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sabato 30 agosto 2025

nietzsche in solo leveling

Oltre che nei romanzi fantascientifici di Warhammer, Friedrich Nietzsche è citato anche in un anime di cui ho recentemente recuperato la visione, Solo Leveling. Si tratta di una serie sudcoreana scritta e illustrata da Chugong, che narra le vicende dell'Hunter Sung Jinwoo e delle prove che deve affrontare per diventare più forte.

Ancora una volta, è citato l'aforisma nietzscheano della lotta coi mostri e dello sguardo nell'abisso. Inoltre, successivamente, si cita il detto per cui ciò che non ci uccide ci rende più forti.



venerdì 29 agosto 2025

nietzsche nel xxxi millennio

Ho sempre praticato l'universo fantasy di Warhammer, ma da un anno ho iniziato a addentrarmi anche in quello fantascientifico, leggendo un po' di lore in romanzi e manuali, e ovviamente acquistando qualche miniatura. In particolare, sto leggendo la saga The Horus Heresy, ambientata nel XXXI millennio, cioè 10.000 anni prima del classico Warhammer 40K. Nel quarto volume che sto concludendo di leggere, scopro che Friedrich Nietzsche è ancora almeno in parte noto a quell'altezza storica, sideralmente lontana dall'oggi, perché se ne cita un aforisma. 
Riporto qui il passo.

Era impossibile comprendere la natura dello spazio warp. L'oceano agitato e ribollente di non-materia grezza era psicoattivo. Era in egual misura un prodotto della psiche di coloro che lo osservavano e una distesa mutevole animata di volontà propria. Una volta, sulla Terra Antica, un filosofo aveva detto che se un uomo avesse guardato troppo a lungo nell'abisso, l'abisso avrebbe guardato in lui. Mai come nell'immaterium quel detto si dimostrava veritiero. Il warp era uno specchio delle emozioni di ogni essere vivente, un mare di turbolenti echi cognitivi, i filamenti oscuri di ogni desiderio nascosto e di ogni sofferenza inconscia mescolati insieme in una massa grezza e disordinata. Ser fosse stato possibile usare una singola parola per descrivere la natura del warp, quella parola sarebbe stata caos.
Il warp era cambiamento. Era una scatenata e febbrile assenza di ragione.



lunedì 14 luglio 2025

fascismo liberale

Il volume Trump e il fascismo liberale raccoglie e riunisce una serie di scritti di Slavoj Žižek composti tra il giugno 2024 e l'aprile 2025 e dedicati alla figura di Donald Trump e al concetto di fascismo liberale. Quello che sembra essere descritta e analizzata è l'emersione di un progetto politico che punta a ridefinire l'ordine geopolitico mondiale secondo una nuova logica di potenza, scavalcando le mediazioni diplomatiche e le forme multilaterali. Trump non sarebbe allora un imprevedibile outsider - come magari nel 2016 - ma il sintomo maturo di una trasformazione strutturale dell'ordine politico occidentale: dagli attacchi alla stampa al rifiuto di ogni mediazione istituzionale, fino alla normalizzazione di pratiche apertamente autoritarie, il femonemo trumpiano non appare dunque come eccezione ma come forma estrema di ciò che è già diventato norma. Trump non è allora una frattura rispetto all'ordine liberale, ne è piuttosto la radicalizzazione grottesca: libertà come obbedienza volontaria, eccesso come autenticità, violenza come diritto. Perché liberalismo e fascismo funzionano assieme, sono le due facce della stessa medaglia, e l'autoritarismo di Trump è anche il sogno di consentire al mercato di funzionare liberamente nella sua forma più distruttiva, nel più brutale perseguimento del profitto e nel discredito per ogni moderazione etica.

Trump è un leader iperpresente, la cui autorità si fonda sulla volontà, e che disprezza apertamente la cultura, ed è proprio questo teatro ribelle, antisistema, a costituire per molti il punto principale d'identificazione. Ecco perché gli insulti seriali di Trump e le sue menzogne plateali, per non parlare del fatto che sia un criminale condannato, funzionano a suo favore: il suo trionfo ideologico sta nel fatto che i suoi seguaci vivono la propria obbedienza come una forma di resistenza sovversiva. Si può sostenere un leader fascista in ascesa con un atteggiamento di totale obbedienza e sentendosi allo stesso tempo radicali.
Trump non prova nemmeno a mascherare le contraddizioni o i continui cambiamenti di posizione: giorno dopo giorno, dice di getto ciò che gli passa per la mente come risultato della sua pienamente consapevole assunzione del ruolo di Maestro al di là della legge e della logica, un maestro che afferma il proprio potere cambiando continuamente ciò che sostiene. L'opacità assoluta di questi atti rende la sua autorità assoluta.
Lo stile della performance pubblica
di Trump - dire qualunque cosa gli passi per la testa, insultare, infrangere ogni regola di buona educazione - non ha nulla di liberatorio, ma serve solo a rafforzare l'oppressione e la mistificazione sociale: le vere questioni politiche, economiche e ideologiche sono più invisibili che mai. Il problema non è che Trump sia un clown, il problema è che dietro le sue provocazioni c'è un programma, c'è un metodo nella sua follia. Le sue oscenità sono parte di una strategia populista per vendere questo programma fatto di tagli alle tasse per i ricchi, meno sanità e protezioni per i lavoratori ecc
Trump promette libertà, deregolamentazione, più, ovviamente, l'assenza di libertà per chiunque critichi la sua politica, stabilendo ciò che si può definire totalitarismo liberale. Proprio perché il limite istituzionale della nostra libertà è la forma stessa della nostra libertà, conta come questo limite è strutturato, qual è la forma concreta di questo limite. L'inganno di chi detiene il potere consiste nel presentare la propria forma di questo limite come la forma della libertà in quanto tale, così che ogni lotta contro di loro appaia come una lotta contro la società libera in quanto tale. Trump presenta la sua forma di libertà come la forma della libertà in quanto tale, così che qualsiasi critica possa essere rappresentata come un attacco alla libertà stessa, ed egli avrebbe pertanto pieno diritto di difenderla da questi attacchi con ogni mezzo necessario, inclusi il licenziamento dei dissidenti, la loro esclusione dallo spazio pubblico o persino il loro arresto. La libertà trumpiana richiede così un intervento statale ancora più forte di quello invocato dalla cancel culture - di cui i trumpiani sono grandi oppositori -, finendo per fare esattamente la stessa cosa, in modo molto più brutale.

Il regno di Trump non rischia di portare a eventi catastrofici, ma - peggio - il rischio è che la vita continui passando però attraverso una serie di misure che minerà il patto sociale liberal-democratico trasformando il tessuto profondo che tiene insieme ciò che Hegel chiamava Sittlichkeit e Lacan il "Grande Altro": l'insieme non scritto di costumi e regole riguardanti cortesia, verità, solidarietà sociale, diritti delle donne ecc. Questo nuovo mondo apparirà come la normalità, e in questo senso il regno di Trump potrebbe davvero segnare la fine del mondo, di ciò che di più prezioso la nostra civiltà aveva costruito - e questo nuovo mondo sarà multipolare, nel senso che un pugno di Stati forti definiranno ciascuno la propria sfera di influenza e limiteranno la sovranità dei vicini più piccoli: una realtà che ricorda in modo inquietante 1984 di George OrwellIl discorso trumpiano rappresenta dunque una minaccia per la sostanza stessa della nostra vita sociale, contribuendo direttamente alla disintegrazione sociale. La mancanza di buone maniere esclude semplicemente l'altro dalla comunicazione.

Che fare? Secondo il filosofo sloveno, per quanto riguarda l'Europa, essa dovrà (ri)definirsi chiaramente - e qui già sorgono problemi con gli Stati e le forze populiste contrarie all'Europa unita e alla sua eredità emancipatrice. Di questa ridefinizione fanno parte anche l'autonomia militare e la riformulazione della sua politica economica in direzione di un maggior coordinamento e della pianificazione su ampia scala.
Per quanto riguarda la sinistra, il populismo trumpiano è una reazione allo Stato sociale liberal-democratico che si è avviato verso la propria autodistruzione (oltre che verso l'impotenza) nel momento in cui ha concentrato la propria attenzione sulle politiche identitarie: la pseudo-lotta di classe trumpiana è il ritorno del rimosso della sinistra liberal incentrata sulle identità. Il compito è dunque raccogliere gli obiettivi generali dalla sinistra, senza il suo spirito censorio e rancoroso, e dal populismo trumpiano, invece, la volontà irriverente di cambiamento, perché comunque solo attraverso un diverso investimento passionale può emergere qualcosa di nuovo.

mercoledì 30 aprile 2025

(altri) libri letti questo mese - aprile 2025

Per tutti i libri di cui non ho parlato in specifici post, c'è spazio qui in questa sintesi delle (altre) letture del mese. In ordine crescente di gradimento.

