Pages

Visualizzazione post con etichetta marx. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta marx. Mostra tutti i post

lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

martedì 12 maggio 2015

arte e socialismo

Divenuto socialista pur senza comprendere completamente - per sua stessa ammissione - le dottrine economico-filosofiche di Marx, l'artista e scrittore inglese William Morris nei quattro brevi scritti raccolti in Arte e socialismo presenta un'asserzione chiara e semplice: "è giusto e necessario che tutti gli uomini abbiano un lavoro che valga la pena di essere svolto", uscendo dalle logiche capitalistiche della moda e del lusso che impongono la produzione brutta e sciatta di merci fatte per divenir presto rifiuto, prodotte per essere consumate e passar via; un lavoro onorevole e adatto "che sia piacevole da fare", che consenta di trarre piacere dal lavoro stesso, dalla stessa attività produttiva, sfruttando le invenzioni meccaniche non per far profitto ma per occuparsi di eseguire i compiti fastidiosi e non intelligenti così da lasciare l'uomo libero di innalzare le proprie abilità manuali e mentali e tornare a produrre la bellezza; un lavoro che "se svolto a queste condizioni non sarebbe né troppo faticoso né troppo noioso", lasciando il tempo libero necessario al riposo, al pensiero, all'immaginazione, al sogno; un lavoro che garantisca, così, non solo un salario, ma il rispetto di sé che deriva dall'opportunità di fare un lavoro che sia utile ai nostri simili, che meriti dei ringraziamenti. 
La dignità del lavoro, valore poco considerato in parte per residui di pregiudizi medievali e in parte per la ricerca del profitto e della ricchezza che è il solo scopo del sistema capitalistico; il benessere, e non la semplice ricchezza con la sua inseparabile compagna povertà; l'arte e la bellezza che derivano dall'utilizzo dell'energia umana in modo piacevole, da un lavoro libero e creativo, e che così sono necessarie alla vita, diritti inalienabili, ragione di ogni felicità e scopo dell'esistenza. Questi i tratti dell'utopia immaginata da Morris.

domenica 18 maggio 2014

il superuomo di massa (3di4)

Engels e Marx scriveranno praticamente La sacra famiglia usando I Misteri come oggetto polemico e come filo conduttore, come documento ideologico. Rodolphe scende tra il popolo, cerca di capire il popolo. Il suo socialismo diventa sempre più partecipato, ora piange sulle sventure su cui fa piangere. Certo il limite è tutto qui: piange e fa piangere; proporrà rimedi, ma ne vedremo il limite sentimentalistico, paternalistico e utopistico. Egli si augura che il popolo non sia più nella miseria, che cessi di essere plebe affamata, spinta al delitto suo malgrado, per diventare una plebe sazia, presentabile, che si comporti come si deve, mentre il borghese e gli attuali fabbricanti di leggi resteranno i padroni della Francia. Riformismo edulcorato, ci si augura che muti qualcosa perché tutto resti come prima. La natura riformistico-piccolo-borghese dell’opera è individuata con molta semplicità nella frase “Ah, se i ricchi lo sapessero!”. La morale del libro è che i ricchi possono saperlo e intervenire a sanare con atti di munificenza le piaghe della società. Ma Marx ed Engels vanno oltre: non si accontentano di individuare in Sue la radice riformistica, ma additano l’animo reazionario, subdolo, legittimista. Non possiamo escludere, però, che I Misteri costituissero il primo grado di rivolta che veniva formulato in modo accessibile e immediato, secondo la migliore tradizione del socialismo utopistico. Sue non ha speculato sul popolo. Vi ha creduto realmente. Vi ha creduto da socialista umanitario e utopista, riflettendo i limiti e le contraddizioni di una ideologia confusa e eminentemente sentimentale. Con Sue muore il feuilleton classico. Il barone Haussmann ha già sventrato Parigi l’anno prima. Ha tolto lo scenario per futuri misteri e soprattutto ha impedito che nelle nuove vie larghe e alberate si possano fare barricate di sorta.
(Umberto Eco, Il superuomo di massa)

