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mercoledì 21 ottobre 2020

filosofia come allenamento

La palestra di Platone è l'ultimo, straordinario testo del filosofo Simone Regazzoni.
La philosofia, amore per il sapere, è anche se non soprattutto philoponia, amore per la fatica, è essere disposti a faticare per cambiare se stessi, per elevarsi.
Ma non essendo l'uomo una mente disincarnata, puro pensiero, res cogitans separata dal proprio corpo vivente, la filosofia non può permettersi di assumere una postura asservita al dominio della sola parola e della razionalità, deve invece ripensarsi come cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita che coinvolge il plesso di mente-e-corpo, come invito ad abbandonare la propria dipendenza da uno stile di vita comodo e cogliere invece l'occasione per allenarsi come un dio (Sloterdijk).
Così è la filosofia in origine, con Platone, filosofo lottatore che pensa nei luoghi in cui si lotta, pensa il proprio discorso nei termini propri della lotta e quando articola in chiave politica la propria filosofia pone l'allenamento in palestra e la lotta come elementi fondamentali per la formazione di maestri e allievi.
Così può e deve tornare a essere, considerando il corpo vivente come spazio di lotta, potenza, benessere, conflitto, pensiero, elevazione, auto-creazione, gioia. La sfida è atletica, estetica, cognitiva, etica e politica insieme, e consiste nella cura di sé (Foucault) come allenamento e combattimento permanente, al fine di essere in grado di fronteggiare, con coraggio, gli eventi, di accedere a un'altra intensità di esistenza (Badiou).
Certo non c'è nessun combattimento senza aggressività e senza il rischio di fare o di farsi male, ma è proprio questo male che si impara a maneggiare, gestire, contenere, pensare: non c'è etica degna di questo nome, se non ci si allena all'uso della forza che ogni vivente possiede in sé, se non ci si prende cura della pulsione di morte, con la pulsione a combattere o di aggressività che ogni soggetto porta con sé. Come anche Montaigne scrive sull'educazione dei fanciulli, è necessario avvezzarli al sudore e al freddo, al vento, al sole e ai rischi affinché essi possano fare ogni cosa, e non desistano dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma per mancanza di volontà.
Attraverso la fatica, e facendo prova dell'essere-esausto, facendo prova del limite, ci si supera per divenire altro da sé: l'elevazione non è un mero potenziamento di sé, accrescimento di sé, ma un divenire in sé altro da sé, un miglioramento, perfezionamento, potenziamento vitale, un divenire-animale (Deleuze) che è accesso alla pienezza della potenza del proprio corpo vivente. Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé. Il soggetto, in questo senso, si costituisce nell'allenamento, l'allenamento è il processo attraverso cui il soggetto costituisce continuamente se stesso al di là di sé: l'allenamento è una pratica di soggettivazione continua che produce un potenziamento vitale. Si è in lotta continua con se stessi per andare al di là di sé. Attraverso allenamento e ripetizione si arriva allo stile, forma incarnata e adatta alla propria singolarità, forma della propria forza e della propria vita, elevazione, intensità, godimento, gioia.
Questo body-building con cui si costruisce il proprio corpo, è anche un lavoro sulla vita ed è contemporaneamente un brain-building, data la neuroplasticità del cervello sulla cui materialità e sui cui processi di pensiero agiscono i movimenti del nostro corpo. Allenarsi è un processo di trasformazione radicale che coinvolge la totalità dell'essere umano, è un trasformarsi, elevarsi, perfezionarsi per essere migliori rispetto a ciò che si è, è una lotta contro la vita mediocre e una tensione verso l'eccellenza.