Uomini che fanno la guerra, si incazzano, diventano furiosi, litigano, sono gelosi, minacciosi, e usano la forza in modo esplicito, picchiando, violentando. Ma sono anche violenti in modo piú moderno, quindi occultato, passivo: sono lamentosi e recriminatori, e finiscono per soffocare le donne in altro modo. Sono i personaggi dei romanzi presentati da Francesco Piccolo nel saggio Son qui: m'ammazzi, racconto e indagine appunto su tredici personaggi maschili della letteratura italiana, che, secondo l'autore, sono entrati nelle nostre vite e hanno segnato in maniera indelebile il nostro immaginario, contribuendo a legittimare il mito della maschilità e la cultura virile. Ovvero, le opere chiave della nostra letteratura hanno in qualche modo contribuito a consolidare una certa idea di maschio, e in esse ci sono le tracce di uomini potenti, arroganti, violenti, egoisti e famelici. A partire dalle fondamenta, dalla settima novella dell'ottava giornata del Decameron, in cui Boccaccio mette in scena la spietata vendetta del giovane scolaro Rinieri, che sbeffeggiato e rifiutato da una avvenente vedova la punisce facendo in modo che non possa piú vantare la propria avvenenza - la morale: se si ferisce il maschio non è pena affatto ingiusta essere sfregiate a vita. E poi le peripezie matrimoniali di Zeno di cui scrive Svevo, uno Zeno Cosini arrogante e fragile al tempo stesso, irrazionale che si finge ponderato, ma soprattutto, come ogni uomo che si rispetti, tarlato dal desiderio, che una volta piantato in testa non schioda piú e fa compiere i gesti piú sciocchi e sconsiderati. E poi ancora, l'innominato di Manzoni, il Principe di Salina di Tomasi di Lampedusa, 'Ntoni di Verga, l'Antonio di Brancati, il Milton di Fenoglio e altri maschi, tutti sempre uguali a se stessi, vigliacchi e furiosi, gelosi e violenti, al centro di romanzi che hanno costruito il canone della letteratura italiana. Perché chi siamo ha a che fare con la famiglia, l'educazione, il mondo dove si cresce, ma anche con i libri che si sono letti.
Un po' troppo semplicistica e generalizzante, però, la tesi che questi racconti semplicemente corrispondano a quello che siamo.

Due morti apparentemente inspiegabili, una seteria in cui niente è come sembra, una donna alla ricerca della verità, rappresentano il punto di partenza de La fabbrica dei destini invisibili di Cécile Baudin. Le sirene delle seterie scandiscono la vita dell’Ain, una delle tante regioni che hanno cambiato volto dopo la Rivoluzione industriale. Eppure, fuori dei ritmi regimentati della fabbrica - che grazie alle nuove leggi sul lavoro garantisce salari migliori e orari più umani -, ci sono ancora centinaia di donne che vengono sfruttate nelle soffitte delle case, dove si fila sino a tarda ora alla luce incerta di una candela. È proprio per difendere i diritti di queste giovani invisibili se Claude Tardy è diventata ispettrice del lavoro. Una professione nuova e ancora tutta maschile, al punto che, per poterla svolgere, spesso Claude è costretta a indossare vestiti da uomo. Come la fredda sera di dicembre del 1893 in cui viene chiamata a indagare sulla morte sospetta di un operaio, trovato impiccato agli stessi fili metallici su cui si spezzava la schiena durante il giorno. E la faccenda si complica tre mesi dopo, quando dalle acque di un lago emerge il cadavere di un altro operaio. Due morti che non avrebbero nulla in comune, se non fosse che le vittime si somigliano come gocce d’acqua e sembrano in qualche modo legate a un convitto di religiose, dove le giovani operaie delle seterie sono ospitate fino al giorno del matrimonio. Ed è qui che la strada di Claude incrocia quella di suor Placide, che da mesi aspetta notizie di una ragazza scomparsa all’improvviso. A poco a poco, le due donne si rendono conto che le loro ricerche sono collegate e che solo unendo le forze potranno fare luce su una brutale realtà sommersa che coinvolge uomini potenti e pericolosi. Una realtà che in troppi hanno sempre finto di non vedere, per paura o per avidità.

Gifts. Doni, primo volume di Annals of the Western Shore di Ursula K. Le Guin. Nelle aspre e selvagge Altelande, vivono uomini che possiedono un dono, dono che è tramandato attraverso le generazioni, per via ereditaria, fin da quando se ne ha memoria. Sono doni meravigliosi, che permettono di evocare animali e mutare paesaggi, ma che possono essere anche terribili perché possono ottenebrare le menti o infliggere malattie. Orrec appartiene alla famiglia dei Caspromant, tanto famosa quanto temuta per il dono del disfacimento: un potere distruttivo, in grado di annientare qualsiasi cosa o persona, con la sola imposizione dello sguardo. All'età di tredici anni, però, il giovane ancora stenta a manifestarlo, ragion per cui il padre Canoc è molto turbato e c'è grande preoccupazione nel regno. Finché un giorno, all'improvviso, Orrec devasta un'intera collina senza volerlo, e prende l'amara decisione di bendarsi per sempre, per il timore di causare danni a ciò che ama di più, come la dolce Gry, compagna d'infanzia e forse sua futura sposa, anche lei dotata di un potente e magnifico dono. Ribellandosi ai loro destini, i due giovani affronteranno insieme le sfide della vita, per andare alla ricerca di loro stessi e del loro posto nel mondo.
Su potere, dovere e responsabilità: Per lui, il privilegio era un obbligo; comandare era servire; e il potere, il dono stesso, comportava una pesante perdita di libertà personale.

Un bell'affresco famigliare di desideri, solitudini e macerie senza fine, e al tempo stesso ritratto della contemporaneità, è Il giorno dell'ape di Paul Murray. La famiglia Barnes è nei guai: la concessionaria di Dickie, il padre, sta per fallire, ma lui, invece di affrontare la situazione, trascorre le giornate costruendo un bunker a prova di apocalisse; la moglie, Imelda, nel frattempo, si è messa a vendere i gioielli su eBay; la figlia maggiore, l'adolescente Cass, ex prima della classe, sembra voler sabotare la sua carriera scolastica; e PJ, il figlio dodicenne, sta allestendo un piano per scappare di casa. Che cosa è andato storto per i Barnes, al punto da mandare tutto in rovina? La coralità della narrazione, la somma dei punti di vista diversi che portano avanti - e indietro - la storia, forse permetterà di ricostruire e rintracciare il preciso inizio di tutto.

L'arte della gioia è un libro postumo di Goliarda Sapienza: giaceva da vent'anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato da molti editori, venne stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998. Ma soltanto quando uscì in Francia ricevette il giusto riconoscimento. Nel romanzo tutto ruota intorno alla figura di Modesta, una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana in cui si fondono carnalità e intelletto. Modesta nasce in una casa povera ma fin dall'inizio è consapevole di essere destinata a una vita che va oltre i confini del suo villaggio. Ancora ragazzina è mandata in un convento e successivamente in una casa di nobili dove, grazie al suo talento e alla sua intelligenza, riesce a convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza smettere di sedurre uomini e donne di ogni tipo. Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale, Modesta è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco pur di godere del vero piacere, sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui vive. Opera certamente scandalosa, erotica e politica, romanzo d'avventura e di formazione.
È il pieno possesso delle emozioni e la conoscenza suprema di ogni attimo prezioso che la vita ti concede in premio se hai polso fermo e coraggio. Ora so il senso profondo della libertà e della gioia, della tua arte mi sono impossessata, e solo gioia essa sarà da oggi per me.

Libro a sorpresa del mese, un testo a lungo cercato e tornato disponibile solo un anno fa, la raccolta di saggi dopo Heidegger scritti da Peter Sloterdijk negli anni Novanta e usciti con il titolo di Non siamo ancora stati salvati, replica appunto alla tesi heideggeriana - sostenuta nella sua ultima intervista rilasciata alla stampa - per cui «solo un dio ci può salvare». In questa serie di testi il filosofo tedesco risponde in modo ironico che non solo non siamo stati ancora salvati, ma che non lo saremo. L’essere umano non è altro che quel particolare animale che crea forme di addomesticamento reciproco, chiamate “culture”, rispetto alle quali non c’è alcun “fuori” a cui chiedere una qualche forma di salvezza. Nessun dio può infrangere il nostro destino di animali sapiens. Questa è la tesi feroce e disincantata che l’autore sostiene nel più provocatorio dei saggi contenuti nel volume, Regole per il parco umano. Clonazione, scoperte geografiche e coscienza delle macchine, umanismo e pessimismo, mostri e metafisica sono solo alcuni dei temi che attraversano i dieci saggi che compongono questo straordinario affresco di filosofia e storia della cultura contemporanea.
Leggere Sloterdijk è sempre straniante, illuminante, perturbante, gratificante, faticoso, estenuante, splendido, arricchente, ascetico.

mercoledì 9 aprile 2025

il dilemma del porcospino (filosofia di evangelion 2di2)

Terza domanda: essere nel mondo. Se l'identità è fortemente caratterizzata dalla narrazione che facciamo di noi stessi, questa autonarrazione si arricchisce con l'esperienza dei racconti altrui che entra a far parte della propria biografia. Geniale, in questo senso, la metanarrazione dell'episodio 26: nel momento in cui Shinji si rende consapevole di essere simbolo e immagine narrativa che mostra agli altri, assume forme statiche diverse proprio a sottolineare come lui sia tutte quelle narrazioni che devono essere rielaborate in un unico stile che è il proprio stile.
Nella serie gli angeli sono una contro-narrazione, un racconto diverso che scava e sfida l'animo umano. Innanzitutto, mettono in crisi la certezza nel progresso, secoli di fiducia verso il quale sono dissolti di fronte a qualcosa di alieno. Poi, mentre tutti i protagonisti umani sono profondamente convinti di bastare a se stessi, gli angeli li costringono a collaborare, dimostrando che nessuno si salva da solo. E ancora, mettono in crisi la convinzione di poter proteggere la propria intimità. Ma gli angeli sono uguali all'uomo al 99,89%, il vero nemico in Evangelion è l'altro in tutte le sue forme e gli angeli non sono che un artefatto narrativo per esemplificare l'alieno, ciò che è assolutamente altro da me, il diverso per eccellenza. Il conflitto è prospettico, e si fonda sull'errata credenza che solo un punto di vista sia quello corretto: l'unico modo di uscire da questo conflitto è abitare l'ultima domanda.