domenica 21 luglio 2013

esercito di titani

Quando entro nei supermercati illuminati, dove tutto è esposto in scaffalature, dove gente che già sembra oscura per il contatto materiale che ha con la merce sistema carrellate di prodotti, io penso al cono d'ombra che si stende dietro le margarine, gli shampoo, le latte di conserva. Tutto quanto è inanimato, inerte, disponibile e alla mano, ha chiesto il saldo di un'inerzia più dolorosa e sofferta, fatta dei calli interiori di animali grossolani. Un esercito di titani, che l'umanità non vede, è al lavoro per azionare la macchina, per mettere mano ai tiranti e alle catene dei grassi polinsaturi che entrano nelle bocche del pianeta. A ogni bolo ruminato nelle cucine o nei campi profughi, corrisponde una forza pari e contrapposta, spesa dai muscoli e dalle volontà di questi atlanti. Nell'occhio bovino con cui tornano a casa si intravede la scintilla della grande esposizione.
Chi organizza la palude incomincia a ignorare che nel fango cresce una specie anfibia e crudele che rovescerà il suo regno. Gli animali di questa specie sono gli ultimi esemplari di asceti resistenti a tutto, anche a se stessi. 
Il secolo anonimo dei titani è appena all'inizio.

Sembra ritornare il goethiano (ma non solo) apprendista stregone, che si trova impotente a dominare le potenze sotterranee da lui stesso evocate e di cui Marx fa una delle metafore della materiale dialettica storica e della lotta di classe di un esercito di titani che, cresciuti nel fango e ignorati da chi la palude l'ha organizzata, rovescerà alla fine il regno.


giovedì 12 aprile 2012

benvenuti in tempi interessanti

More about Benvenuti in tempi interessanti!Finito il secondo volume della saga I canti di Hyperion, passo in libreria lo stesso giorno per comprare i seguenti due e, girando nel reparto filosofia, mi imbatto tra le novità nel nuovo libro di Slavoj Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, di cui decifro subito il riferimento del titolo alla maledizione cinese contro qualcuno che si odia davvero (e a cui, quindi, si augura di vivere in un periodo di irrequietezza, guerre e lotte) proprio perché l'avevo giusto letta il giorno stesso nel finale della saga fantascientifica di Dan Simmons.
Dopo l'apocalittico Vivere alla fine dei tempi, il "filosofo più pericoloso d'Occidente" ci invita a riflettere sull'era postpolitica dell'economia naturalizzata, che si crede ormai libera da ogni forma di ideologia perché la scienza economica ci mostra ormai i fatti e perché la forma istituzionale dello Stato è ormai un dato ovvio, scontato, garantito, assodato, insomma, naturale – «la cornice democratica dello Stato (borghese) rimane la vacca sacra che anche le forme più radicali di "anticapitalismo etico" non osano mettere in discussione». Ma in realtà «non c'è nulla di "naturale" nella presente crisi» e «il sistema economico globale esistente si basa su una serie di decisioni politiche».
Per affrontare i tempi interessanti che la crisi ci propone e in cui ci sarà da divertirsi, resta invece valida, secondo Žižek, l'intuizione chiave di Marx, secondo cui «la questione della libertà non deve essere situata in primo luogo nella sfera politica vera e propria» perché «il cambiamento di cui abbiamo bisogno non è una riforma politica, ma una trasformazione dei rapporti sociali», il che comporta che la soluzione non possa derivare da elezioni democratiche o da qualche altra misura politica in senso stretto, bensì dalla lotta di classe rivoluzionaria. L'autore concorda con Badiou nel sostenere che il nome del nemico supremo odierno non è tanto capitalismo, o impero, o sfruttamento, ma piuttosto democrazia, intesa come l'accettata e diffusa illusione «che siano i meccanismi democratici a fornire la sola cornice di ogni possibile cambiamento, il che impedisce qualsiasi trasformazione radicale dei rapporti capitalistici».
Non una semplice opposizione alla democrazia parlamentare è però l'invito di Žižek per questi tempi interessanti, ma qualcosa che si muove a un livello radicalmente altro, un impegno non limitato al solo atto di voto, ma che comporti anche «una fedeltà continua a una Causa, un paziente e collettivo "atto d'amore"». Questa Causa l'autore, riprendendo ancora Badiou, la chiama comunismo, inteso come idea regolatrice che è possibile immaginare come la continuativa e «lunga tradizione del millenarismo radicale e delle rivolte egualitarie», come un'eterna idea dello «spirito egualitario mantenuto vivo nell'arco di migliaia di anni in rivolte e sogni utopici, nei movimenti radicali da Spartaco a Thomas Müntzer, incluso all'interno delle grandi religioni», come «un progetto emancipativo condiviso» che ha dato alimento «alla democrazia dell'antica Grecia, alla rivoluzione francese e a quella russa».
Con un collettivo atto d'amore impegnarsi e lottare per «prendere in modo eroico qualsiasi potere sia accessibile e, controcorrente, fare quello che si può»; una scommessa senza alcuna garanzia esterna, un correre «il rischio di compiere passi nell'abisso del Nuovo in situazioni completamente inaudite».

