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mercoledì 13 febbraio 2019

filosofia come narrazione complessa

Uno spettro si aggira nel discorso filosofico del Novecento: la letteratura come altra forma di scrittura al di là dei limiti del logos. Un fantasma, quello della letteratura, al contempo desiderato e forcluso dalla filosofia, mai del tutto attraversato per incontrare il reale della scrittura in una nuova forma. Ecco ciò che è stato mancato dalla filosofia, secondo il filosofo Simone Regazzoni
In questo Iperomanzo - saggio da leggersi in coppia con la recente monografia su Derrida pubblicata presso Feltrinelli - Regazzoni prospetta la fine della separazione tra filosofia e mimesis poetica, il cui antico dissidio Platone poneva all'origine della specificità filosofica: un andare verso-l'origine-oltre-la-fine della filosofia attraverso il ricongiungimento tra filosofia e poesia. Ecco l'ingiunzione per la filosofia: misurarsi, fino in fondo, con la propria fine come esaurimento di ciò che la filosofia può pensare in forma argomentativa, reinventare la propria scrittura.
È Nietzsche che aveva iniziato a portare la filosofia oltre se stessa, attraverso una pratica di scrittura che non rimanda più a una qualche verità da scoprire o enunciare. Il mondo divenuto favola non si lascia più concipere, cioè afferrare dal concetto, non si lascia più dire nella forma di un discorso vero. La finzione è un elemento costitutivo della realtà, ed è proprio perché sono venute meno l'idea di realtà e di verità come qualcosa di presente, stabile, afferrabile attraverso il logos, dicibile in un discorso razionale, che la filosofia deve trovare, attraverso la letteratura, una nuova forma di pensiero in grado di misurarsi con la complessità. La filosofia diviene operazione di stile, che con Nietzsche dà vita a pagine tra le più alte che la letteratura tedesca abbia conosciuto. Nel Novecento, Ermeneutica e decostruzione sono state forme di preparazione all'assolutamente nuovo che è la letteratura, tuttavia esse non hanno mai messo davvero in atto la letteratura ma si sono limitate a dichiararla, vale a dire ancora recuperarla in un logos: essa, invece, andrà praticata, scritta. Dunque, occorre alla filosofia un gesto che vada al di là della decostruzione dell'apparato della razionalità metafisica, di cui sono state mostrate le aporie, l'instabilità dei margini, l'impossibilità di funzionare secondo un sogno di purezza che non avrà mai luogo; occorre alla filosofia misurarsi fino in fondo con un mondo vero diventato favola. Oggi, secondo Regazzoni,  pensare la filosofia significa, inevitabilmente, pensare il romanzo: "romanzo" è dunque il nome dell'impasse attorno a cui è ruotata e ruota la questione della fine e del superamento della metafisica come pratica di un pensiero che pensa altrimenti, al di là del monologos, al di là del concetto, al di là della teoria.
Le tappe della storia di questa impasse ricostruita da Regazzoni comprendono, tra gli altri, Barthes, Derrida ed Eco.
Roland Barthes ha dato corpo alla scrittura della preparazione, alla simulazione dell'opera in corso, a uno spazio di indecisione e indistinzione tra teoria e scrittura, saggio e romanzo, filosofia e letteratura. Ma questa preparazione del romanzo sarà solo la storia interiore di un uomo che vuole scrivere e non avrà nulla di un thriller, ahimè - dispiacere, rimpianto, rammarico, pentimento, dello stesso Barthes.
Anche Jacques Derrida, nella sua infinita preparazione all'opera impossibile, nell'infinito intrattenimento della sua filosofia con il fantasma della letteratura, non ha mai scritto il desiderato libro impossibile da scrivere, illeggibile, impensabile per il suo stesso autore. Eppure esso rappresenta il centro vuoto che orienta la scrittura del filosofo francese. La resistenza dell'esistenza al concetto di sistema, la singolarità dell'esperienza nel suo rapporto con la lingua, orientano la filosofia di Derrida come ricerca di una scrittura singolare, idiomatica e autobiografica, che eccede l'orizzonte del senso e l'astrazione della pura teoria: questa è stata la pratica costante di Derrida e la specificità e la grandezza del suo pensiero. Ma il suo limite è stato quello di una strategia testuale segnata da un'idea avanguardistica di letteratura in cui la narrazione è negata, legata a un contesto culturale in cui la letteratura era vista essenzialmente come operazione di stile, gesto di rottura con la forma del romanzo classico.