Quarta domanda: risolvere l'intricato e delicato dilemma del porcospino. Tre sono le possibili soluzioni.
La fuga. L'A.T. Field - Absolute Terror Field - difende dagli altri grazie al terrore che provoca l'intimità. La solitudine è innalzata come muro difensivo che impedisce di essere alla mercé di chicchessia, proteggendo dal dolore. Ma non può essere questa la soluzione, poiché l'obiettivo principale è quello di scaldarsi insieme ai propri simili: fuggendo ci si preserva dal dolore della relazione solo per accettare una lenta morte per congelamento.
La compenetrazione. Dissolversi e unirsi per diventare una sola cosa. Si ottiene la cessazione del dolore ma non la felicità, solo il riposo della morte dell'io. Anche il ricongiungimento, quindi, come la fuga dal dolore, non è perseguibile, neanche questa seconda soluzione è soddisfacente, poiché è l'eliminazione del problema per mezzo della cessazione dei soggetti coinvolti. Si deve, invece, accettare la propria esistenza e, con essa, il proprio dolore per risolvere il dilemma del porcospino.
La coesistenza. Accettare la sofferenza generata dall'altro. Non è possibile risolvere il dilemma del porcospino senza che ci siano altri porcospini. La soluzione è affrontare il rischio e esporsi agli altri: superare il timore di essere ferito andando verso il prossimo e provando a aprire una soglia di felicità, vivere una vita piena di esperienze rischiando di essere feriti.

lunedì 7 aprile 2025

essere se stessi, essere per gli altri (filosofia di evangelion 1di2)

Di Fausto Lammoglia avevo già letto e apprezzato Filosofia di L'attacco dei giganti, un saggio popfilosofico che non è una lezione di filosofia in cui si studiano i grandi filosofi attraverso un prodotto della cultura pop, ma un dialogo con un prodotto di pop culture per fare insieme a esso e al lettore filosofia. Dello stesso tenore e valore si rivela anche questo appena uscito Filosofia di Neon Genesis Evangelion, che non spiega la filosofia attraverso la serie televisiva anime sceneggiata e diretta da Hideaki Anno e prodotta dallo studio Gainax - capolavoro denso e terribile quanto Essere e tempo di Martin Heidegger -, piuttosto fa attraversare al suo lettore domande profonde da abitare.

Prima domanda: essere se stessi. Partendo dall'imprescindibilità del corpo: Shinji e tutti i piloti non guidano gli Eva da remoto, ma entrano in simbiosi con la loro unità provando dolore fisico tanto da passare più tempo in ospedale che a bordo, e sotto la corazza delle unità Evangelion non ci sono cavi ma carne e sangue tanto che la loro vera natura è la loro animalità e fisicità. Shinji dovrà imparare da e con il suo corpo, riconoscere ciò che sente e prova, per potersi impossessare della sua persona, per imparare a essere se stesso. Rivelatore il fatto che le entry plug siano posizionate nella nuca e che il quinto chakra che connette anima e corpo sia proprio quello del collo (come avviene, del resto, anche in Attacco dei giganti, noto è il debito di stima che Isayama ha con l'opera di Anno).
Per essere se stessi è anche però necessario il riconoscimento attraverso l'altro - come ha chiaramente spiegato Hegel -, e infatti i piloti degli Eva cercano continuamente di essere riconosciuti come portatori di valore. Shinji, pur volendo continuamente fuggire, affronta le prove quali tentativi di recuperare un significato esistenziale agli occhi degli altri - quasi che implori preoccupatevi per me, prestatemi attenzione, siate gentili con me, abbiate cura di me. Asuka cerca di ottenere il suo posto nel mondo brillando in ciò che fa (a scuola, come pilota) e cercando di imporsi come donna (anche se così perde in partenza la sua possibilità di essere riconosciuta come persona poiché alla fine presenta se stessa come oggetto). 

L'incontro con l'altro diventa esperienza di limite e confronto, di revisione e ricostruzione della propria identità. E così la seconda domanda è: essere per gli altri. Come insegna il dilemma del porcospino presentato da Schopenhauer, è molto complesso trovare la distanza adeguata per poter essere se stessi insieme agli altri. La soluzione più semplice per essere riconosciuti sarebbe quella di assecondare l'altro, ma il rischio è così quello di non trovare una propria identità autonoma. Identificando se stessi con le aspettative altrui e sociali, con comportamenti culturalmente codificati, con funzioni strumentali ed etichette lavorative o legate al genere, si finisce per convogliare le energie vitali nella performatività, in modo da aderire quanto più perfettamente ad un ruolo, e ciò porta l'individuo pericolosamente vicino a esplodere o implodere, soverchiato dalla pressione sociale come spiega Marcuse. Si semplifica la vita, si rinuncia a scegliere per evitare le responsabilità che ne conseguono, ma si rimane ingabbiati in un'esistenza inautentica.
I piloti delle unità Eva fanno tutto ciò che fanno per essere riconosciuti e, di conseguenza, per riconoscersi. Convinti di non aver valore di per sé, i piloti trovano un loro significato nelle etichette che hanno ricevuto: l'Eva, la loro funzione, è tutto ciò che hanno, ossia tutto ciò che sono. Combattono per mettersi in mostra, per eccellere, per poter essere lodati, riducendo il loro essere alla loro funzione - ad eccezione di Toji che mostra invece una dimensione relazionale dell'esistenza e non prestazionale. Ma ridursi alla propria performatività, al bisogno di apparire e soddisfare una richiesta proveniente da altri, dissolve la possibilità di essere per sé, come spiega Sennett.
In fondo è tutta questione di distanze. Il cammino di Shinji è il tentativo di trovare un equilibrio tra l'isolamento e la dissoluzione negli altri; l'equilibrio necessario a non ferirsi senza per questo rimanere solo.

domenica 30 marzo 2025

notte stellata e caffè parigini

Sempre nell'ottica di ottimizzazione dei tempi, mentre si seguiva la nostalgica serie tv Hanno ucciso l'Uomo Ragno. La leggendaria storia degli 883 e si ascoltava l'audiolibro L'arte della gioia di Goliarda Sapienza, ho montato un po' di set Lego acquistati di recente.

Tra questi l'iconico Caffè francese, che cattura l'eleganza di un pittoresco bistrot all'aperto parigino, decorato con vasi di fiori pensili e accogliente con i suoi croissant, tazze e giornali. Questo Café Fleur ha trovato adeguata collocazione in uno degli scaffali della libreria dedicati all'esistenzialismo, accanto ai saggi e romanzi di Jean-Paul Sartre.

Inoltre, uno dei due set dedicati ai dipinti di Vincent van Gogh, quello che riproduce la Notte stellata. La notte - più viva e più ricca di colori del giorno, secondo l'artista -, le nuvole vorticose, le dolci colline: i mattoncini reinterpretano le pennellate di van Gogh, la cui minifigure - con pennello, tavolozza e cavalletto - è inclusa nel set. Set che, una volta completato, può anche essere appeso alla parete.



martedì 25 febbraio 2025

ribellione, non rivoluzione

Nel raccontare con In ogni caso nessun rimorso la vita rocambolesca e le ferme opinioni di Jules Bonnot, Pino Cacucci immerge il lettore nell'esistenza di uno dei milioni di senza lavoro che l'Europa degli inizi del secolo, così presa dalle conquiste coloniali e dalla frenesia della Belle Epoque, teneva a bada con crescente difficoltà, affidandosi all'incessante opera delle squadre antisommossa e alle bande di pistoleri al soldo dei grandi industriali.
Jules Bonnot ha un cuore maledetto, che aveva pompato per anni un sangue schiumoso di sensazioni dolorose, riempiendo le arterie di rancore per le umiliazioni, le stesse che tanti sopportavano senza impazzire, mentre in lui avevano provocato una sete di vendetta inestinguibile. Ha un fuoco nelle viscere, che gli bruciava dentro fin da bambino, alimentato dalla fame, dalle bastonate, dall'inutilità di qualsiasi sforzo compiuto per sfuggire al marchio della miseria, quel fuoco acceso da una sensibilità nefasta. Ha occhi che sono nemici della sua sopravvivenza, perché non possono non soffermarsi su ogni cosa servisse a trarne sofferenza, rifiutandosi di scorrere sulla vita come davanti a uno spettacolo estraneo. Tutto questo lo porta a essere uno di quegli uomini diversi dagli altri, da tutti quelli che rimangono a capo chino fino all'ultimo dei loro giorni, in una rassegnazione muta.