mercoledì 22 febbraio 2012

un marxista (karl, non groucho) a springfield

Ci si potrebbe chiedere se la serie dei Simpson sia uno show sovversivo, se sia una forma d'arte che scuote il potere sociale, che critica quelle che Marx chiamava le ideologie dominanti – cioè le credenze, i giudizi e i modi di sentire che una società inculca con il preciso scopo di generare una riproduzione automatica delle sue premesse strutturali, di preservare il potere sociale in assenza di una coercizione diretta.
Effettivamente la comicità dei Simpson si fonda sull'incongruenza, che fa riflettere su idee e convinzioni che diamo per scontate mettendone invece in luce l'aspetto solo abituale e non naturale: riconoscendo e divenendo consapevoli di come normalmente vediamo il mondo, ci allontaneremmo dalla tendenza a pensare per stereotipi, ci vengono dubbi sulle nostre convenzioni, domande sulle nostre regole, abitudini, prospettive consuete. – Homer: Oh mio Dio. Alieni dallo spazio! Non mangiatemi! Ho moglie e figli. Mangiate loro!
E però a Springfield i marxisti non è che siano tanto i benvenuti: il cartone dell'Europa dell'est Lavoratore e Parassita che sostituisce Grattachecca e Fichetto è di una noia mortale, sul propagandista del partito comunista che si presenta allo stadio vengono scagliati pomodori, nonno Simpson si ritrova nel portafogli – oltre a tessere della massoneria e dell'alleanza gay e lesbiche – una tessera del partito comunista a dimostrazione che i comunisti convincono con l'inganno i vecchi rincoglioniti.
Nell'episodio Scene di lotta di classe a Springfield si vede bene come la serie contraddica sempre ciò che sembra pericolosamente avvicinarsi a una visione del mondo di sinistra o ad una qualsiasi presa di posizione politica: Lisa si lascia distrarre da un pony e smette di "lamentarsi", cioè di criticare i ricchi membri del country club, e tutta la famiglia finisce per riconoscere di stare meglio in un "buco" di Krusty Burger, che è il loro posto. Tutto finisce, insomma, nell'accettazione dello status quo, nella restaurazione dell'ordine sociale.
Del resto, non c'è mai simpatia o solidarietà per i lavoratori.
E va bene, forse i Simpson sono "solo" una divertente serie televisiva, però certo i rossi sono talmente cupi, delle persone così serie.