È la neoavanguardia italiana che comincia a riflettere sui limiti delle strategie di sovversione semantica, di illeggibilità, e rivaluta, in nuove forme, trama, avventura, azione, recuperando la dimensione la narrazione, l'intreccio. Con Il nome della rosa Umberto Eco produce un romanzo sperimentale e insieme popolare, in cui l'avanguardia si compie nel pop e in cui avviene la riunificazione di filosofia e narrazioneil superamento delle impasses teoretiche della filosofia del Novecento avviene così con un thriller che vende milioni di copie in tutto il mondo. Grazie a un intreccio forte, un plot, un mythosEco fa del romanzo uno spazio filosofico, non scrivendo romanzi filosofici nel senso di romanzi con una tesi, come aveva fatto Sartre, ma realizzando, invece, lo spazio per un pensiero filosofico altro: lo spazio in cui pensare ciò che non si può teorizzare, lo spazio di una filosofia che eccede i limiti del logos.
Bisogna partire da Eco, dunque, ma anche andare al di là di Eco stesso: l'ulteriore sfida è quella del polymythos, della molteplicità delle linee narrative e delle trame. La sfida della multitrama è quella che è stata fallita dal cosiddetto romanzo massimalista, nel quale l'esuberanza diegetica segue un principio addizionale e della digressione, un accumulo senza fine che va verso il caos, verso l'esplosione della trama come principio d'ordine. Per eccesso di narrazione, quindi, viene nuovamente meno la trama, ed è questo il limite delle opere di Pynchon, Wallace o Bolaño, cedere sotto il peso della molteplicità del narrabile. 
È necessario, invece, narrare senza perdersi in essa, ed è ciò in cui riesce la più potente invenzione narrativa degli ultimi vent'anni, la nuova serialità televisiva, la complex TV. Ancora una volta, dopo Eco, è dunque nello spazio della popular culture che avviene la sintesi più avanzata e innovativa delle grandi questioni sollevate alla frontiera tra filosofia e letteratura nel corso del Novecento: universi narrativi iper-diegetici, multiplot, che affrontano grandi questioni etiche, politiche, esistenziali, metafisiche. La complessità dell'iperserialità non è solo legata alla molteplicità delle linee narrative, ma anche all'ibridazione di generi e stili, al gioco intertestuale di citazioni e rinvii, che danno vita a un testo stratificato.
Come può, dunque, la filosofia pensare ciò che non si lascia più cogliere nelle maglie del logos, di un discorso teorico che enunci una tesi vera sul mondo? La risposta di Regazzoni è mettendo in discussione l'idea di mondo come totalità dotata di senso, l'idea di unità e unicità del mondo, rompendo con la dimensione di un pensiero che sia uno, con la volontà mono-logica del filosofo che pensa, che esprime il proprio pensiero come uno. Un pensiero polifonico, dunque, che può realizzarsi solo nell'apertura radicale al molteplice data da una modalità di scrittura sistematicamente tesa a produrre pensieri che l'autore non sa di pensare, a produrre mondi con un'autonomia interiore in cui le voci dei personaggi sfuggono al proprio autore.
In questo gioco dei mondi il pensiero sfugge strutturalmente al proprio autore, si fa molteplicità attraverso letture cui l'autore non avrà nemmeno pensato. Questo iperomanzo,  macchina per produrre molteplici interpretazioni, non è altro che la forma di scrittura che si fa carico nel modo più radicale della decostruzione del logos come monologismo, che pensa il gioco dei mondi, che si fa spazio eracliteo di gioco e di conflitto di un pensiero plurale senza sintesi. 
È così che si eredita la decostruzione, rispondendo all'esigenza di una nuova forma di presentazione per la filosofia, all'esigenza di una nuova modalità di pensiero che, giunto al punto di esaurimento del proprio possibile come possibile di un "io penso", si apra a una dimensione altra di scrittura in grado di ospitare un pensiero molteplice. Bisogna attraversare la fine di una forma storica di discorso che ha preteso di distinguersi, in quanto dominio del logos, dalla narrazione-mythos, fine che è nuovo inizio della filosofia come narrazione complessa, come pensiero che si affida alla plurivocità della narrazione come modalità di discorso che si misura con ciò che non può essere detto semplicemente in un discorso dotato di significato ma che deve essere raccolto in una trama, non dedotto ma narrato.
Il romanzo pensa, un pensiero a molti mondi in cui l'ultima parola del pensiero è lasciata all'altro.

