalità e sovranità e quello su sovranità e crudeltà in Stati d'animo della psicanalisi di cui ho già scritto, come ho già scritto anche del libricino popfilosofico di Monia Andreani su Peppa Pig e la filosofia.

Molto gradevoli, soprattutto per gli splendidi disegni di Philippe-Henri Turin, i due volumetti per bambini scritti da Alex Cousseau e con protagonista Carlo, piccolo drago poeta dalle ali e zampe troppo grandi che lo fanno essere impacciato a terra e perciò deriso dai suoi simili ma in grado di oscurare il sole mentre vola, alle prese prima con la scuola di draghi e poi con il ciclope Polifemo

Dal mondo dei fumetti, oltre all'omaggio di Hugo Pratt all'ultimo volo di Saint-Exupéry, continuano i primi cicli narrativi delle nuove testate della Marvel: buoni i debutti del Dottor Strange, scritto da Jason Aaron e disegnato da Chris Bachalo, sulla Via della stranezza e del primo volume del nuovo Capitan America, Sam Wilson, di Nick Spencer, mentre pessimi i New Avengers di Al Ewing dove Tutto è nuovo ma il team non ha la minima attrattiva e le storie non appassionano.
Inoltre, bella l'avventura di Batman e Joker in Europa scritta da Brian Azzarello e disegnata da Matteo Casali e che vede i due percorrere le strade di alcune capitali del vecchio continente - Berlino, Praga, Parigi, Roma - per scoprire di essere intimamente legati ed essenzialmente necessari l'uno all'altro, reciprocamente e insieme veleno e medicina l'un per l'altro.

giovedì 11 febbraio 2016

peppa pig e la filosofia

Il libricino di Monia Andreani si inserisce in quel filone che intreccia filosofia e cultura popolare, che indaga il pop attraverso le categoria filosofiche e racconta la filosofia tramite i personaggi dell'immaginario collettivo e i fenomeni popolari. Così Peppa Pig e la filosofia riconosce nel cartone animato inglese un prodotto epocale di sintesi di un obiettivo educativo, adattato ai piccolissimi e predisposto per la costruzione sociale delle generazioni adulte del futuro prossimo, che concentra conformismo alle regole e orientamento al fare, al produrre, all'essere inseriti in una società ben ordinata e dai chiari principi valoriali: Peppa Pig sarebbe il prototipo a misura di bambino di una società globalizzata e multiculturale, ordinata e funzionante.
Peppa Pig è erede del cortometraggio Disney de I Tre Porcellini (1933), la fiaba forse più utilitaristica di sempre il cui successo la dice lunga su quella che era la necessità educativa di un mondo già globalizzato che stava attraversando una grande crisi economica. Il cartone è potenziale erede, forse, anche della serie televisiva Heidi, ma la maialina è un'eroina conservatrice e convenzionale, distante da una Heidi o da una Pippi Calzelunghe, entrambe dotate di una forte personalità e di una mancanza di adeguamento alle regole imposte.

sabato 19 aprile 2014

estetica e immaginario dei manga

Nell'analisi dell'estetica e dell'immaginario nel Giappone contemporaneo affrontata in Filosofia nei manga, Marcello Ghilardi rintraccia nel fenomeno dell'amalgama tra l'est e l'ovest, il vecchio e il nuovo, la lunga eredità culturale nipponica e la modernizzazione occidentale, l'origine del manga moderno: "la fascinazione, l'interesse e la volontà di apprendere le tecnologie dell'Europa e dell'America, di incorporare l'esteriorità di questi mondi, si scontra con una tendenza contrapposta, che si può definire 'essenzialista'" e che intende garantire la specificità della cultura nazionale, il che porta a un'ibridazione espressa dalle formule 'spirito giapponese, cultura occidentale' (wakon yōsai), o 'moralità giapponese, tecnica occidentale' (tōyō dōtoku, seiyō gijutsu). Il risultato estetico di tale commistione è uno stile definibile superflat (come il movimento artistico fondato da Takashi Murakami), "una nuova modalità di integrazione di culture e subculture, forme di crasi tra universi di significato distinti e dimensioni iconiche che pescano ovunque riferimenti, citazioni, prestiti visuali. Se dunque la situazione culturale del Giappone contemporaneo è questa (con)fusione e tensione insieme di elementi tradizionali e futuristici, orientali e occidentali, conservatori e progressisti, i manga moderni con le loro narrazioni e immagini integrano queste forme e le ricombinano, prestazione sociale e culturale con cui si saggia la possibilità di tenuta dell'identità dell'odierno Giappone.
Ancora oggi i manga - immagini (ga) frammentate, rapsodiche, sciolte, libere (man) - "continuano a privilegiare la figurazione tradizionale in bianco e nero, seguendo l'estetica della pittura tradizionale cinese e giapponese" che si preferisce libera dalla bassa intenzione mimetica del colore e che si costituisce, invece, come esercizio quasi ascetico, percettivo e mentale, di riduzione e intensificazione insieme, di massima espressività con il minimo dei mezzi, in un'immagine dalle infinite tonalità di grigi, integrando pittura e calligrafia, disegno e scrittura. Ma già l'opera di Hokusai, apprezzata in Europa come esempio di un'arte tipicamente nipponica, è informata da elementi occidentali e gli artisti giapponesi di inizio Novecento si fanno ispirare dalle opere dell'impressionismo europeo, a loro volta influenzate dalle stampe giapponesi di metà Ottocento, producendo un "circolo iconografico" di ibridazione e contaminazione che origina forme e contenuti a un tempo nuovi e antichi. 
"Il rapporto tra il mantenimento del legame con la tradizione e la capacità di rinnovarla, facendola così continuare a vivere, è stato descritto da una sequenza di tre termini, tre gesti o momenti che nelle arti tradizionali descrivono il passaggio dal noviziato alla maturità di un artista. Questi tre termini sono shu, che significa 'difendere, proteggere, custodire'; ha, ovvero 'rompere, spezzare, distruggere'; ri, cioè 'lasciare, abbandonare, liberare'. A testimoniare la pervasività nella cultura giapponese di questi temi si può citare un esempio tratto da un famoso manga, Rurōni Kenshin (Kenshin, samurai vagabondo), in cui la dinamica di shu-ha-ri è riproposta nella versione di un duello tra maestro e allievo. La presenza minacciosa del Maestro, che deve essere affrontato, è al centro della scena, è il motore intorno a cui ruotano le possibilità di sviluppo e di crescita del protagonista. È una Alterità interiorizzata, che guida nella tensione verso l'ideale di perfezione; [ma] l'allievo deve sganciarsi da quella presenza schiacciante, imparando a costruire una sua propria 'forma', che non sia più imitazione di quello ereditato ma sia il suo proprio; deve 'rinascere' a sé e creare qualcosa di nuovo. Adesione a modelli trasmessi, rottura con quei modelli (attraverso l'incorporazione di elementi estranei), liberazione sia dai modelli che dalla rottura nei loro confronti per aprirsi a un nuovo orizzonte e creare una nuova forma". Questa la filosofia giapponese che emerge nei manga.