"L'umanità si sacrifica per certe idee fisse, quali la verità, la giustizia, il dovere... che considera come ideali. Bisogna distruggere le idee fisse. La mia causa non è universale, bensì unica, come unico è ciascun individuo... Vero è ciò che è unico, falso ciò che non mi appartiene, e falsi sono la società e lo stato, a cui tu dai la tua forza e da cui sei sfruttato."
Jules sottolineò il paragrafo con il lapis e richiuse il libro: L'unico e la sua proprietà, di Max Stirner, il filosofo teorico dell'anarchismo individualista. La copertina sdrucita era cosparsa di macchie e ombre: l'unto e il sudore delle sue dita, che erano tornate ancora una volta a immergersi nel grasso dei motori. La fiamma della candela tremolava, si innalzava e si abbassava bruscamente, segno che la cera mista a sego stava esalando gli ultimi respiri. Forse aveva ancora dieci minuti di luce, prima che l'agonia dello stoppino volgesse al termine. Riaprì il libro e cercò il capitolo che aveva letto almeno dieci volte, segnandolo con un punto esclamativo accanto al testo.
"Rivoluzione e ribellione non vanno considerate sinonimi. La prima consiste nel rovesciamento dello status quo, dell'ordine costituito, ed è quindi un atto politico e sociale. La seconda, pur avendo come inevitabile conseguenza una trasformazione dello stato di cose esistente, non nasce da questo, bensì dall'individuale scontento degli uomini. Non è una rivolta armata, ma un insorgere di individui, un ribellarsi, senza alcun pensiero alle conseguenze che ne potranno derivare. La rivoluzione mira a un'organizzazione nuova; la ribellione ci porta invece a non lasciarci più organizzare, ma a organizzarci da soli, e non ripone fulgide speranze nelle istituzioni... La rivoluzione ci comanda di creare istituzioni nuove; la ribellione, di sollevarci e innalzarci."
"Ribellione", mormorò Jules adagiandosi sulla branda. Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté, avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori, sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner "l'intelletto più fertile della sua epoca", pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu distratto dall'idea che in quella lurida soffitta ci fossero le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio delle cimici. Jules sospirò e subito fu preso da un attacco di tosse- Quella maledetta polvere. Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della socialdemocrazia, quando l'unico scopo era costruire cannoni per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare i muscoli ai vicini europei. No, non c'era speranza nella rivoluzione. La ribellione era un'altra cosa.
Gli tornò alla memoria Gaetano Bresci. Tre pallottole nel petto del re, un re così galantuomo da aver dato una medaglia al generale Bava Beccaris, per le sue cannonate sui dimostranti. La sua era stata fin dall'inizio una missione suicida. In quanto ai re, hanno sempre i loro figli a cui passare lo scettro e il comando dei cannoni da puntare sulla folla. Niente era davvero cambiato. Ma, in definitiva, c'era un modo concreto per cambiare qualcosa? Servivano, forse, micidiali bombe? Ma le stragi di borghesi e poliziotti avevano offerto al potere l'occasione di sobillare l'opinione pubblica a tal punto da consentire il varo di leggi degne della peggiore tirannide, che davano a polizia e magistratura illimitati poteri nella persecuzione dei "sovversivi".
L'azione, non restava che l'azione. Ma senza immolarsi, senza rivendicarla, senza offrire la gola ai mastini. Colpire gli sfruttatori amanti di ghigliottine e champagne in ciò che più stava loro a cuore: il denaro. Non per arricchirsi, ma per restituire un po' del terrore che distribuivano, illusi di restarne al riparo. Non con le bombe, ma con le armi in pugno, per riprendersi una parte di tutto quello che sottraevano a milioni di disperati come lui. O forse, soltanto per il gusto della vendetta.

domenica 26 gennaio 2025

la macchina volante di leonardo da vinci

Altro set Lego acquistato a inizio anno, la Macchina volante di Leonardo da Vinci permette di esplorare la storia dell’ingegno artistico, di costruire un modello dettagliato del visionario ornitottero. Si tratta di una replica autentica del design di Leonardo, dotato di ali azionabili tramite un visibile gioco di corde, cerniere e pulegge, e che include un espositore e la minifigure di Leonardo da Vinci.










Questo set, che permette di spiegare le ali della creatività, trova facilmente posto nello scaffale con i testi di e su Leonardo, in cui già un amigurumi realizzato da Simona era il benvenuto. Facilmente, in realtà, solo perché scontata la collocazione, ma certo non perché lo spazio disponibile renda la renda agevole.

Di Leonardo da Vinci alle classi quarte leggo sempre un passo - citato anche da Eugenio Garin nel suo capitolo sul filosofo presente in L'uomo del Rinascimento - del Codice Arundel.
Secondo Garin un documento singolare della mutata immagine del "filosofo" nel Rinascimento in qualche modo è offerto da una grande opera d'arte: i Tre Filosofi del Giorgione, con le tre enigmatiche figure assorte - un giovane scienziato curioso della natura, un vecchio venerando e un orientale -, con il più giovane, seduto, tra stupore e attesa, che guarda quella che - appunto - Leonardo da Vinci chiamò «la minacciante e scura spilonca», magari la caverna di Platone. Una radiografia dei Tre filosofi rivelò che in origine i filosofi erano i Re Magi, che con i loro calcoli stanno osservando la Stella che annuncia la venuta del Cristo e indica la strada, se esattamente interpretata. I Magi infatti non sono che degli astrologi, oltre che dei saggi. Orbene, nella redazione definitiva dei Tre Filosofi gli astrologi si trasformano in filosofi, che indagano i misteri della natura usando, almeno il più giovane, calcoli e misure. Il che traduce fedelmente la posizione più volte espressa dal Ficino circa il succedersi nel tempo di vari tipi di ricerca. In altri termini il filosofo non fa che portare a livello di ricerca razionale le istanze a cui intendevano rispondere e magi e astrologi. D'altra parte il nuovo filosofo continua a chinarsi sulla caverna, che per un verso rimanda a Platone, ma per l'altro non può non rievocare con forza proprio Leonardo, e il testo famoso del Codice Arundel: «vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, pervenni all'entrata duna gran caverna; dinanzi alla quale, piegato le mie reni in arco e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia; e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là dentro fusse alcuna miracolosa cosa». 

Anche Massimo Cacciari, nel suo saggio sull'Umanesimo La mente inquieta, ricorda l'occhio leonardesco, la sua «bramosa voglia» di ficcarsi nell’ignoto, di penetrare nella “mirabil necessità” che tutto anima e tutto collega, nella caverna del mondo, della “artifiziosa natura”. Potrebbe essere, concorda anche il filosofo, l’occhio del piú giovane dei tre filosofi del Giorgione, fiducioso della propria forza, fisso di fronte alla caverna - ingens sylva, pronto a esplorarla e rappresentarla; abissi di ignoto, sí, gli si presentano dinanzi – ma nulla di inconoscibile. 

sabato 18 gennaio 2025

un capricorno di gennaio

C'è questa cosa del capricorno di gennaio. Non che io creda a astrologia o oroscopi, però è una idiomatica autofiction che mi piace raccontarmi, quella di trovare, scoprire o imbattermi in date di nascita di personaggi e personalità che mi piacciono, che fanno parte del mio percorso di formazione e della mia enciclopedia, che me li faccia inserire in questo insieme dei capricorno di gennaio. Insieme a cui, ovviamente, appartengo anch'io.