mercoledì 13 febbraio 2019

filosofia come narrazione complessa

Uno spettro si aggira nel discorso filosofico del Novecento: la letteratura come altra forma di scrittura al di là dei limiti del logos. Un fantasma, quello della letteratura, al contempo desiderato e forcluso dalla filosofia, mai del tutto attraversato per incontrare il reale della scrittura in una nuova forma. Ecco ciò che è stato mancato dalla filosofia, secondo il filosofo Simone Regazzoni
In questo Iperomanzo - saggio da leggersi in coppia con la recente monografia su Derrida pubblicata presso Feltrinelli - Regazzoni prospetta la fine della separazione tra filosofia e mimesis poetica, il cui antico dissidio Platone poneva all'origine della specificità filosofica: un andare verso-l'origine-oltre-la-fine della filosofia attraverso il ricongiungimento tra filosofia e poesia. Ecco l'ingiunzione per la filosofia: misurarsi, fino in fondo, con la propria fine come esaurimento di ciò che la filosofia può pensare in forma argomentativa, reinventare la propria scrittura.
È Nietzsche che aveva iniziato a portare la filosofia oltre se stessa, attraverso una pratica di scrittura che non rimanda più a una qualche verità da scoprire o enunciare. Il mondo divenuto favola non si lascia più concipere, cioè afferrare dal concetto, non si lascia più dire nella forma di un discorso vero. La finzione è un elemento costitutivo della realtà, ed è proprio perché sono venute meno l'idea di realtà e di verità come qualcosa di presente, stabile, afferrabile attraverso il logos, dicibile in un discorso razionale, che la filosofia deve trovare, attraverso la letteratura, una nuova forma di pensiero in grado di misurarsi con la complessità. La filosofia diviene operazione di stile, che con Nietzsche dà vita a pagine tra le più alte che la letteratura tedesca abbia conosciuto. Nel Novecento, Ermeneutica e decostruzione sono state forme di preparazione all'assolutamente nuovo che è la letteratura, tuttavia esse non hanno mai messo davvero in atto la letteratura ma si sono limitate a dichiararla, vale a dire ancora recuperarla in un logos: essa, invece, andrà praticata, scritta. Dunque, occorre alla filosofia un gesto che vada al di là della decostruzione dell'apparato della razionalità metafisica, di cui sono state mostrate le aporie, l'instabilità dei margini, l'impossibilità di funzionare secondo un sogno di purezza che non avrà mai luogo; occorre alla filosofia misurarsi fino in fondo con un mondo vero diventato favola. Oggi, secondo Regazzoni,  pensare la filosofia significa, inevitabilmente, pensare il romanzo: "romanzo" è dunque il nome dell'impasse attorno a cui è ruotata e ruota la questione della fine e del superamento della metafisica come pratica di un pensiero che pensa altrimenti, al di là del monologos, al di là del concetto, al di là della teoria.
Le tappe della storia di questa impasse ricostruita da Regazzoni comprendono, tra gli altri, Barthes, Derrida ed Eco.
Roland Barthes ha dato corpo alla scrittura della preparazione, alla simulazione dell'opera in corso, a uno spazio di indecisione e indistinzione tra teoria e scrittura, saggio e romanzo, filosofia e letteratura. Ma questa preparazione del romanzo sarà solo la storia interiore di un uomo che vuole scrivere e non avrà nulla di un thriller, ahimè - dispiacere, rimpianto, rammarico, pentimento, dello stesso Barthes.
Anche Jacques Derrida, nella sua infinita preparazione all'opera impossibile, nell'infinito intrattenimento della sua filosofia con il fantasma della letteratura, non ha mai scritto il desiderato libro impossibile da scrivere, illeggibile, impensabile per il suo stesso autore. Eppure esso rappresenta il centro vuoto che orienta la scrittura del filosofo francese. La resistenza dell'esistenza al concetto di sistema, la singolarità dell'esperienza nel suo rapporto con la lingua, orientano la filosofia di Derrida come ricerca di una scrittura singolare, idiomatica e autobiografica, che eccede l'orizzonte del senso e l'astrazione della pura teoria: questa è stata la pratica costante di Derrida e la specificità e la grandezza del suo pensiero. Ma il suo limite è stato quello di una strategia testuale segnata da un'idea avanguardistica di letteratura in cui la narrazione è negata, legata a un contesto culturale in cui la letteratura era vista essenzialmente come operazione di stile, gesto di rottura con la forma del romanzo classico.