(da James M. Wallace, Un marxista (Karl non Groucho) a Springfield, in I Simpson e la filosofia)

venerdì 30 dicembre 2011

mosè

Savonarola può essere visto come esempio del confluire di due tradizioni che non rifuggono dall’ira: quella dell’aristotelismo tomistico spesso adottato dall’ordine domenicano e quello della tradizione dell’ira di Dio, che riferisce alla fabbricazione del vitello d’oro, allo scatto d’ira di Mosè che spezza le tavole della legge, all’uccisione delle tremila persone colpevoli di una regressione a divinità dagli uomini. Il modello di Mosè quale emancipatore del suo popolo sta alla base della nostra immagine di rivoluzione. Tutte le rivoluzioni moderne considerano le fasi di transizione, l’attraversamento del deserto, come il momento in cui occorre la durezza affinché non si perda la fede nella Terra Promessa e nella sua invisibile necessità, dettata dalla nuova divinità che è la Storia.
Anche per Machiavelli è necessario far uccidere coloro che sono impossibilitati a comprendere il nuovo. «Tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbero potuto fare osservare loro lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati». Diversamente da Savonarola, Papa Giulio II Della Rovere non era un profeta disarmato. Questo combattivo Papa «procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con furia». Non per nulla, sulla sua tomba in San Pietro in Vincoli Michelangelo ha potentemente messo al centro il suo Mosè, nel momento in cui sta per cedere all’ira e spezzare le tavole della Legge.
Nel Mosè e Aronne di Schönberg si presenta la complementarietà antagonistica tra i due fratelli: da un lato vi è Mosè, il rappresentante della legge, della parola essenziale, del pensiero senza immagini, della trascendenza; dall’altro lato vi è Aronne, che dona al popolo immagini visibili, fatte dall’uomo, in grado di compiere miracoli, attorno alle quali sono lecite l’anarchia e le orge. Si tratta di una polarità ineliminabile.
Noto è l’episodio di un dibattito tra un rappresentante del Partito Comunista Tedesco e uno del Partito Nazional-Socialista Tedesco. Il comunista infarcì il suo discorso di cifre, di citazioni dal Capitale di Marx, discettò sulla caduta del saggio medio di profitto; il nazionalsocialista al contrario fece ricorso al mito, alle immagini, all’emotività, assimilò comunismo e capitalismo in quanto fattori di disumanizzazione e di prevalenza delle macchine, toccò le corde profonde dei presenti e alla fine uscì trionfalmente vincitore da questo duello oratorio convincendo delle sue idee anche chi era contrario.

(Remo Bodei, Il Mosè di Schönberg e quello di Machiavelli, in AA.VV., Figure del conflitto)

venerdì 11 novembre 2011

l'apprendista stregone

«La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate», scriveva Marx nel Manifesto del Partito Comunista, utilizzando, per spiegare come l'avvento del socialismo sarebbe stata una necessità storica prodotta dallo stesso sviluppo dialettico del capitalismo – che aveva generato gli stessi uomini e armi che lo avrebbero abbattuto – una metafora tratta dalla ballata di Goethe L'apprendista stregone.
Composta nel 1797 e ispirata a un episodio de L'amante del falso di Luciano di Samosata, la ballata di Goethe racconta di un giovane apprendista che, ricevuto dal maestro l'ordine di pulire le stanze durante la sua assenza, si serve di un incantesimo  per dare vita a una scopa che compia il lavoro al posto suo. La scopa agisce come le è stato ordinato, ma finisce per allagare le stanze, senza che l'apprendista sappia come fermarla se non provando a spezzarla in due con l'accetta, ma ottenendo il solo risultato di raddoppiarla. Solo il ritorno del maestro stregone rimedierà al disastro.
Dall'opera letteraria, il compositore francese Paul Dukas ricavò l'impianto di un poema sinfonico, e alla storia si è ispirato anche un episodio del film d'animazione Disney Fantasia  con protagonista Topolino , a sua volta parodiato da Grattachecca e Fichetto in un episodio de I Simpson.