E così Isaac Asimov (2 gennaio), J.R.R. Tolkien (3 gennaio), Umberto Eco (5 gennaio) Edgar Allan Poe (19 gennaio) per la letteratura, Hayao Miyazaki (5 gennaio), Haruki Murakami (12 gennaio) e Yukio Mishima (14 gennaio) per la cultura nipponica, Giorgio Colli (16 gennaio), Alain Badiou (17 gennaio) e - soprattutto, visto che ne condivido proprio la data di nascita - Gilles Deleuze (18 gennaio) per la filosofia, costituiscono una costellazione immaginaria tutta per me.

domenica 10 aprile 2022

la femminilità, una trappola

Nella mitologia, nelle fiabe che leggiamo ai bambini, alla donna assegniamo sempre gli stessi ruoli. È Arianna abbandonata, Penelope al telaio, Andromeda incatenata. È Cenerentola, o la Bella addormentata nel bosco che attende di essere salvata dal Principe azzurro. È colei che attende, che può trovare il proprio posto nel mondo solo attraverso l’amore di un uomo. 
La bambina impara presto ad ammirare gli uomini, gli eroi tradizionali. Molto spesso prova solo pietà e disprezzo per la misera vita domestica di sua madre. Magnifica invece la personalità del padre: è lui a rappresentare la forza, il potere, una finestra sul mondo, sulla vita e sul futuro. La bambina desidera identificarsi con lui, e in questo modo riconosce e ammette la superiorità dell’uomo sulla donna che è destinata a diventare. Il desiderio di piacere agli altri è radicato in ogni bambino. I bambini amano sentirsi vivi. Giocando, sviluppano il senso dell’indipendenza, ma per loro è anche importante sentire di avere sopra la testa il tetto rassicurante dell’approvazione adulta. Il bambino maschio impara presto che, per guadagnarsi la stima degli adulti, non deve sforzarsi di compiacerli troppo. Dev’essere forte, autonomo, avventuroso, deve cercare di conquistare il mondo e dominare i compagni. La bambina invece è incoraggiata da genitori, insegnanti, amici, di fatto dal mondo intero, a sviluppare il suo potere di seduzione, a essere aggraziata, ben vestita, educata. Queste richieste le impediscono di godersi i piaceri del gioco, dello sport e dell’amicizia con la stessa spontaneità dei compagni maschi. Inizia a crearsi un circolo vizioso: più si conforma con docilità all’ideale che le è stato imposto, meno sviluppa le sue potenzialità personali e meno troverà delle risorse dentro di sé. È costantemente spinta a rivolgersi agli uomini, a cercare un aiuto esterno. Il suo senso di dipendenza e la sua debolezza aumentano. Il fatto che sia la prima a esserne convinta rende reale la sua inferiorità.
In questa prospettiva si spiega perché finora le donne abbiano raggiunto solo di rado quello che è comunemente chiamato genio. I geni sono creature eccezionali che in circostanze specifiche hanno osato ciò che nessuno aveva mai osato prima. Cosa che di per sé presuppone solitudine e fierezza. Presuppone che non si cerchi con ansia lo sguardo degli altri per capire se esso racchiuda approvazione o biasimo, ma che si guardi con coraggio verso orizzonti ancora insospettabili. L’educazione - il mondo intero, di fatto - insegna alle donne la timidezza.
Frivole o serie, le donne sono sempre ligie. In altre parole, accettano il mondo: il loro sforzo consiste solo nel cercare un posto su questa Terra. Le donne temono che perdendo questo senso di inferiorità possano perdere anche ciò che le valorizza agli occhi degli uomini: la femminilità. La donna che si sente femminile non osa partecipare alle attività politiche o intellettuali dell’uomo, né considerarsi una sua pari. Viceversa, se una donna si libera dal complesso d’inferiorità nei confronti degli uomini, se ha un brillante successo negli affari, nella vita sociale e professionale, spesso soffre di un complesso d’inferiorità nei confronti delle altre donne. Si sente meno affascinante, meno amabile, meno piacevole proprio perché priva di femminilità.
Sa che il successo non rappresenta un vantaggio agli occhi degli uomini, ma rischia anzi di allontanarli. L’uomo invece deve lottare a un solo livello. C’è una perfetta omogeneità nel modo in cui cerca di realizzare la propria personalità. Se ottiene potere nel mondo, prestigio agli occhi degli altri uomini, fierezza e sicurezza interiori, acquisisce al tempo stesso più virilità perché sono esattamente l’indipendenza e la forza le qualità che le donne si aspettano da un uomo. È questa la contraddizione che affligge molte donne oggi: o rinunciano in parte a realizzare la propria personalità, o rinunciano in parte al potere di seduzione sugli uomini. È un mondo maschile; sono gli uomini, con i loro desideri, le loro speranze, le loro paure, a creare le condizioni che le donne cercano di combattere nel proprio percorso di risalita.


[Simone de Beauvoir, La femminilità, una trappola]

mercoledì 30 marzo 2022

la nausea di sartre

Mentre nel tempo più classico del suo esistenzialismo esistenza e libertà costituiscono una coppia indissolubile di termini, in questo romanzo la nozione di esistenza appare disgiunta da quella di libertà. In primo piano al posto del pouvoir de néantisation, protagonista assoluto de L’essere e il nulla, c’è il carattere inerziale dell’esistenza. Mentre scrive La nausea Sartre non ha ancora messo a fuoco quel dualismo ontologico che separa dicotomicamente l’esistenza umana - il per sé - dall’esistenza inerte delle cose - l’in sé. La vita umana non appare nel romanzo del ‘38 come trascendenza, libertà, progetto. In primo piano è un fondo di ingiustificabilità del reale e della stessa presenza umana del mondo. Sicché, la fatticità non appare come una polarità, insieme a quella della trascendenza, ma si estende sino a pervadere integralmente il mondo precedendo e risucchiando all’indietro il movimento in avanti della trascendenza. L’esistenza appare come insuperabile. Il suo piano di immanenza si impone su quello della trascendenza del desiderio. La storia di questo romanzo è, dunque, la storia di una progressiva e paradossale rivelazione; la rivelazione del reale dell’esistenza. Perché l’esistenza è rimossa dalla nostra frequentazione abitudinaria del mondo. L’esistenza circonda, imprigiona, incatena, ma non la incontriamo mai; subisce un permanente processo di occultamento che nel romanzo assume la cifra della malafede di fondo che contraddistingue gli esseri umani.

Il reale informe dell’esistenza viene ricoperto dal quadro stabile della realtà, da un tempo omogeneo che torna sempre uguale a se stesso. Costanza, regolarità, continuità, stabilità. L’opposizione in gioco è quella tra il carattere difensivo della realtà e quello scabroso e indigeribile del reale, per fuggire di fronte allo scandalo della gratuità assoluta dell’esistenza. L’esperienza della Nausea svela invece l’impostura della malafede. Un reale di troppo, insensato, ingiustificato lacera la rappresentazione canonica del mondo. L’irruzione dell’esistenza fa cadere la maschera dell’Essere necessario rivelandone tutta la contingenza. È l’esperienza improvvisa e ingovernabile della Nausea a far cadere la maschera della malafede. Questa caduta è l’esito di una scossa che colpisce innanzitutto il corpo: urto, vertigine, smarrimento.

La Nausea sartriana rivela l’esistenza come bruta fatticità, protuberanza ingiustificata, superflua, contingente, di troppo. L’esistenza nel suo essere qui contingente sfugge ad ogni significazione coincidendo con la sua assoluta presenza, con il suo più puro e bruto être-là. In evidenza è qui la distinzione categoriale tra il quid sit e il quod sit - tra la quidditas e la quodditas - tra il che cosa è e il c’è dell’esistenza. Il c’è senza senso non può non evocare l’il y a dell’esistenza che in quegli stessi anni Lévinas pensa come campo neutro, brulichio informe, pura esistenza senza mondo. È il tema della prevalenza di una nozione di esistenza senza trascendenza, libertà, progetto, dell’esistenza come condizione priva di redenzione, senza vie di fuga, intrappolata, incatenata in un essere che è anteriore al mondo inteso come luogo della significazione.

Nella Nausea non si tratta però dell’angoscia che Sartre - seguendo Kierkegaard e Heidegger - definisce ne L’essere e il nulla come l’autopercezione riflessiva della nostra libertà, vincolata alla responsabilità di fronte al carattere sempre dilemmatico della scelta. Diversamente dall’angoscia che è in stretto rapporto con il campo aperto delle possibilità, con la libertà come fondamento infondato dell’esistenza, la Nausea è invece in rapporto con il reale impossibile dell’esistenza, con la sua fatticità. Sartre distingue chiaramente l’una dall’altra:

la percezione esistenziale della nostra fatticità è la Nausea, e l’apprensione esistenziale della nostra libertà, l’Angoscia.
Se l’angoscia kierkegaardiana e heideggeriana implicano la separazione, la perdita, il confronto con il nulla del proprio fondamento, la Nausea sartriana implica invece il sentirsi affondare nell’esistenza senza possibilità alcuna di separazione. Se l’angoscia è un’esperienza che ha al suo centro il rapporto dell’esistenza con la responsabilità della scelta che implica la possibilità permanente di fare un taglio netto col proprio passato, la Nausea appare piuttosto come un’esperienza di sprofondamento, di immersione, un segnale di intrappolamento nell’immanenza assoluta, irrelata, senza rapporto, dell’esistenza, segnala il ritorno dell’infanzia insuperabile dell’esistenza, mostra l’esistenza come il nucleo buio del soggetto che non si lascia mai metabolizzare integralmente dal simbolico, un passato traumatico che non si lascia dimenticare. La Nausea non è angoscia di fronte al nulla a fondamento della nostra libertà, né sorge dalla meraviglia di fronte all’essere, ma dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza. La Nausea non confronta, come accade per l’angoscia, il soggetto con la propria libertà - non rivela la trascendenza dell’esistenza - quanto con l’
assenza di libertà. Rivela la fatticità bruta di un’esistenza che si scopre come pura passività, inerzia, incatenamento. Non a caso Sartre avrebbe voluto intitolare il suo romanzo Melancholia a sottolineare come la condizione del soggetto nauseato evochi da vicino quella del soggetto malinconico: mentre nella paranoia il senso è dappertutto - nella paranoia tutto è diventato segno -, nella melanconia l’esistenza appare scissa dall’Essere, priva di ogni senso.


[Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio]

domenica 20 marzo 2022

esistenza, infanzia e desiderio

L'obiettivo che Massimo Recalcati si prefigge con il suo volume Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio è quello di correggere la versione stereotipata del soggetto sartriano come pura trascendenza della libertà, mostrando invece come il movimento più profondo del suo pensiero implica una concezione della soggettività come ripresa, assunzione retroattiva, soggettivazione di quello che il filosofo francese stesso definisce il carattere insuperabile e inassimilabile dell’infanzia.
Il soggetto, infatti, non è Sovrano, non è Sostanza, non è un Ego, e questo poiché, semplicemente, nessun soggetto può essere senza infanzia. La sua vocazione originaria non sorge dall’intenzionalità, non è, paradossalmente, una libera scelta del soggetto, ma proviene sempre, come direbbe Lacan, dal discorso dell’Altro. Il soggetto può certo guadagnare la sua singolarità, ma solo rimodellando incessantemente le tracce indelebili di questo discorso. Perciò, il Sartre più maturo dissolve l’idea di un’esistenza libera che precede ogni essenza, mostrando invece quanto l’esistenza si trovi da sempre sommersa, insabbiata, presa in circuiti di costrizione eterodiretti, inclusa nell’alienazione della storia, obbligata ad una passività di fondo costituita dalle marche traumatiche del desiderio degli Altri. Costituzione e personalizzazione scandiscono il rapporto necessario del soggetto con gli eventi contingenti della propria infanzia.
È allora possibile per il soggetto essere libero, se la sua vita è costituita dall’Altro? E come dobbiamo ripensare una libertà che non escluda il destino? Ancora, cosa significa scegliere la propria vita se la nostra prima vocazione è stata scelta dagli Altri? Cosa significa, insomma, pensare, come sostiene Sartre, l’infanzia al futuro?
L'interesse sartriano per l’infanzia è profondamente legato a quello nei confronti del processo di soggettivazione. L’infanzia viene infatti considerata un tempo originario dell’esistenza in cui l’evento della soggettività è preceduto dal discorso dell’Altro, anticipato come oggetto di questo discorso, costretto in una necessità profonda. Per questo l’infanzia viene descritta da Sartre come insuperabile, inassimilabile, un’opaca profondità che impone al processo di soggettivazione ritorni spiraliformi continui su di essa. Sono i resti indimenticabili, i traumi, le parole dell’Altro, le sue impronte a contrassegnare in modo indelebile ogni processo di soggettivazione. È qui che si gioca il destino del soggetto e la sua libertà di riuscire a fare qualcosa di ciò che lo si è reso.
Questa nozione di libertà come petit décalage (piccolo scarto) ci consegna una soggettività dai caratteri molto diversi da quella definita nell’ontologia esistenzialista de L’essere e il nulla come progetto e scelta.
È, secondo Recalcati, il grande tema dell’eredità. L’ereditare non come acquisizione passiva, ma come movimento in avanti, aperto sull’avvenire, riconquista, impegno a riscrivere le tracce già scritte nel nostro passato. È l’eredità come invenzione singolare che non può che generarsi come una conversione inedita e singolare della ripetizione che scaturisce dal nucleo opaco della nostra infanzia primordiale
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domenica 20 febbraio 2022

filosofia della nostalgia

Con Yesterday. Filosofia della nostalgia quel sentimento dominante in tempo di crisi quando il presente è opaco e il futuro incerto, viene indagato e raccontato da Lucrezia Ercoli in maniera puntuale e interessante, delicata e potente.
La nostalgia sembra essere un tratto proprio del XXI secolo, in cui il vento della Storia non è più quello della tempesta del progresso che, all'inizio del secolo scorso, spingeva più l'Angelus Novus di Klee e Benjamin verso il futuro, ma quello della retrotopia (Zygmunt Bauman) che, in un'epoca di incertezze e di un futuro sempre più imprevedibile, riconduce verso il passato e un paradiso perduto. E, come mostra la Ercoli, essa rappresenta un sentimento ambiguo, che può declinarsi tanto in una malattia paralizzante quanto in un indicatore per pensare l'avvenire, che può essere tanto affascinante quanto pericoloso.

Nostalgia (da nostos, ritorno in patria, e algos, dolore o tristezza) è un termine coniato nel 1688 - in cui confluiscono espressioni presenti in diverse lingue, dal tedesco Heimweh al francese mal du pays, dall'inglese homesickness al portoghese saudade - per indicare una malattia, una condizione clinica, causata da un eccessivo attaccamento alla patria lontana. Una patologia che accompagna l'accelerazione del tempo moderno, con i suoi cambiamenti radicali e veloci portati dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione del finire del XVII secolo. Certo già l'Odissea omerica ha delineato i contorni della nostalgia come malattia dell'esule che rimpiange la terra natia, ma è la modernità che la universalizza, la fa sfuggire ai confini della patria, per renderla nostalgia di paesi e di felicità sconosciuti (Charles Baudelaire), desiderio di una felicità che è sempre dove non si è noi. O, forse paradossalmente, l'odierno uomo di città ha eliminato da lungo tempo la nostalgia? (Martin Heidegger). E questo sarebbe il vero pericolo: l'esperienza della perdita della casa sembrerebbe incompatibile con l'omologazione moderna per cui è facile sentirsi a casa ovunque, in cui tutto è vicino e raggiungibile, immediato.  Una connectography (Parag Khanna) in cui i confini non sono più definiti tramite mappe geografiche perché trasporti, comunicazioni, reti mediali hanno trasformato i concetti di spazio e di viaggio.

Il film di Woody Allen Midnight in Paris rappresenta un vero e proprio saggio visivo sulla nostalgia dell'età dell'oro, mostrando come quello che per una generazione è prosaico e volgare, per la generazione successiva si trasforma in qualcos'altro, in qualcosa di magico e vintage. Ma mostra anche che l'età dell'oro non è la stessa per ogni epoca, che la costante è piuttosto la considerazione del presente come noioso e insoddisfacente. Questa sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, l'idea di una parabola discendente è narrata nel poema Le opere e i giorni da Esiodo ed è un mito che si rafforza nella cultura romana per esempio con l'Ovidio delle Metamorfosi, e non è una proprietà esclusiva della tradizione occidentale: si tratta di un archetipo universale che si rafforza nei periodi di crisi, necessario per elaborare la disperazione provocata dalla estrema miseria, dalla mancanza di libertà e dal crollo dei valori tradizionali (Mircea Eliade), di una nostalgia delle origini che è caratteristica permanente della memoria collettiva. I
l passato è costantemente frutto di una creazione che rinnova un mito immaginario tra realtà e sogno, che popola il nostro presente di spettri che non se ne sono mai andati, di fantasmi che continuano a condizionarci: il passato non è morto, non è nemmeno passato (William Faulkner).
Una serie televisiva come Happy Days costruisce gli anni Cinquanta come quel tempo felice della storia americana contemporanea prima della catastrofe della Guerra in Vietnam, e la formula seriale e ripetitiva è perfetta per creare la continuità e la stabilità di giorni felici. La cinquantezza (Fredric Jameson) propria di produzioni degli anni Settanta e Ottanta non racconta il passato nella sua totalità ma lo epura da ogni forma di conflitto e complessità storica, lo riesuma in forma innocua, lo crea nostalgicamente senza comprenderlo. Film come Pleasantville di Gary Ross o The Truman Show di Peter Weir decostruiscono questo paradiso dei fifties mostrandolo come un inferno repressivo e proibizionista o comunque mostrando come pura simulazione la sua perfezione.
La nostalgia, così, non corrisponde a un archivio di eventi ma a una visione irreale da sogno. Ed è con l'immagine in movimento - video, cinema, televisione - che dal secondo dopoguerra, ancora più che nei decenni precedenti, il passato acquisisce una natura immaginaria, completamente svincolata dalla storia.
Da questa dimensione anche nefasta e terribile della nostalgia mettono in guardia Milan Kundera - che nell'incipit del romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere mostra come essa speri nel ritorno del tempo perduto anche quando questo è segnato da atrocità irripetibili -, Vladimir Nabokov - che ne Il dono avverte dell'inestinguibile nostalgia per le cose a cui diciamo addio anche se non le abbiamo mai amate -, le ostalgie (crasi tra osten, cioè est, e nostalgia) nella Germania dopo la caduta del muro di Berlino dei popoli dell'ex blocco sovietico, per i quali liberazione e passaggio disorientante vanno insieme. Questo senso di continuità di una comunità, questo forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato, rischia di produrre un'inversione storica (Michail Bachtin) che riporti in vita anche i cadaveri di un passato che si era superato, di essere un potente veleno in cui orgoglio nazionale e tradizione religiosa formino un cocktail reazionario.
Una serie televisiva come Stranger Things dei fratelli Matt e Ross Duffer, invece, costruisce una ottantezza, una nostalgia degli anni Ottanta come epoca dell'immaginazione, in cui la tecnologia non è ancora esplosa a livello di massa, non è ancora una presenza pervasiva nelle vite di ognuno che condiziona lo spazio pubblico e privato, e c'è una promessa di liberazione ed emancipazione non ancora soppressa da un sistema di controllo digitale. Anni in cui cose strane possono ancora accadere.
Questa la dualità della nostalgia: da una parte una nostalgia restauratrice, una fissazione regressiva bloccata nella fascinazione del ritorno dell'ordine naturale e delle identificazioni forti, un revival reazionario legato a una propaganda faziosa, una retorica nazionalista, un'esaltazione della patria; dall'altra una nostalgia riflessiva, capace di riconoscere l'irrevocabilità del passato e di fare della memoria un'eredità per progredire, generando un'attesa carica di pathos e di storia.