È la neoavanguardia italiana che comincia a riflettere sui limiti delle strategie di sovversione semantica, di illeggibilità, e rivaluta, in nuove forme, trama, avventura, azione, recuperando la dimensione la narrazione, l'intreccio. Con Il nome della rosa Umberto Eco produce un romanzo sperimentale e insieme popolare, in cui l'avanguardia si compie nel pop e in cui avviene la riunificazione di filosofia e narrazioneil superamento delle impasses teoretiche della filosofia del Novecento avviene così con un thriller che vende milioni di copie in tutto il mondo. Grazie a un intreccio forte, un plot, un mythosEco fa del romanzo uno spazio filosofico, non scrivendo romanzi filosofici nel senso di romanzi con una tesi, come aveva fatto Sartre, ma realizzando, invece, lo spazio per un pensiero filosofico altro: lo spazio in cui pensare ciò che non si può teorizzare, lo spazio di una filosofia che eccede i limiti del logos.
Bisogna partire da Eco, dunque, ma anche andare al di là di Eco stesso: l'ulteriore sfida è quella del polymythos, della molteplicità delle linee narrative e delle trame. La sfida della multitrama è quella che è stata fallita dal cosiddetto romanzo massimalista, nel quale l'esuberanza diegetica segue un principio addizionale e della digressione, un accumulo senza fine che va verso il caos, verso l'esplosione della trama come principio d'ordine. Per eccesso di narrazione, quindi, viene nuovamente meno la trama, ed è questo il limite delle opere di Pynchon, Wallace o Bolaño, cedere sotto il peso della molteplicità del narrabile. 
È necessario, invece, narrare senza perdersi in essa, ed è ciò in cui riesce la più potente invenzione narrativa degli ultimi vent'anni, la nuova serialità televisiva, la complex TV. Ancora una volta, dopo Eco, è dunque nello spazio della popular culture che avviene la sintesi più avanzata e innovativa delle grandi questioni sollevate alla frontiera tra filosofia e letteratura nel corso del Novecento: universi narrativi iper-diegetici, multiplot, che affrontano grandi questioni etiche, politiche, esistenziali, metafisiche. La complessità dell'iperserialità non è solo legata alla molteplicità delle linee narrative, ma anche all'ibridazione di generi e stili, al gioco intertestuale di citazioni e rinvii, che danno vita a un testo stratificato.
Come può, dunque, la filosofia pensare ciò che non si lascia più cogliere nelle maglie del logos, di un discorso teorico che enunci una tesi vera sul mondo? La risposta di Regazzoni è mettendo in discussione l'idea di mondo come totalità dotata di senso, l'idea di unità e unicità del mondo, rompendo con la dimensione di un pensiero che sia uno, con la volontà mono-logica del filosofo che pensa, che esprime il proprio pensiero come uno. Un pensiero polifonico, dunque, che può realizzarsi solo nell'apertura radicale al molteplice data da una modalità di scrittura sistematicamente tesa a produrre pensieri che l'autore non sa di pensare, a produrre mondi con un'autonomia interiore in cui le voci dei personaggi sfuggono al proprio autore.
In questo gioco dei mondi il pensiero sfugge strutturalmente al proprio autore, si fa molteplicità attraverso letture cui l'autore non avrà nemmeno pensato. Questo iperomanzo,  macchina per produrre molteplici interpretazioni, non è altro che la forma di scrittura che si fa carico nel modo più radicale della decostruzione del logos come monologismo, che pensa il gioco dei mondi, che si fa spazio eracliteo di gioco e di conflitto di un pensiero plurale senza sintesi. 
È così che si eredita la decostruzione, rispondendo all'esigenza di una nuova forma di presentazione per la filosofia, all'esigenza di una nuova modalità di pensiero che, giunto al punto di esaurimento del proprio possibile come possibile di un "io penso", si apra a una dimensione altra di scrittura in grado di ospitare un pensiero molteplice. Bisogna attraversare la fine di una forma storica di discorso che ha preteso di distinguersi, in quanto dominio del logos, dalla narrazione-mythos, fine che è nuovo inizio della filosofia come narrazione complessa, come pensiero che si affida alla plurivocità della narrazione come modalità di discorso che si misura con ciò che non può essere detto semplicemente in un discorso dotato di significato ma che deve essere raccolto in una trama, non dedotto ma narrato.
Il romanzo pensa, un pensiero a molti mondi in cui l'ultima parola del pensiero è lasciata all'altro.