sabato 15 ottobre 2011

tutte le arti sulla punta delle dita

L'artista e scrittore inglese William Morris, pur confessando di non comprendere completamente le dottrine economiche di Marx ma di essere comunque affascinato dalle sue analisi storiche, confessa di essere divenuto socialista per l'odio provato nei confronti di una civilizzazione che «ha ridotto il lavoratore ad una forma di esistenza così scarna e pietosa che egli a mala pena è in grado di dar forma al desiderio per un tipo di vita migliore rispetto a quella che è ora costretto a condurre». Si fa dunque necessario «comporre davanti a lui il vero ideale di una vita piena e ragionevole, una vita in cui la percezione e la creazione della bellezza, godimento del vero piacere, siano sentiti come tanto necessari all'uomo quanto il suo pane quotidiano, e in cui nessun uomo o gruppo di uomini possano esserne privati».
La società del futuro ipotizzata da Morris prevede migliori condizioni materiali di vita e la liberazione dalla fatica del lavoro, trasformato nel libero e piacevole esercizio delle proprie energie, cui fa seguito il godimento del necessario riposo. Affinché ciò sia possibile «quelli che possono e sanno usare i mezzi di produzione della ricchezza dovrebbero avere tutta l'opportunità di farlo, senza essere costretti a cedere la gran parte della ricchezza che hanno creato ad un irresponsabile proprietario dei mezzi di produzione». 
L'invito che Morris rivolge all'uomo è: «scopri cosa tu stesso trovi piacevole e fallo, svilupperai una vita socievole nello sviluppare le tue speciali tendenze». «Ognuno dovrebbe avere sulla punta delle proprie dita tutte le forme elementari di arti» cosicché, armato con queste, «qualsiasi percorso egli possa voler intraprendere per l'esercizio delle proprie energie, troverebbe la comunità pronta ad aiutarlo con insegnamenti, opportunità e materiali». Il piacere dello sviluppo intellettuale, di una vita sensuale e della creazione della bellezza, sarebbe il tratto di questa società socialista.


 