sabato 30 novembre 2013

da benjamin a wall-e (letture di novembre III)

Dopo Gioco d'azzardo e Regno senza grazia, mi son dato alla lettura di un altro saggio di Gianluca Cuozzo sulla Filosofia delle cose ultime. I temi sono ancora una volta quelli della società dei rifiuti e di un mondo senza più grazia da salvare, ma qui trattati forse con un maggior spessore filosofico, perché "in un mondo sopraffatto dai rifiuti, la filosofia ha il compito di assumere come proprio oggetto di indagine anche questa realtà imbarazzante e pervasiva, capace di colonizzare l'immaginario umano con incubi i cui protagonisti sono 'ratti e paranoia'". Così l'incipit del saggio, in cui l'autore da sapiente straccivendolo e collezionista cammina e avanza tra le rovine della storia e della società accumulando sacri e profani rottami di ogni cosa, filosofia, letteratura, cinema, arte, pubblicità.
Con questi pezzi tagliati, Cuozzo compone un puzzle in cui la spazzatura fa da controcanto osceno della produzione e del consumo, rappresentando l'inadempiuta utopia della società, le attese e le aspirazioni da essa disattese e tradite, la sua promessa inappagata di felicità. Le marginali cose ultime costituiscono un universo di aspettative ancora pulsante, mai quieto, pronto a tendere degli agguati alla nostra rappresentazione ideologica, delle schegge messianiche, brani divelti del tempo che aspettano che qualcuno li raccolga - usandoli nel modo giusto - per realizzare nel presente il loro potenziale salvifico.
Il filosofo, come il robottino della Pixar Wall-E - a sua volta versione post-moderna e tecnologica dell'angelo della storia di Walter Benjamin - ha il compito di (r)accogliere questa protesta caparbia e sovversiva contro ciò che è tipico, ordinario, classificabile secondo le convenzioni stabilite di ciò che è stato scartato e che potenzialmente insorge in una forma di contestazione - a un tempo anarchica e messianica - capace di liberare l'uomo dalla schiavitù nei confronti delle merci e dei beni di consumo, annunciando un possibile altro, un mondo diverso a venire.


domenica 28 aprile 2013

la società dei rifiuti

Nel suo saggio Gioco d'azzardo, Gianluca Cuozzo per illustrare la società dello spreco e i suoi miti - come recita il sottotitolo del volume - (ri)pesca immagini dell'inizio della modernità, come i dipinti fiamminghi di Bruegel e Bosch: "le zampette che trascinano l'uomo à la coque, con un coltello in esso già conficcato, verso il chierico mollemente disteso sotto l'albero della Cuccagna - come si può vedere nel dipinto di Pieter Bruegel Luilekkerland (1567) -, sono le stesse che, dopo il momentaneo appagamento, mettono il desiderio nella condizione di una rincorsa senza fine verso ciò che manca e che non può non alimentare la nostra brama di possesso"; mentre le oniriche "creature grottesche consistenti di sola testa e di sole fauci" che popolano l'impressionante Giudizio universale di Vienna (1482-1504) di Hieronymus Bosch rappresentano come tali desiderio e brama possano proseguire "finché non rimanga più nulla da ingurgitare che non sia la nostra stessa bocca da sfamare".

A rendere possibile e garantire tale "rincorsa senza fine" è la moda, che Günther Anders definisce come "il provvedimento di cui si serve l'industria per rendere i suoi prodotti bisognosi di essere sostituiti", sicché "ogni pubblicità è un appello alla distruzione" (L'uomo è antiquato II). Moda di cui Walter Benjamin riconosce il legame con la morte, il suo essere "nient'altro che la parodia del cadavere screziato, la provocazione della morte attraverso la donna e un amaro dialogo sottovoce con la putrefazione", ed è per questo, infatti, che "cambia così in fretta; solletica la morte e, quando questa si guarda attorno per sconfiggerla, essa è già diventata un'altra, nuova" (Parigi capitale del XIX secolo). Benjamin, del resto, al cui angelo della storia Cuozzo affianca, quale versione postmoderna e tecnologica, Wall-E, il robottino della Pixar che accumula rifiuti su rifiuti in un mondo devastato, e che ricordava e intimava come occorra "bonificare i terreni su cui finora è cresciuta solo la follia. Penetrarvi con l'ascia affilata della ragione. Ogni terreno ha dovuto una volta esser dissodato dalla ragione".

venerdì 9 novembre 2012

eroico godimento

«Qui [un primo piano ci mostra Callaghan che guarda verso la banca e mastica, punta la pistola verso uno dei rapinatori che esce dalla banca e, con la bocca piena, gli intima di fermarsi, mentre un frammento di pane gli esce dalla bocca], come in Kung Fu Panda, il cibo ci dice qualcosa di importante: i nostri eroi non mettono in atto pratiche di rinuncia: non sono degli asceti. Il cibo rappresenta la cifra di un eroismo come eroismo del godimento che si alimenta dell'eccesso.» 

Al panda gigante e bulimico Po e all'hot dog di Dirty Harry, si può accostare la vertiginosa lista degli eroi di manga e anime che non si lasciano sfuggire occasione per ben nutrirsi, quali Naruto, Goku in DragonBall e Monkey D. Luffy (o Rufy o Rubber) in One Piece...