martedì 24 maggio 2016

critica dei morti viventi

La bella raccolta di saggi curata da Cateno Tempio, Critica dei morti viventi, indaga e racconta il fenomeno zombie tra cinema, videogiochi, fumetti e filosofia. I morti viventi siamo noi, inutile nasconder la nostra condizione ontologica che è la progressiva decomposizione, il disfacimento vivente. Figura perturbante e filosofica, lo zombie cammina senza trucchi, rifiuta l'imbellettamento e le maschere del vivere comune, svela la morte.
Rocco Ronchi ritiene che più dei moderni - che da Cartesio in poi pongono tra il vivente e il suo cadavere una relazione sinonimica, di contrari ma in un genere comune (ontologia della morte di un materialismo meccanicista che ha nei gabinetti di anatomo-patologia la sua origine) - siano gli antichi - che con Aristotele pongono un'omonimia tra il vivente e il cadavere, il cui nome è comune ma la cui essenza è differente - a permetterci di cogliere cosa siano i living dead: essi affermano una differenza pura, infinita, senza identità, la differenza a monte della vita e della morte (Jacques Derrida), una soglia che non appartiene né alla prima né alla seconda. Gli zombi portano a espressione quanto vi è di liminare nell'esperienza umana, l'esperienza pura, anonima e universale del trauma, familiare e perturbante.
Per Tommaso Ariemma quella del morto vivente è una figura di lunga tradizione che si riallaccia alle due distinte forme di "morte in vita" che gli antichi filosofi riconoscevano: la vita contemplativa e la vita quotidiana. Da Platone a Fichte la vita contemplativa, l'ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, inventa la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria. La figura degli zombi va allora messa in relazione alla sua origine metafisica, ovvero alla particolare forma di vita che l'Occidente ha scelto come ideale.
Antonio Lucci vede nell'origine haitiana dello zombie l'orrore infinito di una società soggiogata da un regime schiavista potenzialmente eterno e infinito, al di là del tempo e della morte: lo zombie quale paradossale controfigura dell'oppresso, grado zero della vita, dell'umanità, della morte e del proletariato. Pura morte, nuda morte che cammina, lo zombi si vendica di questa schiavitù nelle sue incarnazioni successive, che da un lato lo rendono un emblema della critica al capitalismo, mentre dall'altro esso diventa una macchina da riproduzione, un proletario nel senso letterale del termine, quale ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione: l'oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione è lo zombi che crea altri, potenzialmente infiniti, seguaci, massa che da asservita diventa soggiogante, movimento acefalo, collettivo e organizzato dal basso nella propria assenza di opera. Nelle sue ultime figurazioni, invece, lo zombie sembra essere la molla d'innesco per narrazioni che hanno al proprio centro un'antropologia pessimistica: in una società resettata, in cui le istituzioni collassano, l'essere umano è il vero mostro, animale crudele allo stato di natura.
Tommaso Moscati evidenzia come lo zombie sia fra le figure orrorifiche quella che maggiormente è in grado di problematizzare la questione della diversità e dell'anticonformismo, essendo un concentrato di eccentricità e deformità.
Livio Marchese parla di "complesso dello zombie" per indicare la malattia che affligge l'umanità del terzo millennio, malattia prodotta dalle spore delle immagini in movimento di quell'arte potentissima e arte patogena che è il cinema che, meraviglioso e pericoloso, agendo sugli stati psichici più profondi può liberare e prolungare lo sguardo quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Tra gli anni Sessanta e Ottanta la natura del miglior cinema zombie è stata quella rivoluzionaria di critica nei confronti della società, del nuovo tipo umano e delle nuove relazioni tra esseri umani, mentre ora esso sembrerebbe non andare oltre l'ambizione di soddisfare il bisogno di forzare sempre di più i limiti della rappresentazione dell'orrore, garantendo sfogo catartico e compiacimento.

venerdì 7 agosto 2015

letture di luglio - extended

Troppo poco mi sono dedicato a scrivere sui testi letti durante lo scorso mese di luglio. Perciò provo a recuperare un po' qui, tornando almeno su un paio di saggi di filosofia per i quali è giusto spendere qualche parola in più.

In Canone inverso Tommaso Ariemma propone una teoria generale dell'arte, dalla narrativa europea alla Dickens alla produzione popolare nipponica e alla nuova serialità statunitense, che si rivela un ibrido capace di mettere insieme la fruizione tipicamente cinematografica che punta all'effetto simultaneo sui sensi, sul pathos corporeo prodotto da immagini e suoni, e che immobilizza, e la richiesta allo spettatore di attivarsi in un lavoro di archivio e di investigazione, di rintracciamento e di condivisione, di rielaborazione e co-creazione.

Con il suo ultimo La porta stretta Umberto Curi prova a tracciare un itinerario filosofico su come si diventa maggiorenni. Chiamando in causa Kant e il suo coraggio di pensare con la propria testa, di camminare con le proprie gambe, senza girelli, anche a costo di qualche caduta, di disubbedire e denunciare le tante forme di governamentalità che plasmano e condizionano la vita umana (come "traduce" Foucault il motto illuminista); Platone e il suo attacco mortale al padre, la sua filosofia come duro combattimento a tutto campo, battaglia senza quartiere; e altri personaggi filosofico-letterari da Edipo ad Amleto, dai fratelli Karamazov allo scrivano Bartleby, Curi riconosce come la fuoriuscita dalla minorità sia quel terreno di scontro in cui si è costantemente chiamati a mettere alla prova le proprie capacità e il proprio valore, una guerra inconcludibile.


venerdì 14 novembre 2014

letture di novembre (I)