A svelare il vero oggetto della nostalgia è la musica: non l'assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente. Ciò di cui si ha nostalgia è ieri - yesterday -, ieri in quanto ieri, il passato in quanto passato, il tempo in quanto tempo perduto. La canzone pop è così il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica e i tormentoni musicali sono intimni (Peter Szendy) - cioè allo stesso tempo inni collettivi e melodie intime - che ripetono sempre la stessa frase, al contempo dolorosa e catartica: Tu eri e non sei più. In questo senso, la nostalgia evoca una scissione costitutiva, una cicatrice incancellabile, e rappresenta un'esperienza ineliminabile della condizione umana.
Ancora una volta si fa necessario evidenziare il potenziale venefico della nostalgia, il cui soddisfacimento allucinatorio può spegnere la vita rinchiudendola in un mondo popolato di fantasmi, in un paradiso artificiale che impedisce di affrontare il trauma della perdita e di compiere il lavoro del lutto. E tanto più nell'epoca contemporanea l'opportunità di registrare e conservare un numero di ricordi personali senza precedenti nella storia, può tramutarsi nel pericolo di perdere lo slancio verso il futuro che rende propositiva la nostalgia (Davide Sisto).
I tempi della nostalgia contemporanea continuano a accorciarsi, che la nostalgia diventa nostalgia del presente perché la sua operazione avviene per tutto e continuamente. Se ancora nei primi anni Novanta si immaginavano, con fiducia nel futuro e slancio prometeico, alternative, dai primi anni Duemila la cultura sembra essere nel segno della retromania (Simon Reynolds), del revival, della ristampa, del remake, della ricostruzione: il futuro non c'è più, è sconfitto, è perduto.
Per non essere solo il passato che non passa e torna a tormentare sotto forma di fantasma seducente, per non essere il crepuscolare e senile cliché dell'ai miei tempi che guarda con diffidenza le novità e mal si adatta ai cambiamenti, la nostalgia deve diventare un imparare dagli spettri delle rivoluzioni mancate e delle utopie non realizzate, dai revenant di chi non c'è più ma ci parla ancora. Una hauntology (Jacques Derrida) che si fa carico delle presenze spettrali, e che sembra essere il sentimento dominante delle produzioni contemporanee capaci di evocare immagini e suoni provenienti da futuri perduti (Mark Fisher). Una nostalgia che non rinuncia allo spettro - come il crepitio tipico della musica hauntologica che riproduce il rumore della puntina sul vinile e che ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un tempo che è fuor di sesto (Fischer) -, che parla al fantasma e sente cosa ha da dire, ma che oltre allo struggimento per ciò che è stato si fa carico dell'ingiunzione che viene dal passato quale motore dell'avvenire. Una nostalgia come post production (Nicolas Bourriaud) e reboot che riedita il passato in una versione che fa rivedere qualcosa di già visto ma con uno sguardo diverso, che riprogramma il non ancora dei vari futuri che si era preparati a attendere e che non ci sono mai stati.

martedì 1 febbraio 2022

nietzsche e l'antifilosofia

Finite di correggere le ruminazioni sugli aforismi della Gaia scienza prodotte dai miei studenti di quinta, è ora di leggere il testo appena pubblicato da Mimesis del seminario del 1992-93 su Nietzsche tenuto da Alain Badiou presso l'École Normale Supérieure, il primo del ciclo dedicato al tema dell'antifilosofia.
Badiou stesso riconosce come, rispetto a altri seminari in qualche modo totalizzati e architettonicamente composti in opere poi pubblicate, il seminario su Nietzsche rimanga a sé stante, non preparato né successivamente ripreso ma lasciato da parte nella sua impresa filosofica.
Del resto, si chiede sempre Badiou, non è forse questo il destino di Nietzsche nonostante il chiasso - e il malinteso - intorno alla sua opera? E comunque, Nietzsche può essere amato da Badiou per lo stile e la lingua, ma resta sempre un avversario filosofico.
Badiou non se ne occupa, quindi, quando Foucault, Deleuze e tutto il gotha filosofico (Derrida, Klossowski, Lyotard, Nancy) ne fanno un loro riferimento, una fonte decisiva, consacrandolo come una sorta di re postumo del pensiero contemporaneo. Capisce, invece, che non può essere totalmente cattivo, quando nel 1991 viene pubblicato un libro-manifesto Perché non siamo nietzscheani nel quale a dichiarare guerra al filosofo tedesco sono quelli che Badiou definisce "filosofi" reazionari e rivali umiliati dei veri pensatori. Se tutti questi si riuniscono sotto il grido "morte a Nietzsche", allora...
Allora Badiou inizia a interessarsene, a partire dall'ultimo, da quella fine in cui un uomo "Nietzsche" diviene il personaggio centrale di Nietzsche senza virgolette, in cui tutto si rischiara discretamente da ciò che fu troppo ardente, in cui la vita del solitario in marcia verso la follia si ordina alla modesta rivoluzione totale di colui che, benché capace di sbarazzare una volta per tutte l'umanità dal veleno religioso, dalla figura disgustosa del prete e dagli effetti disastrosi della colpevolezza, capace d'instaurare il regno del grande "Sì" per tutto ciò che diviene, riesce a confessare che preferisce, comunque, essere "professore a Basilea piuttosto che Dio".

lunedì 24 gennaio 2022

la morte del tempo [2]

Saturno devorando a su hijo è una delle quattordici Pinturas negras, realizzate da Francisco Goya nella sua residenza di campagna fra la fine del 1820 e la metà del 1823. Un incubo denso di misteri, come ebbe a definirlo Baudelaire. Un'icona che evoca potentemente il legame inscindibile fra il tempo e la morte.

Le Pinturas negras hanno esercitato una grande influenza nella nascita e nello sviluppo dell'arte moderna. Del ciclo si è detto che esprime lo sconforto e la depressione personale dell'artista, alle prese con i malanni dell'età avanzata e con più generali condizioni di salute precarie, la delusione e l'allarme per l'orientamento autoritario del nuovo corso assunto dalla monarchia spagnola, l'inclinazione a tradurre in immagini gli incubi connessi con l'approssimarsi della morte.
Si deve riconoscere che mentre nessuna delle interpretazioni ora accennate sembra essere totalmente convincente, motivi quali quelli richiamati, spesso fra loro intrecciati, si possono effettivamente cogliere. Un comune denominatore può essere certamente individuato in quella tonalità emotiva dei dipinti, ottenuta facendo ricorso a una tecnica particolare e inconfondibile: bianchi sporchi, amalgamati a neri spessi come catrame, ocre fangose, violenti sfregi di rosso e giallo.
Altra caratteristica comune è la rottura dei tradizionali schemi rappresentativi ispirati all'ideale delle "belle forme". Figure deformate, corpi smembrati, sfondi tenebrosi, dettagli raccapriccianti.
Il baricentro del programma iconografico soggiacente alle Pinturas è costituito dalla raffigurazione di Saturno, come divinità della malinconia e della vecchiaia. Un Saturno col quale si identificava lo stesso Goya, o col quale l'artista intendeva stigmatizzare gli agenti dell'Ancien Régime. Un Saturno divoratore e al tempo stesso divorato, disperato e furente, angosciato e terrificante, spietato carnefice e insieme patetica vittima. Un Saturno attraversato da una violenza irrefrenabile, e insieme disarmato nell'ossuta vecchiezza delle membra. Un Saturno - infine - consumato da ciò che per oltre due millenni e mezzo era stato il suo ruolo di implacabile consumatore.