... e si può aggiungere all'elenco anche qualche supereroe dei comics come il mutante (X-Men e X-Force) e vendicatore Wolverine (il cui nome di battaglia, tradotto, sta per quel muscoloso mustelide carnivoro simile a un piccolo orso noto come gulo gulo, volverina o, appunto, ghiottone, dotato di una forza e una ferocia apparentemente sproporzionati alla sua taglia, un po' proprio come il nostro "tappo").
  



sabato 3 novembre 2012

dell'eroismo e del godimento

Comico, gaudente, nichilista, singolare, criminale. Insomma, sporco come l'ispettore Callaghan di Clint Eastwood e oscuro come il Batman di Frank Miller. Ecco quelli che sembrano essere i caratteri del nuovo eroe, dell'eroe non classico ma contemporaneo, del vero eroe, tracciati da Simone Regazzoni nel suo ultimo saggio Sfortunato il paese che non ha eroi.
Contro una pussy generation, una generazione di femminucce e pusillanime, che trova nel politicamente corretto niente altro che l’alibi perfetto per nascondere l'assenza di coraggio necessario a «farsi carico dell’etica nella sua dimensione perturbante e conflittuale: la dimensione dell’eroismo», appunto; contro il buonismo morale di quello che può essere chiamato "l'idiota della morale", ligio alla Legge e al dovere, preoccupato di venire sempre e comunque a patti con il mondo e con gli altri, di restare all'interno della moralità di branco, delle buone maniere, regole e norme sociali; contro la risposta reattiva alle trasformazioni in corso oggi – lette come catastrofi e apocalissi –, risposta consistente nell'«intento di ricostruire le fondamenta del mondo perduto: la Morale, il Padre, la Comunità, la Verità, la Realtà – e altre buone cose di pessimo gusto (i grandi ideali moderni) che costituiscono la cifra di un tono vintage adottato recentemente dall’intellighenzia cosiddetta colta incapace di elaborare il lutto per il crollo dell’ancièn regime della modernità» e in grado, invece, di produrre solo un discorso che oscilla tra invettiva moralistica e lamentela senza però mostrarsi all'altezza di rispondere alla complessità della situazione; nel suo saggio sull'etica dell'eroismo, Regazzoni non ha né sensi di colpa né vergogna nello sparare – con una .44 Magnum – contro tutto questo, facendo fuori l'idiota della morale e proponendo, al suo posto, un'etica dell'eroismo e del godimento.
Un'etica eroica è una forma di "morale superiore" che non tenta di addomesticare e asservire la virtù del coraggio  – incarnata dall'eroe – all'idea di bene della comunità, che non accetta le parole del Superman tratteggiato da Frank Miller nel suo Il ritorno del Cavaliere Oscuro, secondo cui «noi che viviamo nel mondo degli uomini dobbiamo considerare il bene comune e venire a patti con lo stato delle cose», perché «è proprio quando si agisce in nome del bene, di un supposto bene universale o dell’altro, quando si vuole realizzare il bene, che il male è pressoché assicurato». Quello su cui riflette Regazzoni è, al contrario, «un eroismo senza una Causa per cui combattere, che non chiede sacrifici per il bene comune, il bene dell’altro, la patria, l’umanità intera». Un eroismo non messo al servizio del legale rappresenta il fondamento di un'etica non essenzialmente e meramente restrittiva, proibitiva, ma di una, invece, che sappia misurarsi con il suo aspetto potente e creativo. Questa creatività dell'atto etico presuppone la capacità dei suoi eroi di fare uso di quelle che in Critica della ragion cinica Peter Sloterdijk definisce come brevi e telegrafiche ricette linguistico-comportamentali grazie a cui si può dire di 'no' al momento giusto e restare liberi e non divenire dei socializzati integrali: ‘embe’?’ e ‘perché no?’(ecco il let's go / why not? del film Mucchio selvaggio) sono due esempi. Questo rifiuto fa sì che l'etica dell'eroismo non abbia in sé nulla di rassicurante o edificante, ma anzi presenti tratti di perturbante e fa sì, quindi, che gli atti di questi eroi possano sembrare ed evocare il male, l'al di là della Legge, la trasgressione, il crimine, mostrandosi, «come minimo, insensibili alla richiesta etica del volto Altro di fronte al quale, all’occasione, sembrano disposti, come Lacan, a mostrare il tirapugni – o il coltello per lo scalpo» come i Bastardi senza gloria del film di Tarantino.
Ma questo rifiuto, questa necessità di essere criminali rivendicata dal Batman di Miller, è anche l'unico fondamento possibile per «ogni atto genuino, ogni atto che non sia solo agitazione, movimento, scarica motrice, ogni atto vero, ogni atto che segna, che conta» (Jacques-Alain Miller, Vita di Lacan), che risulta essere, quindi, trasgressione, infrazione, superamento di un codice, di una legge, di un insieme simbolico. Gli eroi presentati da Regazzoni, quindi, sono l'espressione di «una straordinaria possibilità per l’affermazione di nuove pratiche di libertà e di azione – al di là dei limiti della morale e delle vecchie ideologie moderne di cui oggi si lamenta la scomparsa».
Se a muoverli, però, non è il Bene, la Legge, una Causa, è perché quello che nell'etica dell'eroismo è messo in gioco è solo il proprio singolarissimo godimento. Un'etica dell'eroismo è un'etica del godimento. Esso «non ha nulla a che fare con il nostro piacere, la nostra felicità, il nostro benessere o il nostro personale interesse. Il godimento, nella sua portata etica, è qualcosa come un desiderio fuori-norma, fuori-Legge. Un desiderio assoluto e pericoloso, eccessivo», una Cosa oscura che alimenta l'eroismo. Eroismo che assume, allora, il significato di non cedere sul proprio desiderio assoluto come godimento, di essere se stessi, fedeli a se stessi, o, in termini nietzschiani, di diventare ciò che si è senza cercare alibi. Questi eroi non mettono in atto pratiche di rinuncia e sacrificio, non sono asceti, e cifra di questo eroismo del godimento che si nutre e si alimenta dell'eccesso è il cibo – l'hot dog dell'ispettore Callaghan o il bulimico Po di Kung Fu Panda
Questi eroi sono, però, esclusi dalla comunità, sono singoli, folli:  Batman custodisce in sé una Cosa oscura, una "creatura" che ringhia, si contorce e vuole tornare in libertà, ma per lui non esiste nessuna Causa, «solo la propria singolare, oscura, ossessione. Batman rinasce come il Cavaliere Oscuro proprio perché, a differenza di Superman, è un eroe senza Causa, fedele solo alla sua ossessione, alla sua Cosa oscura. In altri termini: al suo godimento, al di là della Legge». E quando indossa la maschera, egli ci fa vedere, ci rende visibile la Cosa-Altro, oscura, notturna, primordiale, che lo abita e lo assilla e lo decide come eroe. «Batman è il divenire eroe come divenire-pipistrello, divenire extra-umano del soggetto. La Cosa oscura ha una dimensione animale, extra-umana o inumana. Ma ciò significa che l’eroismo del godimento non è propriamente umano, perché spinge il soggetto fuori dall’orizzonte simbolico dell’umanità. Batman, supereroe senza nessun potere particolare, non è semplicemente un uomo travestito da pipistrello; bensì un uomo-pipistrello, un uomo che mette in gioco la Cosa oscura inumana o extra-umana, un uomo che si spinge oltre i limiti dell’umano: un Übermensch, potremmo dire con una famosa formula di Nietzsche che designa precisamente un andare al di là dell’umano. La Cosa oscura non ha nulla di rassicurante: il divenire-pipistrello come divenire-eroe del soggetto è già, anche, un divenire-mostro e criminale».
Anche Dirty Harry e il maniaco omicida, in fondo, si distinguono solo per il distintivo.