Prima parte del mese dedicata a brevi letture di saggistica filosofica.
Il saggio di Umberto Curi su La forza dello sguardo indaga l'intreccio tra visione e potere, e la sua costitutiva e ineliminabile ambivalenza, che sembra caratterizzare lo sviluppo della storia culturale dell'Occidente, in cui la volontà di conoscenza e il desiderio di appropriazione sembrano saldarsi nella riproposizione di immagini della "rapacità dell'occhio che tutto vuole vedere-conoscere, che tutto vorrebbe rinserrare nel proprio orizzonte" e della figura dell'onniveggente-invisibile.
Il percorso di Curi si apre con Freud e la sua analisi psicoanalitica della vista quale fondamento del perturbante e si chiude con Foucault e l'organizzazione degli spazi, la sorveglianza nella società disciplinare, la dittatura orwelliana dello sguardo panotiico dei dispositivi del Grande Fratello, ma è tutto lo sviluppo centrale a costituire la parte più interessante del saggio, sviluppo il cui tragitto si svolge tutto all'interno del mito e della filosofia antichi: dallo sguardo potente della terribile Medusa al potere dell'invisibilità dell'anello di Gige, dalla tragedia di Edipo e il mito di Narciso al racconto di Platone della caverna in cui l'educazione filosofica emerge quale lotta e combattimento, afflizione e costrizione verso la luce (e con ritorno finale nelle ombre), allenamento dell'occhio e dello sguardo.

Giuliano Torrengo offre una piacevolissima e competente (dal funto di vista scientifico e fantascientifico, filosofico e letterario) guida a I viaggi nel tempo. Dopo aver presentato le diverse teorie sul tempo che si contrappongono nel dibattito odierno (visione dinamica o statica del tempo, nelle loro varie formulazioni moderate e più radicali), valutando quali di esse rappresentano uno sfondo metafisico più favorevole alla posizione dei viaggi nel tempo e quali, invece, sembrano inconciliabili con essi, l'autore chiarisce l'idea della quadridimensionalità dello spaziotempo, le implicazioni della relatività speciale sul concetto di simultaneità e quindi di presente e quelle della relatività generale sulla curvatura gravitazionale dello spazio quadridimensionale. Poi vengono illustrati macchine e tunnel spaziotemporali, costruiti o ottenuti sfruttando le caratteristiche di particolari oggetti cosmici. Infine si affrontano i paradossi del viaggio nel tempo (catene causali circolari, autorapimenti, oggetti provenienti dal nulla, tentativi di cambiamento del passato), mostrando come sia scorretta l'idea che viaggiare nel tempo è impossibile perché ne nascerebbero delle vere e proprie contraddizioni. Il tutto in maniera piana ma non superficiale, da buona guida, efficacie anche nell'uso di esempi e di riferimenti a prodotti dell'immaginario fantascientifico popolare.

Inoltre, di quel femonemo di Slavoj Žižekle cronache del mondo rimosso Distanza di sicurezza e la filosofia dell'Evento; la Piccola filosofia dello Zombie di Maxime Coulombe.