lunedì 27 febbraio 2012

barthes guarda bart

Barthes ha affrontato il tema della decifrazione del modo in cui le immagini si “codificano”, come si caricano di significato in un saggio del 1964 intitolato Retorica dell’immagine, in cui esamina i modi in cui un’immagine funziona sia a livello di “connotazione” sia a livello di “denotazione”. Le immagini sembrano significati iconici o motivati (significato denotativo), tuttavia «non si incontra mai un’immagine letterale allo stato puro», nessun disegno o nessuna fotografia ci giunge se non come parte di un messaggio, come parte del tentativo di qualcuno di comunicare qualcosa (significato connotativo), come messaggio culturale specifico sovrimposto al significato denotativo dell’immagine. La fotografia sembra «un messaggio senza codice», un tipo di significante naturale, non mediato ma «gli interventi dell’uomo sulla fotografia (inquadratura, distanza, luce, flou, ecc.) appartengono effettivamente tutti al piano della connotazione», questi tratti sono parte della costruziosità della fotografia. La qualità del messaggio fotografico è la sua capacità di azzittire la sua stessa codifica, di farci dimenticare che è stata costruita (mito del “naturale” fotografico). Queste idee si applicano analogamente alle immagini che vediamo in televisione, immagini che sono sostanzialmente manipolate, costruite, fabbricate, ma che tendiamo a ricevere molto passivamente come indici affidabili della natura e della realtà.
La grande energia dei Simpson è prodotta proprio dal conflitto tra il riconoscimento della qualità molto mediata e non realistica dei significanti e la comprensione che, ciò nonostante, essi assomigliano a una realtà conoscibile. Un disegno come un personaggio dei Simpson  mette in mostra una grande misura di convenzionalizzazione: sono disegni altamente stilizzati, nondimeno li riconosciamo come rappresentazioni di certi aspetti della società. Il fatto che i personaggi con tutta evidenza non sono proprio umani aumenta la loro capacità di funzionare come significanti satirici, permettendo di avventurarsi nel regno del ridicolo molto più profondamente di quanto potrebbero fare attori umani o disegni realistici, guadagnando una libertà d’azione illimitata in ciò che possono descrivere o suggerire conservando tuttavia la capacità di esprimere riferimenti sempre in primissimo piano. Ricordando costantemente che i personaggi non sono reali, aumenta il grado in cui noi li recepiamo come significanti con la capacità di rappresentare le cose. Volando per così dire sotto il radar delle nostre menti razionali, lo show ci spinge con calma, come un virus, ad abbassare le nostre difese intellettuali, e poi ci infetta con idee satiriche e sovversive.
Barthes in S/Z, pubblicato nel 1970, definisce come “classico” un testo chiuso alle possibilità della connotazione. Un testo di tal genere funziona su un livello puramente denotativo, e il lettore non viene mai incoraggiato a speculare oltre ciò che il narratore o un’altra voce autorale affermano. Ciò implica una specie di legge o religione della lettura “corretta”: il lettore non può “scrivere” il testo né può aggiungervi cose sostanziali. Barthes definisce questi testi “leggibili”. All’opposto troviamo il testo “scrivibile” o “plurale”, un testo che incoraggia la libera interrelazione sia da parte dello scrittore sia da parte del lettore, che è ricco di connotazioni, che è di fatto aperto in relazione al suo significato ultimo: «I nomi si chiamano, si raccolgono e il loro raggrupparsi vuole a sua volta un nuovo nome: nomino, denomino, rinomino: così passa il testo: è un nominare in atto, un’approssimazione instancabile, un lavoro metonimico. La lettura non consiste nel fermare il succedersi dei sistemi, nel fondare una verità, una legalità nel testo e nel provocare, di conseguenza, gli “errori” del lettore: passo, attraverso, articolo, scateno, non conto. L’omissione dei sensi non è una materia di scuse, infelice difetto di esecuzione; è un valore affermativo, un modo di affermare l’irresponsabilità del testo, il pluralismo dei sistemi: proprio perché ometto posso dire che leggo». Propongo di considerare I Simpson esattamente un testo “irresponsabile”, ricco in associazioni e connotazioni e perversamente avverso a veder precisate tali connotazioni. La ricchezza di un testo dei Simpson è l’apertura alla connotazione, all’andamento di significanti galleggianti che si raggruppano e si disperdono apparentemente a caso: «Questa citazione fuggevole, questo modo surrettizio e discontinuo di porre un tema, quest’alternanza del flusso e dell’esplosione, definiscono l’andamento della connotazione; i semi sembrano vagare liberamente, formare una galassia di minute informazioni in cui non si può leggere nessun ordine privilegiato». In un testo “classico” i significati alla fine si raggruppano in “senso”, nei Simpson questo raggruppamento viene deferito indefinitamente. L’occhio del leggibile pretende un’uniformità finale, ci porta in una direzione molto prevedibile e culmina con un senso soddisfacente di risoluzione. Ma I Simpson, spostando in prima fila i suoi significanti e dislocandoli allegramente da significati stabili e prevedibili, permette un tipo di lettura più libero, più ricco.