 

venerdì 2 marzo 2012

cartmanlandia e il problema del male

Nell’episodio di South Park Cartmanlandia Kyle vede la felicità di Cartman come un male terribile: Cartman non si merita tanta felicità e non è giusto che lui l’abbia ottenuta. Kyle osserva che quanto è accaduto non è solo incredibile, ma considerata la sua visione del mondo – che include credere che Dio esista – è anche impossibile. Se Dio esiste, dato che egli è infinitamente buono e onnipotente, non permetterebbe a Cartman di essere completamente felice; ma ora che Cartman ha il suo lunapark, Cartman è completamente felice; quindi Dio non esiste.
Il problema logico del male implica che l’esistenza del male sia logicamente incompatibile con l’esistenza di Dio. Un modo per risolvere il problema è attraverso la cosiddetta difesa del libero arbitrio, in base alla quale si sostiene che i mali individuali non hanno risposta, ma sono un rischio che Dio deve correre se vuole permettere che accada il bene: il bene può essere ottenuto solo con il nostro libero arbitrio, come sostiene Agostino solo le azioni libere sono azioni buone. Quindi, il rischio del male è necessario se al mondo ci deve essere il bene.
Ma i mali naturali, quelli non causati dal libero arbitrio dell’uomo? Come soluzione al problema del male naturale, la soluzione del libero arbitrio non regge.
Una soluzione che cerca di risolvere il problema del male sia morale che naturale è la teodicea sulla formazione dell’anima. Tale giustificazione suggerisce che il male, sia morale che naturale, è permesso nel mondo in modo da permetterci, come individui e come specie, di sviluppare il nostro carattere. Azioni derivanti da caratteri a cui è stata concessa la perfezione non sono così buone come quelle derivanti da caratteri che hanno sviluppato la perfezione. Per assicurarsi che nel mondo ci siano le azioni migliori, Dio permette l’esistenza del male in modo che noi possiamo reagire, evolvendo ed eventualmente perfezionandoci. Così, anche se alcuni mali specifici potrebbero restare senza risposta, il mondo intero sarebbe migliore se noi sviluppassimo il nostro carattere e lo possiamo fare solo reagendo al male.
Questo ragionamento riflette quello di Gesù nell’episodio Un Capodanno indimenticabile: «La vita è fatta di problemi e vivere è risolvere i problemi, crescere e imparare dagli ostacoli. Se Dio sistemasse tutto al posto nostro, la nostra esistenza non avrebbe più alcun senso».
Ma il problema legato alla quantità del male nel mondo sembra ancora irrisolto e la discussione rimane aperta.

(da David Kyle Johnson, Cartmanlandia e il problema del male, in South Park e la filosofia)