domenica 9 novembre 2014

evento

Salendo a bordo del saggio di Slavoj Žižek sull'Evento, si transita per diverse stazioni attraverso le quali il filosofo sloveno riflette sulla definizione dell'oggetto in esame, partendo da prime approssimazioni quali quella di effetto che sembra eccedere le proprie cause, di mutamento nel modo in cui la realtà ci appare, di trasformazione sconvolgente della realtà stessa.
L'evento è un mutamento o disgregazione della cornice (frame) stessa attraverso la quale la realtà ci appare, percepiamo il mondo e ci impegniamo in esso; esso è un re-incorniciamento (reframing), dato che solo una cornice fantastica, fantasmatica, ci rende capaci di esperire il reale delle nostre vite come una totalità significante: l'incorniciamento (enframing) è l'atteggiamento propriamente umano verso la realtà, il nostro relazionarci con essa. L'evento rappresenta quindi una nuova apertura epocale in senso heideggeriano, l'emergere di un nuovo mondo, di un nuovo orizzonte di significato.
Ancora, l'evento è la rottura del normale corso delle cose, è caduta quale peccato felice (felix culpa) che è condizione stessa del bene; è, in senso hegeliano, ferita autoinflitta che tenta di curarsi, che mina, nega e trasforma l'intera realtà inerte e stabile, che crea - quale assoluto contraccolpo - ciò da cui si ritira, ciò che si lascia indietro, come lama nella carne. L'evento è, allora, anche rottura della simmetria, in cui le cose emergono quando l'equilibrio è distrutto, quando qualcosa va storto.
In campo filosofico, secondo Žižek esistono tre eventi nella storia del pensiero occidentale, tre intrusioni traumatiche di qualcosa di nuovo che risulta inaccettabile per la visione predominante, tre momenti di follia e tre tentativi di contenere e controllare questo eccesso, di ri-normalizzarlo e re-inscriverlo nel normale corso delle cose: Platone e l'istantaneo e improvviso incontro con la verità dell'Idea, una verità che fa male e che sconvolge la vita quotidiana, evento fragile e fuggevole, da trattare con la delicatezza di una farfalla, che ci appare attraverso esperienze fugaci, in momenti miracolosi in cui un'altra dimensione trapela nella nostra realtà. Cartesio e l'emergere della pura soggettività da una rottura nella grande catena dell'essere, da un radicale auto-ritrarsi - quasi psicotico o mistico - nella "notte del mondo" in cui l'immediato contesto naturale della realtà si eclissa, esperienza di un abisso traumatico. Hegel e l'Assoluto come auto-sviluppo, come risultato della propria stessa attività, come crimine universale che pone se stesso come ordine e legge, come rivolta tenebrosa e audace che congiura per essere moralità e civiltà, in definitiva come evento che include nella propria verità anche la finzione o fantasia, che modifica il passato creando retroattivamente la propria stessa possibilità, le proprie cause e condizioni.
Per la psicanalisi di Lacan, invece, l'evento è l'irrompere del Reale, il ritrovarsi a tu per tu con la Cosa, un trauma in grado di destabilizzare l'ordine simbolico; e, ancora, l'insorgenza improvvisa di un nuovo ordine simbolico, di un nuovo "Significante-Padrone", cioè di un significante che struttura un intero orizzonte di significato, creando il proprio stesso passato.
Come per Alain Badiou, un evento è una contingenza che i trasforma in necessità, dando origine a un principio universale che richiede fedeltà e duro lavoro per un nuovo ordine, che si tratti di un innamoramento personale o di una rottura politica radicale.

domenica 31 agosto 2014

letture di agosto (III)

Forte delusione dalla lettura, dopo anni di attesa sullo scaffale di letteratura sudamericana, di Rayuela di Julio Cortázar. Il libro che dovrebbe essere molti libri, che dovrebbe essere almeno due libri - quello dall'abituale lettura lineare e consequenziale di 56 capitoli, e quello dalla lettura da vertiginoso gioco del mondo, da corsa nei sacchi, di 155 capitoli -, che vorrebbe distruggere la letteratura e forzare l'abito mentale del lettore invitandolo a essere attivo e leggere come vuole, così magari da rendere il libro migliore di come lo ha organizzato l'autore stesso, ecco, questo libro non è altro che una raccolta di brani frammentari e poco tramati, poco intrecciati, in cui non si danno più possibilità di storie costruite dall'attività del lettore - la cui attività è ridotta a un frustrante andare avanti e indietro tra i capitoli -, ma solo una debole storia narrata dall'autore.
Quella di Il weekend di Peter Cameron mi era sembrata una lettura-perdi-tempo, poco tempo per carità, una mezza giornata, ma la trama assolutamente inconsistente mi aveva fatto rimpiangere quell'impiego di tempo; per fortuna del libro, nel senso della sua valutazione da parte mia, questa lettura era legata a un incontro di discussione, e la bella serata e le piacevoli chiacchierate mi hanno fatto scoprire spunti interessanti che la mia lettura solitaria non aveva lasciato emergere. Rivalutato in positivo.
Devo assolutamente ringraziare per il suggerimento di lettura relativo al primo volume della trilogia di Roberto Costantini con protagonista il commissario Balistreri. Tu sei il male è un romanzo sorprendente, per i suoi personaggi, per il suo intreccio narrativo, per il suo non essere rinchiuso negli stilemi di un genere, per l'idea che la verità si paga, come una puttana. Ottima esperienza. "Sapeva che la lotta tra prudenza e verità era la lotta fra ciò che era diventato e ciò che era stato. In entrambi i casi comunque infelice, in modo diverso. Ora doveva trovare una sintesi che lasciasse vivi i vivi e desse giustizia ai morti".
Con il suo Universo Robert A. Heinlein costruisce un romanzo di fantascienza ancora una volta pienamente filosofico: mondo chiuso o infiniti spazi, fede o ricerca scientifica, mutazioni o colpe e peccati, immobilismo fisico e socio-politico o apertura al nuovo; questi alcuni dei contrasti che dialetticamente portano avanti la vicenda narrata in una nave spaziale alla deriva da generazioni.
Il primo volume di La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper, sul totalitarismo della filosofia politica di Platone, sullo Stato chiuso, elitario, classista, organico, censorio che il filosofo progetta come ideale ne La Repubblica, è ricco di interessanti spunti di riflessione e di legittime messe in guardia contro i lati oscuri di ogni utopismo, ma non risulta privo di eccessi, forzature e sovra-interpretazioni che piegano il pensiero platonico per farlo corrispondere alla sua lettura. 
Piana e gradevole la lettura delle lezioni sulla filosofia antica di Hans G. Gadamer raccolte in L'inizio della filosofia occidentale.