giovedì 26 maggio 2011

il tempo di una sigaretta

More about Essere senza tempoÈ merito di Norbert Elias aver mostrato nel suo Saggio sul tempo (1984) come e in che modo la moderna «società disciplinare» abbia costretto l’uomo a interiorizzare e ad accettare come «naturali» le strutture del nuovo tempo della storia, come il tempo dell’esistenza sia una variabile dipendente dai ritmi della società e dei suoi processi di trasformazione. Non vi è ambito dell’esistenza umana che non sia stato travolto dal processo di accelerazione che ha elettrizzato la modernità in ogni sua determinazione («mobilitazione totale» è l’espressione di Ernst Jünger) e la differenza tra «tempo della vita» e «tempo del mondo» si è gradualmente trasformata in un abisso (Hans Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, 1986): il primo, con i suoi ritmi biologici, naturali, ciclici, è stato costretto ad adeguarsi ai tempi linearizzati e sempre più rapidi della storia, sia sul lato socio-politico, sia su quello tecnico-scientifico ed economico, le attività umane sono state chiamate a fare propri i tempi incalzanti della storia uniformandosi al loro andamento accelerato e, di conseguenza, mettendosi esse stesse al galoppo, nella costante sensazione che fosse sempre troppo scarso il tempo a disposizione per agire in un mondo in cui tutto procede così concitatamente.
Ma c’è una differenza capitale tra la tradizione del tema della brevità dell’esistenza umana e del tempo scarso (Seneca, Orazio) e la concezione moderna: per la prima il tempo è comunque inteso come un possesso pienamente umano, di cui noi stessi siamo amministratori e possiamo saggiamente ottimizzarlo; con la modernità il tempo si autonomizza e diventa padrone della nostra esistenza.
Il caffè è trasformato ben presto in metafora della sobrietà e dunque della razionalità illuministica, oltre che della produttività in grado di accelerare se stessa convertendo in ore lavorative quelle tradizionalmente consacrate al riposo (il sonno dell’organismo è accusato di frenare la produzione e l’incremento dei suoi ritmi). La rivista fondata da Pietro Verri e dal suo gruppo, nel 1764, venne intitolata «Il Caffè» anche perché voleva essere un tributo a quella bevanda miracolosa, emblema della lucidità della ragione. Nell’Histoire de France, Michelet si spinge a salutare il caffè come la bevanda che aveva riportato alla sobrietà un’intera epoca, svegliando l’umanità dal suo torpore millenario. Trovava un suo alleato nel caffè non soltanto la ragione, che grazie ad esso poteva essere ancora più vigile e desta, ma anche la produzione industriale, a cui la «bevanda nera» garantiva corpi scattanti, veloci e iperattivi, nemici dell’ozio e della lentezza. È come se il caffè avesse contribuito a plasmare un nuovo «corpo razionalistico e borghesemente progressista» (Schivelbusch, Il paradiso, il gusto e il buonsenso), sempre sveglio, agile, perfettamente funzionale allo «spirito borghese» e alla sua tensione alla valorizzazione del profitto: il caffè rivestì la funzione di sincronizzare la vita umana con i ritmi accelerati della modernità, favorendo l’accelerazione della storia. 
Particolarmente significativo è il fatto che l’aristocrazia, per tutto il secolo XVIII, volle mantenersi con sospetto a debita distanza dal caffè, preferendo un’altra bevanda, la cioccolata, che sembra sortire esiti opposti, favorendo «quello stadio intermedio fra il giacere e lo stare seduti» (ibid.), diventando così una rivendicazione dei ritmi «molli» e pacati del mondo premoderno. 
Non va del resto trascurata la diffusione dell’acquavite: anch’essa frutto dell’accelerazione avviata dalla Rivoluzione industriale e da quella francese, intercetta il favore soprattutto della classe operaia. Il caffè fu borghese, la cioccolata fu aristocratica e l’acquavite fu per sua vocazione proletaria: essa permetteva ai lavoratori salariati di ubriacarsi in tempi rapidissimi, trovando nell’alcol – come ricorda Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 – la sola fuga momentanea dalla propria condizione alienata. Di fronte alla velocità vertiginosa della vita in fabbrica, l’operaio reagisce a casa velocizzando il tempo di abbandono della propria sobrietà, quasi come se non aspirasse ad altro se non a congedarsi al più presto, almeno temporaneamente, dai ritmi insostenibili del sistema capitalistico e della sua razionalità produttivistica, attraverso una fuga verso l’ubriacatura accelerata. 
Nella Certosa di Parma (1838) di Stendhal, nel vortice degli eventi della battaglia di Waterloo, Fabrizio perde l’orientamento, tra palle di cannone fischianti, disertori allo sbaraglio e furti di cavalli e, al culmine dello spaesamento, non vede altra soluzione che trangugiare avidamente l’acquavite per non essere travolto da quei ritmi frenetici: «la massimizzazione dell’effetto, l’accelerazione dei tempi e la riduzione del prezzo fanno dell’acquavite un vero prodotto della rivoluzione industriale» (ibid.) e della sua smania di ottenere risultati massimi nel minor tempo possibile, in una vera e propria «fretta etilistica». Quest’ultima è elogiata, nel 1863, da Baudelaire: «per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare» (Enivrez-vous). 
D’altra parte, il processo di velocizzazione dei tempi della vita affiora in modo lampante non soltanto dalle particolari bevande che vanno diffondendosi, ma anche dal modo specifico in cui cominciano a essere consumate: nei locali vanno sempre più affermandosi i «banconi», che affiancano i tavoli e che rendono possibile una abbreviata permanenza nel locale.
Se dall’ambito dei beni liquidi si sposta l’attenzione a quello di un altro genere voluttuario – il fumo –, ci si imbatte in analoghe testimonianze dell’accelerazione dei tempi della vita. Nella misura in cui «il tempo stringe», diventa indispensabile ridurre al minimo gli intervalli di tempo libero, accorciando il più possibile anche le pause dedicate al fumo: in particolare, «nella storia del fumo questa fretta si manifesta nella semplificazione e nell’abbreviazione dei procedimenti usati per fumare» (Schivelbusch, ibid.) e nella sequenza di diversi strumenti porta dalla pipa al sigaro, e da questo alla sigaretta. La sigaretta si trasforma in una nuova e uniforme unità di tempo – il «tempo di una sigaretta».