mercoledì 29 febbraio 2012

sull'identità personale

Nell’episodiodi South Park Spookyfish – Lo speciale di Halloween, i ragazzi scoprono un secondo Cartman che se ne va in giro per South Park. I due Cartman sono identici, i ragazzi non riescono a distinguerli dall’aspetto, ma notano subito una differenza nel loro carattere. Nell’episodio Un elefante fa l’amore con una maiala, Stan viene clonato, ma i due Stan non sono assolutamente uguali fisicamente. Infine, ricordate l’episodio Una scala per il paradiso, in cui Cartman, dopo aver bevuto le ceneri di Kenny, viene posseduto da lui. Questa volta abbiamo solo un corpo – il corpo di Cartman – ma al suo interno c’è l’anima di Kenny.
Ci sono due vaste categorie di criteri per l’identità personale. Secondo i criteri fisici, l’identità è composta da elementi fisici come il corpo, il cervello e altre forme fisiche. D’altro lato, secondo i criteri psicologici, l’identità è composta da alcune parti psicologiche, come la coscienza e la memoria, che esistono nel tempo.
Con la testa fra le nuvole [lavaggio del cervello di alcuni abitanti], Divertirsi con le armi [rimozione di una stella ninja dalla testa di Butters], Super Adventure Club [lavaggio del cervello a Chef]. In questi esempi, il cervello sembra essere l’ingrediente fondamentale dell’identità personale. Le persone cambiano nel tempo a causa di cambiamenti nel loro cervello. Tu sei tu nel tempo, se, e solo se, hai lo stesso cervello.
D’altro lato, nell’episodio Il più grande buffone dell’universo, i ragazzi vedono i trailer dei prossimi film in uscita di Rob Schneider. Il trailer del primo film è il seguito delle varie identità assunte da Schneider nei suoi film precedenti: «Rob Schneider è stato un animale. Poi è stato una donna. E ora Rob Schneider è… una pinzatrice».  Rimane però sempre la stessa persona, anche se la sua forma fisica cambia. Questo presuppone criteri psicologici per l’identità personale. La propria identità come persona deriva quindi dalla continuità psicologica.
Nell’episodio Ai confini della realtà i ragazzi si identificano con uno dei possibili criteri psicologici dell’identità personale, il criterio del ricordo. Se qualcuno soffre di amnesia o di uno scambio di memoria a causa del quale i suoi vecchi ricordi sono cancellati o sostituiti da nuovi, allora anche la sua identità sarà diversa. Per Locke sono i ricordi che ci permettono di avere la stessa coscienza nel tempo.
Torniamo all’episodio Spookyfish – Lo speciale di Halloween. Il metodo usato dai ragazzi per distinguere i due Cartman segue il criterio della continuità psicologica dell’identità personale, dove la personalità è fondata sulla continuità delle relazioni psicologiche nel tempo. Il criterio della continuità psicologica nasce, tra le altre fonti, dall’approccio scettico di David Hume. Nel suo Trattato sulla natura umana, Hume sosteneva che tutti noi siamo «fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento». Per Hume non c’è nessun sé che rimane lo stesso nel tempo. Non potremo mai trovarci nella posizione di poter catturare una “persona” che è la stessa in un momento e in quello successivo. Tutt’al più, ognuno di noi è una collezione di pensieri, sentimenti e atteggiamenti mutevoli. La teoria di Hume porta a sostenere che la personalità sia un tutt’uno fittizio che cattura l’interezza dei nostri tratti psicologici, delle nostre azioni, dei nostri modelli comportamentali e delle nostre riflessioni nel tempo.

(da Shai Biderman, Il futuro sé di Stan e il malvagio Cartman. Identità personale in South Park, in South Park e la filosofia)


lunedì 27 febbraio 2012

barthes guarda bart

Barthes ha affrontato il tema della decifrazione del modo in cui le immagini si “codificano”, come si caricano di significato in un saggio del 1964 intitolato Retorica dell’immagine, in cui esamina i modi in cui un’immagine funziona sia a livello di “connotazione” sia a livello di “denotazione”. Le immagini sembrano significati iconici o motivati (significato denotativo), tuttavia «non si incontra mai un’immagine letterale allo stato puro», nessun disegno o nessuna fotografia ci giunge se non come parte di un messaggio, come parte del tentativo di qualcuno di comunicare qualcosa (significato connotativo), come messaggio culturale specifico sovrimposto al significato denotativo dell’immagine. La fotografia sembra «un messaggio senza codice», un tipo di significante naturale, non mediato ma «gli interventi dell’uomo sulla fotografia (inquadratura, distanza, luce, flou, ecc.) appartengono effettivamente tutti al piano della connotazione», questi tratti sono parte della costruziosità della fotografia. La qualità del messaggio fotografico è la sua capacità di azzittire la sua stessa codifica, di farci dimenticare che è stata costruita (mito del “naturale” fotografico). Queste idee si applicano analogamente alle immagini che vediamo in televisione, immagini che sono sostanzialmente manipolate, costruite, fabbricate, ma che tendiamo a ricevere molto passivamente come indici affidabili della natura e della realtà.
La grande energia dei Simpson è prodotta proprio dal conflitto tra il riconoscimento della qualità molto mediata e non realistica dei significanti e la comprensione che, ciò nonostante, essi assomigliano a una realtà conoscibile. Un disegno come un personaggio dei Simpson  mette in mostra una grande misura di convenzionalizzazione: sono disegni altamente stilizzati, nondimeno li riconosciamo come rappresentazioni di certi aspetti della società. Il fatto che i personaggi con tutta evidenza non sono proprio umani aumenta la loro capacità di funzionare come significanti satirici, permettendo di avventurarsi nel regno del ridicolo molto più profondamente di quanto potrebbero fare attori umani o disegni realistici, guadagnando una libertà d’azione illimitata in ciò che possono descrivere o suggerire conservando tuttavia la capacità di esprimere riferimenti sempre in primissimo piano. Ricordando costantemente che i personaggi non sono reali, aumenta il grado in cui noi li recepiamo come significanti con la capacità di rappresentare le cose. Volando per così dire sotto il radar delle nostre menti razionali, lo show ci spinge con calma, come un virus, ad abbassare le nostre difese intellettuali, e poi ci infetta con idee satiriche e sovversive.
Barthes in S/Z, pubblicato nel 1970, definisce come “classico” un testo chiuso alle possibilità della connotazione. Un testo di tal genere funziona su un livello puramente denotativo, e il lettore non viene mai incoraggiato a speculare oltre ciò che il narratore o un’altra voce autorale affermano. Ciò implica una specie di legge o religione della lettura “corretta”: il lettore non può “scrivere” il testo né può aggiungervi cose sostanziali. Barthes definisce questi testi “leggibili”. All’opposto troviamo il testo “scrivibile” o “plurale”, un testo che incoraggia la libera interrelazione sia da parte dello scrittore sia da parte del lettore, che è ricco di connotazioni, che è di fatto aperto in relazione al suo significato ultimo: «I nomi si chiamano, si raccolgono e il loro raggrupparsi vuole a sua volta un nuovo nome: nomino, denomino, rinomino: così passa il testo: è un nominare in atto, un’approssimazione instancabile, un lavoro metonimico. La lettura non consiste nel fermare il succedersi dei sistemi, nel fondare una verità, una legalità nel testo e nel provocare, di conseguenza, gli “errori” del lettore: passo, attraverso, articolo, scateno, non conto. L’omissione dei sensi non è una materia di scuse, infelice difetto di esecuzione; è un valore affermativo, un modo di affermare l’irresponsabilità del testo, il pluralismo dei sistemi: proprio perché ometto posso dire che leggo». Propongo di considerare I Simpson esattamente un testo “irresponsabile”, ricco in associazioni e connotazioni e perversamente avverso a veder precisate tali connotazioni. La ricchezza di un testo dei Simpson è l’apertura alla connotazione, all’andamento di significanti galleggianti che si raggruppano e si disperdono apparentemente a caso: «Questa citazione fuggevole, questo modo surrettizio e discontinuo di porre un tema, quest’alternanza del flusso e dell’esplosione, definiscono l’andamento della connotazione; i semi sembrano vagare liberamente, formare una galassia di minute informazioni in cui non si può leggere nessun ordine privilegiato». In un testo “classico” i significati alla fine si raggruppano in “senso”, nei Simpson questo raggruppamento viene deferito indefinitamente. L’occhio del leggibile pretende un’uniformità finale, ci porta in una direzione molto prevedibile e culmina con un senso soddisfacente di risoluzione. Ma I Simpson, spostando in prima fila i suoi significanti e dislocandoli allegramente da significati stabili e prevedibili, permette un tipo di lettura più libero, più ricco.