(da David L.G. Arnold, “E il resto si scrive da solo”: Roland Barthes guarda I Simpson, in I Simpson e la filosofia)


venerdì 11 marzo 2011

un videogioco scrivibile

La molteplicità di personaggi giocabili permette ai giocatori più strade all’interno di un testo. Roland Barthes chiamerebbe Final Fantasy VII un testo scrivibile, perché i giocatori assumono un ruolo attivo nel produrre la narrazione del gioco attraverso la propria personale esperienza del gioco. Barthes credeva che gli scrittori dovessero riempire i propri testi con significanti, permettendo ai lettori di interpretarli da soli e così produrre il testo. I significanti contenuti nei personaggi di FFVII sono quegli elementi che possono essere manipolati dai giocatori. Potremmo chiamarli adattamenti (customizations). Questi variabili adattamenti non solo incrementano ulteriormente il numero di significanti contenuti da ogni personaggio, ma inoltre consentono ai giocatori di alterare questi significanti per adattarli ai propri fini.
I designer di giochi diventano “architetti narrativi” che progettano e costruiscono spazi di gioco nei quali i giocatori possano sperimentare narrazioni.
Crisis Core – prequel di FFVIIè un gioco in cui i giocatori sanno che i personaggi giocabili dovranno morire allo scopo di completare la narrazione. Questo significa che il gioco non può essere battuto. La ricompensa ultima nel giocare Crisis Core non è sconfiggere il gioco, ma sperimentare il mondo di Gaia attraverso gli occhi di Zack e interpretare il testo attraverso la sua collezione di significanti. È l’espressione definitiva del testo scrivibile di Barthes – un testo che il fruitore vuole espandere rivalutando il nucleo narrativo attraverso altri punti d’ingresso.

(da Benjamin Chandler, The spiky-haired mercenary vs. the French narrative theorist: Final Fantasy VII and the writerly text, in Final Fantasy and Philosophy)

 

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