giovedì 5 maggio 2011

il triste tropico del dottor manhattan (2di2)

È del tutto evidente, a questo punto, che in Watchmen l’alternativa tra il cinismo amorale del Comico e la ragione calcolante di Ozymandias è più apparente che reale. Anche per Ozymandias gli uomini non sono in grado di governarsi: sono la malattia, non il sintomo. L’umanità deve essere assoggettata ad una “luminosa trasformazione”. E anche tra Ozymandias e Rorschach, al di là delle differenze espressive, ciò che è comune è l’essenziale. Il motto kantiano fiat lex, pereat mundus potrebbe essere il loro: la coerenza della ragione è tutto, i mezzi e i costi sono irrilevanti o sopportabili. La similitudine tra i due spiega molto bene l’affinità tra il Despota totalitario che cerca di costringere e immobilizzare la totalità di ciò che è significabile e conoscibile all’interno della propria verità, e il tecnocrate che pretende di dettare, con il proprio sapere tecnico-funzionale, il ritmo della società e del senso che al suo interno si produce. Nel caso di Rorschach l’annuncio della fine del mondo come punizione per i peccati dell’Umanità, nel caso di Ozymandias la nuova Utopia dell’umanità salvata dall’inferno dalla nuova guida. In ambedue i casi la cifra del significante è la dimensione religiosa: si tratta di sapere solo se questo dio sia vendicativo o misericordioso.
Per rimuovere la sofferenza, l’ingiustizia, la miseria, scriveva il giovane Marx, non basta studiare il mondo: bisogna cambiarlo. Nella prassi. A loro modo, gli eroi mascherati di Watchmen hanno cercato l’anello che non tiene in questa catena: il rigore senza mediazione del “kantiano” Rorschach, il decisionismo cinico del Comico, l’illuminismo imperialistico di Ozymandias. Ma, ribatte l’etnologo Lévi-Strauss, «a che serve agire se il pensiero che guida l’azione conduce alla scoperta dell’assenza di senso?» (Tristi tropici). Ma la sofferenza di un singolo essere umano – Laurie Juspeczyk/Silk Spectre II –, l’improbabile catena combinazione di eventi che determina la sua sofferenza, il “miracolo termodinamico”, è ciò che conferisce senso alla sua esistenza, e con la sua a quella di chiunque al mondo: è questa scoperta del senso che si genera a dispetto della sua improbabilità a spingere Manhattan a lasciare Marte e ritornare sulla Terra per cercare di fermare Ozymandias. Il senso è creazione, è un prodotto, un effetto scaturito dalla combinazione di elementi che di per sé non sono significanti. Il non-senso, il casuale, l’imprevedibile non è la negazione del senso, ma ciò che lo precede, ciò che lo produce. C’è sempre un eccesso, una sovrapproduzione di senso, come sanno lo sguardo di Manhattan e la scienza di Lévi-Strauss: proprio per questo, ciò che chiamiamo “senso” è una scelta che dev’essere fatta, un gesto. Il senso non viene prima, dev’essere prodotto proprio perché non viene, ma c’è. Viene dopo, non va riconosciuto come Verità, ma creato. Creare un mondo nel quale sia possibile pensare questo senso – nel quale nessuno sarà guardato da un Guardiano – è un compito politico, dunque culturale.

(da Girolamo De Michele, Watchmen (Il triste tropico del Dottor Manhattan), in Pop filosofia)

ShareThis