domenica 8 giugno 2014

abyss - letture di giugno (I)

Michael Price, giovane professore di filosofia antica, pensa la filosofia "come gara automobilistica su strada in cui devi farli saltare tutti fuori dai loro sedili" o, come scrivono Deleuze e Guattari, non "pensa alla filosofia come a una perpetua discussione, nei termini di una 'razionalità comunicativa', o di una 'conversazione democratica universale'. Niente è meno esatto. E quando critica un altro lo fa a partire da problemi e su un piano che non erano quelli dell'altro e che fondono gli antichi concetti come si può fondere un cannone per ricavarne nuove armi" (Che cos'è la filosofia?). Il filosofo protagonista di Abyss, il primo romanzo di Simone Regazzoni, guida una Chevrolet Camaro RS/SS 396 nera del '68 e più che al dialogo filosofico si dedica all'azione eroica: se nel 1986 la X-Man Kitty Pride si diceva che "è dura scrivere una tesi di filosofia etica e, contemporaneamente, salvare il mondo. Ma voglio provarci", nel 2014 Michael Price sembra, invece, riuscire a conciliare i due apparentemente opposti propositi, pubblicando un saggio sulle dottrine non scritte di Platone - accolto dagli accademici tanto male quanto La nascita della tragedia di Nietzsche dal mondo della filologia, e perciò certamente un ottimo testo - e, contemporaneamente, affrontando le complesse e nascoste trame di agenzie segrete statunitensi, gruppi terroristici neonazisti, guardiani che operano nell'ombra in zone quantomeno grigie. Trame che provano a tessere un nuovo inizio o a ordire un'apocalisse? E comunque come uno studioso di Platone si ritrova invischiato in una vicenda da film d'azione? 
Con un'arte della scrittura da sceneggiatore di serie tv, Regazzoni radicalizza quella commistione tra filosofia e cultura popolare che da anni porta avanti a livello di saggistica con la popfilosofia, e realizza un romanzo d'avventura  che è pura filosofia da spiaggia, un phil-thriller da godersi in pieno come una gara automobilistica, in cui si salterà sulle proprie sedie (o poltrone, o divani, o, meglio, sdraio) per l'azione esplosiva alla nitrocellulosa (fulmicotone), per la continua inventiva, per il puro divertimento.

domenica 10 novembre 2013

letture di novembre (I)

Chi ha dato fuoco a La biblioteca scomparsa di Alessandria? Cesare, quando per rompere l'assedio in cui era stretto diede fuoco alle navi nel porto e l'incendio divampò anche nei magazzini limitrofi e in depositi di libri? Il vescovo Teofilo, in uno di quei roghi di libri pagani che erano parte della cristianizzazione? L'emiro inviato dal califfo Omar, obbedendo all'ordine per cui se i libri della biblioteca si accordano con il libro di Allah se ne può fare a meno, mentre se sono ad esso difformi non c'è bisogno di conservarli, così che essi furono distrutti bruciandoli - e vi occorsero sei mesi - per riscaldare i bagni pubblici della città? E poi, dove era collocata in realtà questa biblioteca? Luciano Canfora conduce il lettore attraverso la storia e le testimonianze della regia biblioteca di Alessandria, con uno stile chiaro e semplice ma forse un po' carente dal punto di vista narrativo e romanzesco.

Meno brillante delle precedenti produzioni, sia per trama narrativa che per inventiva grafica, ma comunque più che gradevole, Dodici di Zerocalcare.