(da David L.G. Arnold, “E il resto si scrive da solo”: Roland Barthes guarda I Simpson, in I Simpson e la filosofia)


mercoledì 22 febbraio 2012

un marxista (karl, non groucho) a springfield

Ci si potrebbe chiedere se la serie dei Simpson sia uno show sovversivo, se sia una forma d'arte che scuote il potere sociale, che critica quelle che Marx chiamava le ideologie dominanti – cioè le credenze, i giudizi e i modi di sentire che una società inculca con il preciso scopo di generare una riproduzione automatica delle sue premesse strutturali, di preservare il potere sociale in assenza di una coercizione diretta.
Effettivamente la comicità dei Simpson si fonda sull'incongruenza, che fa riflettere su idee e convinzioni che diamo per scontate mettendone invece in luce l'aspetto solo abituale e non naturale: riconoscendo e divenendo consapevoli di come normalmente vediamo il mondo, ci allontaneremmo dalla tendenza a pensare per stereotipi, ci vengono dubbi sulle nostre convenzioni, domande sulle nostre regole, abitudini, prospettive consuete. – Homer: Oh mio Dio. Alieni dallo spazio! Non mangiatemi! Ho moglie e figli. Mangiate loro!
E però a Springfield i marxisti non è che siano tanto i benvenuti: il cartone dell'Europa dell'est Lavoratore e Parassita che sostituisce Grattachecca e Fichetto è di una noia mortale, sul propagandista del partito comunista che si presenta allo stadio vengono scagliati pomodori, nonno Simpson si ritrova nel portafogli – oltre a tessere della massoneria e dell'alleanza gay e lesbiche – una tessera del partito comunista a dimostrazione che i comunisti convincono con l'inganno i vecchi rincoglioniti.
Nell'episodio Scene di lotta di classe a Springfield si vede bene come la serie contraddica sempre ciò che sembra pericolosamente avvicinarsi a una visione del mondo di sinistra o ad una qualsiasi presa di posizione politica: Lisa si lascia distrarre da un pony e smette di "lamentarsi", cioè di criticare i ricchi membri del country club, e tutta la famiglia finisce per riconoscere di stare meglio in un "buco" di Krusty Burger, che è il loro posto. Tutto finisce, insomma, nell'accettazione dello status quo, nella restaurazione dell'ordine sociale.
Del resto, non c'è mai simpatia o solidarietà per i lavoratori.
E va bene, forse i Simpson sono "solo" una divertente serie televisiva, però certo i rossi sono talmente cupi, delle persone così serie.

(da James M. Wallace, Un marxista (Karl non Groucho) a Springfield, in I Simpson e la filosofia)

martedì 21 febbraio 2012

difendere la democrazia attraverso la satira

La critica del totalitarismo di Popper si basa sulla distinzione tra società chiusa e società aperta. Secondo Popper la società chiusa è quella in cui i costumi sociali sono particolarmente rigidi e resistenti alla critica, in cui manca la «distinzione fra le regolarità consuetudinarie o convenzionali della vita sociale e le regolarità riscontrate nella natura» e si crede invece che «le une e le altre sono imposte da una volontà sovrannaturale». Di conseguenza, le regole e i costumi della società chiusa sono relativamente chiari e incontestati. «La via giusta è determinata da tabù, da istituzioni tribali magiche che non possono mai diventare oggetto di considerazione critica» (La società aperta e i suoi nemici).
Al contrario, la società aperta è quella in cui i costumi sono aperti alla riflessione razionale dei suoi membri, in cui la riflessione e la discussione pubblica possono produrre cambiamenti nei tabù, nelle regole e nelle leggi codificate della società.
Perché a volte le democrazie sono attratte dal totalitarismo chiuso, per esempio dal nazismo o dal fascismo? In generale Popper pare considerare coloro che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra degli schieramenti politici nemici della società aperta. I rappresentanti di entrambi gli estremi hanno difficoltà a tollerare la libera e aperta discussione pubblica tanto indispensabile a una società aperta. Per di più, entrambi sono insofferenti nei riguardi delle imperfezioni intrinseche del processo democratico e tutti e due sono lesti nel rifiutare la possibilità che le loro opinioni siano sbagliate.
La democrazia è messa in pericolo dalle minacce totalitarie provenienti sia da destra che da sinistra. «Quelli che urlano da un lato e quelli che urlano dall’altro sono uguali, ed è bello stare nel mezzo e ridere di entrambi» (Parker, autore di South Park).
Considerate Cartman. Solitamente viene rappresentato come un ridicolo fanatico di destra, quantunque insolitamente giovane. Antidemocratico e autoritario, Cartman è un bullo egoista che ironizza crudelmente sulle disgrazie altrui e tratta male i suoi animali, fantastica una carriera dedicata al mantenimento dell’ordine pubblico non desiderando aiutare la gente né servire la sua comunità ma, come egli stesso scandisce, volendo persone che soddisfino la sua richiesta «rispetta la mia autorità». Per questi e altri innumerevoli peccati e difetti di carattere, raramente Cartman finisce un episodio senza essere ridicolizzato o punito in qualche modo.
Un ulteriore elemento è quello che Popper definisce il paradosso della tolleranza. Il tipo di tolleranza richiesto per mantenere sana una democrazia richiede, per ironia della sorte, un’intolleranza per l’intolleranza. «Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi».
Quando redasse il Virginia Bill for Establishing Religious Freedom (1777), Thomas Jefferson, già uno dei principali autori della Dichiarazione d’indipendenza americana (1776), riconobbe che l’indagine libera e schietta è l’unico metodo esauriente per ottenere la conoscenza in tutte le questioni importanti, siano esse di carattere scientifico, politico, religioso o altro: «La verità è potente e trionferà se lasciata a se medesima; che è essa l’antidoto adatto e bastevole all’errore e non ha nulla da temere dal conflitto, a meno che non sia privata da un’umana interposizione delle sue armi naturali, il libero ragionamento e la libera discussione. Gli errori cessano dall’essere pericolosi quando le sia consentito di confutarli liberamente».