Del dipinto intitolato Saturno devorando a su hijo, si conoscono due precedenti importanti. Il primo è un disegno a matita realizzato dallo stesso artista spagnolo. Il secondo è un quadro di Peter Paul Rubens risalente al 1636, al quale Goya si sarebbe parzialmente ispirato, o che comunque avrebbe avuto la possibilità di vedere. 
Molto probabilmente il disegno precede il dipinto, anche se le differenze sono tali da far escludere che si tratti di uno schizzo preparatorio della pintura. Va in ogni caso sottolineato un aspetto che le accomuna, e nel contempo rende entrambe irriducibili ai moduli di rappresentazione tradizionali di Kronos: il dio non è accompagnato da nessun simbolo temporale, né da alcun altro segno convenzionale di riconoscimento. Salvo uno: il pasto cannibalico.
Già realizzando il disegno, dunque, Goya rompe radicalmente con la tradizione iconografica relativa a Saturno e ce lo presenta nella sola dimensione del dio cannibale.
In entrambe le opere emergono due rilevanti "anomalie". La prima riguarda la mancanza della falce, o di qualsiasi altro strumento che possa svolgere una funzione analoga. La seconda riguarda specificamente l'immagine di Saturno che divora.
Tutte le incisioni, compreso il quadro di Rubens, rappresentano i figli del dio come bambini quasi neonati, secondo quanto si ritrova nella narrazione di Esiodo. Goya, al contrario, introduce una figura giovanile che in nessun modo può essere qualificata come un bambino (Bozal, Pinturas negras).
Si può segnalare un primo e fondamentale aspetto relativo al Saturno raffigurato da Goya, vale a dire la discontinuità rispetto a una lunga e sostanzialmente ininterrotta tradizione iconografica. L'artista spagnolo converte Saturno in un vecchio che divora un giovane, in una frenesia orgiastica che deforma il volto e tutto il suo corpo. Siamo dunque in presenza di una figura spogliata di ogni riferimento meramente metaforico, non più destinata a rinviare ad altro, non investita di altro significato che non sia quello che il dipinto mostra in tutta la sua feroce evidenza: un uomo vecchio che divora il corpo di una giovane donna. Nel Saturno, Goya ha aperto un varco verso l'unico autentico "sfondo" - il nulla che la grande arte occidentale, nelle sue espressioni più lucide, aveva presentato al di sotto della messa in scena delle figure.
È questo il senso, ciò che resta del senso, del Saturno. È sorto ciò che sta al di sotto del linguaggio e del pensiero, al di sotto del loro mondo e delle loro illusioni, e tutto ciò non è altro che il rapporto fra preda e predatore, la vita che ha l'unica esigenza di distruggere la vita (Bonnefois, Goya, le pitture nere).
In Goya l'idea nasce a partire dall'immagine e per questa ragione è più difficile da cogliere. L'anteriorità dell'immagine rispetto al concetto balza evidente dal ciclo delle Pinturas negras, e in particolare dal Saturno. Del dipinto sono più le cose che ignoriamo, o comunque controverse, rispetto a ciò che si può considerare accertato: non sappiamo, anzitutto, quale fosse il titolo posto dall'autore; di conseguenza non possiamo neppure essere certi di ciò che il dipinto raffiguri. 
Nel tentativo di ritrovare il bandolo di una matassa assai intricata, a risultati significativi è possibile pervenire mettendo a confronto l'opera di Hogarth e quella attribuita a Goya. Il percorso concettuale che esse descrivono è esattamente l'uno l'opposto dell'altro. L'artista inglese ricapitola e accumula, con accuratezza perfino puntigliosa, tutti i dettagli che, sotto il profilo storico, sono stati aggiunti per descrivere il processo che conduce da Kronos alla morte attraverso chronos, quasi a volersi assicurare che il "messaggio" giunga forte e chiaro.
Nulla di questo ritroviamo nel dipinto di Goya. La cura posta da Hogarth nell'accumulazione pedante dei simboli del tempo si rovescia nella scelta di cancellarli altrettanto meticolosamente tutti. Ciò che balza fuori dall'opera con devastante incisività è il pasto cannibalico. Di ciò "parla" questa sconvolgente pintura.

In altre opere, a parte il Saturno, non sono pochi né di scarso significato gli elementi propriamente "saturnini", i quali confermano dunque un interesse non effimero né superficiale per la figura della divinità greco-latina. È il caso di Dos frailes, dove una figura demoniaca e cadaverica parla all'orecchio di un anziano provvisto di una folta barba bianca, il quale cammina sostenendosi con un bastone, manifestando chiaramente la sua età avanzata e la sua sordità. Questa immagine costituisce la rappresentazione pittorica tradizionale del dio Kronos ed è stata altresì generalmente interpretata come autoritratto di Goya ormai decrepito e incerto nel camminare (Hervàs Leòn, La Quinta de Goya y sus Pinturas Negras).
Un'immagine molto simile la ritroviamo in un disegno nel quale l'artista ha verosimilmente ritratto se stesso appoggiato a due bastoni, impossibilitato a camminare da solo, aggravato da un'età molto avanzata e da una salute malferma. Aun aprendo - "ancora imparo". Il vecchio cadente, incurvato sotto il peso degli anni, quasi nascosto alla vista da una grande chioma bianca ricongiunta a un'imponente barba incolta, di cui si coglie l'estrema difficoltà nel camminare - ancora impara.
Di questa citazione è stato ricostruito il percorso che, con tutta probabilità, mette in relazione Goya con la pittura dell'età moderna, dal Cinquecento (e forse anche molti secoli prima) fino alla fine del XVIII secolo.
Il titolo Ancora imparo ha la sua origine nella sentenza utilizzata da Platone e da Plutarco, mentre l'immagine di un vecchio appoggiato a due bastoni è in relazione con la stampa omonima di Girolamo Fagiuoli. Nella prima metà del secolo XVI era un luogo comune rappresentare Cronos come un anziano barbuto, vestito con una tunica e appoggiato a due bastoni, come risulta da una stampa di Marcantonio Raimondi. Più vicina nel tempo è la stampa di William Blake che illustrava il libro di Henry Füssli Lectures on Painting che Goya poteva conoscere. In essa si mostra Michelangelo Buonarroti appoggiato a un bastone (Matilla, Aun aprendo, in Goya: Luces y Sombras).
La ricostruzione è certamente utile, ma rischia di essere fuorviante se non viene completata con il riferimento alla fonte originaria. La citazione è completa solo se non si tiene separato il disegno dalla citazione, perché essi costituiscono un unico lemma, semplicemente articolato in una parte disegnata e in una parte scritta.
La frase riportata, di per sé, è solo la metà di una sentenza, che non risale affatto (se non in maniera derivata) a Platone, il quale si limita a citare la fonte originaria, e cioè Solone. L'espressione aun aprendo traduce aei pollà didaskomenos - "sempre molte cose imparando". Ma nella formulazione ellittica implicitamente rinvia a ciò che precede. E ciò che precede è gherasko - "invecchio". Il disegno va "letto" nella relazione organica fra l'immagine e la citazione: Goya cita per intero la sentenza di Solone, solo che la scinde in due linguaggi diversi e complementari, affidando alle parole scritte il "sempre imparando", e all'immagine del vecchio la malinconica confessione: "invecchio".
Anche per questa via è dunque possibile escludere che nel Saturno l'artista spagnolo abbia semplicemente "dimenticato" di raffigurare gli attributi che infallibilmente accompagnano la rappresentazione del dio. Se nel dipinto non compaiono i tradizionali simboli temporali, essi mancano perché una loro eventuale presenza renderebbe meno leggibile la chiave di interpretazione di Kronos-chronos che Goya intendeva rendere evidente. Mancano perché, ciò che resta, e balza dunque in primo piano, è un aspetto che non è riconducibile alla pluralità indistinta dei segni che scandiscono il passaggio da Kronos a chronos e poi alla morte.
Per Goya, Saturno è il dio cannibale, il tempo che tutto tutto divora e consuma. L'acquaforte di Hogarth segna il culmine di un processo di accumulazione di simboli temporali che hanno condotto al compimento - ma insieme anche alla dissoluzione - dell'immagine tradizionale del tempo. Dopo quell'esito, non è più possibile ornare l'immagine del tempo con attributi che ne addolciscano la forza devastatrice. Saturno compare in tutta la selvaggia ferocia del tempus edax, che non lascia alcuno scampo. Nessuna divagazione, nessun cedimento all'eufemismo della metafora, ma il tempo come potenza instabile e distruttiva, rappresentato nella sua brutale quintessenza del divoratore.

Ma il disegno esige un ulteriore approfondimento sul piano specificamente filosofico. Con uno scatto d'orgoglio, quel vecchio rivendica di essere ancora capace di imparare. Anzi, nella connessione fra il disegno e la citazione, Goya ci dice che la sofferenza gli ha insegnato.
Che la sofferenza [pathos] possa produrre conoscenza [mathos] è convinzione che affiora ripetutamente. Lo afferma Eschilo (Agamennone), ma una convinzione analoga è espressa anche da Sofocle (Elena, Edipo re). Il pathos è dunque il tramite di un'esperienza che conduce verso un arricchimento della conoscenza, come già aveva solennemente affermato Erodoto, sostenendo che le sofferenze producono conoscenze.
Se davvero il vecchio raffigurato nel disegno corrisponde a un autoritratto; se l'immagine appena delineata di un personaggio che procede con fatica appoggiandosi a due bastoni e che di sé dice di aver imparato coincide con quella dell'artista spagnolo - questo è ciò che Goya ha imparato e vuole trasmetterci. Egli ha "imparato" che il tempo consuma e distrugge tutto ciò che ricade sotto il suo dominio, fino al punto da divorare ciò che ha generato. A differenza di quello descritto da Hogarth, il Kronos di Goya lotta disperatamente per sopravvivere. Gli occhi ne dicono la follia, per sopravvivere distrugge ciò che soltanto ne può assicurare la continuità. Un impulso di morte che si esprime in disperata e cieca volontà di vita (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

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