(da David Valleau e Gerald J. Erion, South Park e la società aperta. Difendere la democrazia attraverso la satira, in South Park e la filosofia)

sabato 18 febbraio 2012

così parlò bart

L'oltreuomo: lo spirito libero teorizzato da Nietzsche, che rifiuta la moralità e le virtù tradizionali, che abbraccia il caos del mondo e conferisce stile al suo carattere, poiché l'esistenza trova una propria giustificazione e redenzione solo come impresa artistica, solo realizzando la vita come un'opera d'arte. Darsi uno stile: «Una sola cosa è necessaria. “Dare uno stile” al proprio carattere: è un’arte grande e rara. L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la sua natura in fatto d’energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico, finché ogni cosa non appare come arte e ragione, e persino la debolezza incanta l’occhio. La costruzione imposta da uno stesso gusto» (Gaia scienza). La creazione di se stessi, l’essere autocreato.
Se Lisa Simpson può rappresentare l'ottimismo etico socratico, la fiducia che la ragione possa aiutare ad agire meglio, il fratello Bart può essere un modello dell'ideale nietzschiano?
La risposta, purtroppo, è no.
Benché l'oltreuomo sfidi l'autorità e la tradizione e ingiuri molte delle cose che normalmente vengono ritenute fondamentali (e possa perciò essere definito un immoralista), tuttavia non è la cattiveria di Nelson e dei suoi compagni – bruti, violenti, irriflessivi – l'ideale nietzschiano, ma neanche Bart, poiché il modo in cui egli si autodefinisce è in larga parte reattivo: non è una qualche trionfante affermazione dei suoi talenti e delle sue abilità, non è un grandioso e creativo ordito dei disparati elementi del suo sé il modo in cui egli crea se stesso, ma lo fa in opposizione all'autorità, così che quando questa scompare Bart perde la sua identità.

BART - Lisa, tutti in città si comportano come me. Perché mi fa tanto schifo allora?
LISA - Semplice. Ti sei definito un ribelle. In assenza di una sovrastruttura repressiva la tua nicchia nella società è stata incorporata.
BART - Capisco.
LISA - Da quando è arrivato quel tizio dell'autoaiuto tu hai perso la tua identità tra le crepe della nostra società pizza pronta, cotto in un'ora, latte liofilizzato.
BART - Qual è la risposta?
LISA - Questa è la tua occasione per sviluppare una nuova e migliore identità. Posso suggerire di far da ciabattina allegra?
BART - Buona idea. Dimmi cosa devo fare.
(Il fanciullo interiore di Bart)

Questo è il pericolo di scivolare nel nichilismo passivo.

(da Mark T. Conard, Così parlò Bart: Nietzsche e la virtù della cattiveria, in I Simpson e la filosofia)

giovedì 16 febbraio 2012

la spinta morale di marge

Marge risulta la più stabile pietra di paragone della moralità. Per risolvere i suoi dilemmi morali, Marge lascia semplicemente che la ragione guidi la sua condotta verso un calibrato e ammirevole bilanciamento tra gli estremi. Aristotele descrive le virtù come giusto mezzo tra due estremi viziosi, uno per eccesso e uno per difetto, e Marge è una persona genuinamente coraggiosa, non una temeraria; per quanto riguarda la temperanza tende a essere più spartana che indulgente eppure non è spilorcia ma generosa tanto quanto la condizione finanziaria instabile della sua famiglia glielo permette; non è opprimente ma non è neanche permissiva. Marge è moderata in tutto ciò che fa: proprio come Aristotele comprende l’importanza del giusto mezzo per una vita virtuosa e agisce scegliendo un bilanciamento tra gli estremi viziosi.
Nonostante la virtù sia sfuggente, Aristotele crede che per chi la trova la ricompensa sia molto alta. Come afferma all’inizio dell’Etica Nicomachea, il fine ultimo della vita umana è la felicità (eudaimonia, distinta dal piacere) e Aristotele afferma che le virtù sono desiderabili perché promuovono la felicità a lungo termine di coloro che le possiedono. Non va frainteso come un mero appello ai propri bisogni egoistici, perché l’uomo è un animale sociale e la sua felicità a lungo termine dipende in gran parte dalla famiglia e dagli amici. Non possiamo raggiungere l’eudaimonia senza l’aiuto degli altri e quindi molte virtù hanno valore proprio perché ci aiutano a coltivare legami profondi con parenti e amici, legami che sono indispensabili per vivere bene. La felicità di Marge ne è un esempio. Ciò che conta di più per lei è il benessere di suo marito e dei suoi figli. È quindi attraverso la felicità della sua famiglia che Marge raggiunge la propria eudaimonia. Vivendo la sua vita secondo le virtù aristoteliche, Marge crea relazioni sociali forti che la rendono profondamente felice.
Secondo Aristotele «è evidente che nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura». Tuttavia abbiamo un’abilità naturale nell’acquisire la virtù attraverso l’abitudine: «Compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate, diventiamo moderati, facendo cose coraggiose, coraggiosi». Le persone virtuose possono quindi rappresentare importanti modelli per il nostro sviluppo morale. Anche Marge sa quanto è importante il suo modello per lo sviluppo morale di Lisa e quello più lento e più disordinato di Bart.
Marge segue la ricetta aristotelica della felicità e della vita morale, e con grande successo. Il bene che cerca di fare quando prende le decisioni è il bene della sua famiglia e quindi il suo. Non si può negare che Marge sia dotata di virtù e neanche che da queste le derivi la felicità. A Marge piace essere coraggiosa, onesta e temperante perché queste qualità l’aiutano ad aiutare la sua famiglia. La sua felicità giustifica la sua vita di virtù aristotelica.

(da Gerald J. Erion e Joseph A. Zeccardi, La spinta morale di Marge, in I Simpson e la filosofia)


mercoledì 15 febbraio 2012

homer e aristotele

Aristotele ci ha fornito una categorizzazione logica di quattro tipi di carattere. Abbiamo il virtuoso, il continente, l’incontinente e il vizioso.
Se Lisa è virtuosa, i suoi desideri andranno di pari passo con la sua giusta decisione e la sua giusta azione. Lenny, che è continente, è capace di dare seguito con l’azione alla sua decisione, ma lo fa andando contro i suoi desideri. L’incontinente è capace di formulare la decisione corretta su cosa fare, ma la sua volontà è debole: Bart soccombe al proprio desiderio e non agisce in modo adeguato. Per quanto riguarda il vizioso, non abbiamo invece né lotta contro i propri desideri né debolezza di volontà, perché la decisione del vizioso è moralmente sbagliata e i suoi desideri l’assecondano pienamente: Nelson è vizioso.
La ragione gioca un ruolo cruciale. Il virtuoso non può essere stupido o ingenuo. Deve possedere capacità di ragionare criticamente che gli permettano di distinguere le differenze nelle situazioni e quindi di essere capace di reagire di conseguenza. Sul ruolo della ragione pratica (phronesis) Aristotele insiste molto: se uno fosse virtuoso per istinto, non possiederebbe la virtù “propriamente detta” ma al massimo la virtù “naturale”. Secondo Aristotele «occorre che chi compie [le azioni] lo faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè innanzitutto che siano compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di esse stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile» (Etica Nicomachea, 1105a30-1105b). L’agente deve sapere che la sua azione è virtuosa, deve agire volontariamente e deve farlo perché l’azione è virtuosa.
Homer rispetto ai suoi appetiti corporei non solo non è virtuoso, ma è decisamente vizioso. È anche un bugiardo patentato. È inoltre insensibile ai bisogni e alle pretese degli altri. Anche le sue abilità di padre e marito lasciano molto a desiderare. Inoltre gli manca la sola virtù intellettuale necessaria a un carattere etico, ovvero la phronesis, la saggezza pratica, la facoltà di muoversi nel mondo con intelligenza, con moralità e con una meta in vista. A Homer sembrano mancare persino le più minime capacità di inferenza, ha capacità di ragionamento minime. Non dobbiamo tuttavia essere troppo duri con Homer, perché qualche volta agisce in modo ammirevole: si dimostra affettuoso e amorevole, in certe occasioni mostra anche del coraggio e dà prova di gentilezza. In alcuni momenti sembra persino rendersi conto dei propri limiti.
Cosa dobbiamo pensare di tutto questo? Non è un modello di virtù, ma certamente non è malevolo. La reazione più dura che abbiamo nei suoi confronti è di pietà. L’educazione, la famiglia, il gene dei Simpson, c’è ben poco che Homer possa fare per migliorarsi. Non ha la stabilità di carattere che contraddistingue il virtuoso: infatti, anche se a volte Homer agisce in modo corretto, le ragioni per cui lo fa in genere sono sballate, o quanto meno ambigue (dobbiamo anche ricordare che in molti casi in cui Homer fa la cosa giusta, deve combattere contro i suoi desideri di fare altrimenti, e che a volte, nonostante sappia cosa dovrebbe essere fatto, sceglie di fare la cosa sbagliata, esibendo debolezza di volontà).
Homer non è virtuoso. Quando si va sul cibo e le bevande cade apertamente nel vizio e nelle altre sfere dell’azione umana ondeggia sempre tra continenza e incontinenza.
La qualità di Homer è la sua “umanità a tutto tondo”, che comprende l’amore per la vita e per il godimento della stessa, nei suoi elementi di base, senza dare troppo peso, se non nessuno, a ciò che pensa la gente, la mancanza di malvagità nel suo comportamento da bambino, l’essere aperto, onesto, persino brutale su chi lui è, cosa vuole e cosa pensa degli altri. Homer ha un tratto degno di ammirazione perché nonostante i suoi mezzi finanziari ed economici modesti, nonostante viva in una città come Springfield, riesce a conservare il suo amore per la vita.

(da Raja Halwani, Homer e Aristotele, in I Simpson e la filosofia)



lunedì 13 febbraio 2012

kyle il filosofo

Kyle in South Park lotta per trovare la cosa giusta da fare in ogni situazione, cerca di trovare e comprendere la vita buona, la vita che deriva dal fare la cosa giusta, la vita che dà senso alla persona che la vive. Come Socrate, Kyle non riesce a trovare la felicità seguendo la tradizione.
Nell’episodio Il racket dei dentini, quando i ragazzi scoprono che la fatina del dentino non esiste, Kyle rimane shoccato e sprofonda sempre di più nello scetticismo: se non può fidarsi della sua fonte di giustificazione, poiché i suoi genitori possono mentirgli su tutto, non può dire con certezza di conoscere alcunché. Potrebbe essere tutto “inventato” quindi “niente è reale”.
Per prima cosa Kyle inizia a dubitare della realtà di altre persone che in precedenza pensava fossero reali. Poi inizia a chiedersi se anche lui sia reale. Per quanto ne sa, Kyle potrebbe condurre una vita di illusione come Neo in Matrix. Senza un modo per giustificare le sue credenze, Kyle è incapace di trovare alcuna certezza sul mondo, compreso se stesso.
Kyle arriva però, alla fine, alla stessa conclusione di Cartesio: «Sapete, oggi ho imparato una cosa. Vedete, la base di ogni ragionamento è l’autoconsapevolezza della mente. Ciò che pensiamo, gli oggetti esterni che percepiamo sono come attori che entrano ed escono di scena. Ma la consapevolezza, che è il palcoscenico stesso, è sempre dentro di noi».

(da William J. Devlin, La passione filosofica dell’ebreo. Kyle il filosofo, in South Park e la filosofia)

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