L'immersione nella cultura classica antica continua con due tragedie di Euripide: l'Ippolito, antisocratica tragedia in cui il ragionamento non ha efficacia quale farmaco e rimedio per gli affanni degli uomini, che possono anche sapere e conoscere il bene, ma a volte non si sforzano di farlo; lo Ione, drammone a lieto fine tutto orchestrato dall'Ambiguo dio Apollo e dai suoi responsi oracolari veri ma affatto chiari, necessariamente enigmatici messaggi e tempestosi suoni fraintendibili dall'uomo perché il dio non può apparire ad egli in tutto il suo fulgore, sarebbe pericoloso guardarlo o ascoltarlo, non è concesso ai mortali farlo.
Legata alla cultura classica è in realtà anche la lettura di Prolegomeni per una popsophia, visto che in questo breve pamphlet Umberto Curi deduce la legittimità di diritto della fattuale commistione tra filosofia e cultura popolare dalle origini stesse della filosofia, che nasce pop perché si sviluppa nella relazione vitale con i problemi presenti nella comunità, dalla vita trae alimento e alla vita costantemente ritorna; perché è affine e non opposta al mythos, al raccontare dalla risonanza emotiva e sentimentale e dall'indubbio e gratuito piacere; perché nasce (secondo Platone e Aristotele) dalla meraviglia e dallo sgomento, come risposta a un'inquietudine sentita e patita dall'uomo; perché non c'è cosa più filosofica e seria della poesia, che permette di procurarsi le prime nozioni, di imparare e di ragionare mentre, allo stesso tempo, si prova piacere.

venerdì 1 novembre 2013

letture di ottobre (III)

Un po' di saggistica in questo mese di nuovo inizio universitario.
Un primo, brevissimo e in definitiva trascurabile, Sono uno spettro ma non lo so di Sergio Benvenuto, un testo senza particolari ed evidenti difetti ma anche un'esperienza di lettura né particolarmente interessante né esteticamente gradevole sulla figura filosofica, simbolica e cinematografica del fantasma e del non morto. Peccato, speravo in qualcosa di più. 
Il secondo è, invece, l'ultimo lavoro di Umberto Curi, L'apparire del bello. Il bello nell'antichità classica (da Omero e i lirici ai filosofi quali Platone, Aristotele e Plotino) è, più che un valore estetico e l'oggetto quindi di una specialistica disciplina, un complesso, non univoco, ossimorico e paradossale ideale di eccedenza più che di presenza, di esperienza straordinaria, di chiamata a valicare un limite, di convocazione oltre le mura di "casa" delle condizioni materiali di vita, di itinerario di mutamento in cui si fondono al bello anche il vero e il virtuoso, di improvviso lampeggiamento e irruzione di un orizzonte altro e meraviglioso/traumatizzante cioè tremendo.

Nell'antichità, del resto, mi ci sono iniziato a (re)immergere parecchio in questo mese, e non potrà che continuare così. 
Due "scurrili" commedie di Aristofane, Gli Acarnesi e Le vespe, contro la guerra e contro il potere fintamente democratico che facendo sgranocchiare briciole al popolo lo rende contento e non solo si conserva ma lo asserve. 
Il dialogo di Platone Gorgia, con il fantastico multiplo parallelismo tra legislazione e giustizia (che politicamente mantengono il benessere dell'anima e ne correggono i mali) e sofistica e retorica, che rispetto alle prime sono come le seduttive e adulatorie cosmesi e culinaria rispetto alla reale e positiva cura del corpo che compete a ginnastica e medicina; ma anche con la straordinaria figura di Callicle, la sua moderna teoria della naturale morale dei forti e migliori piegata dalla legge della moltitudine dei deboli, il suo spiattellare in faccia al solito Socrate i suoi volgari sofismi efficaci solo perché chi dialoga con lui si vergogna di dire ciò che pensa e perciò cade in contraddizione.
Su Socrate e Platone, e proprio sul Gorgia e il Protagora, il saggio di Georgia Zeami e Francesca Presti Daimonicità del lògos, che presenta la mostruosa e demoniaca figura di Socrate, insieme e a un tempo educatore, amante, aperto dialogante, ma anche sapiente e rigido maestro di virtù, nel quale quindi aleggia lo spettro dell'intellettualismo e del moralismo. 

sabato 14 settembre 2013

eldritch

Mostruoso, orribile, ripugnante (hideous). Inquietante, misterioso, soprannaturale (eerie). Perturbante, sconcertante, incredibile (uncanny). Ma è l'aggettivo eldritch, riferibile a ciò che viene da una realtà altra, da un altro luogo, alieno, strano e straniero, che per Philip K. Dick riunisce tutto ciò che Sigmund Freud ha indicato come contenuto nella parola unheimlich, con la sua dimensione di panico davanti a ciò che è falsamente familiare, di impeto e spavento che fanno urlare: "come si urla per risvegliarsi, ma l'orrore è che sei già sveglio, che non c'è scampo" (Emmanuel Carrère). 
Da qui il nome Palmer Eldritch (Le tre stigmate di Palmer Eldritch), in cui Dick riunisce i temi del totalitarismo - che tanto lo aveva colpito leggendo Hanna Arendt, con la sua idea di allontanare la gente dalla realtà facendola vivere in un mondo fittizio, dando consistenza alla creazione di un mondo parallelo riscrivendo la storia e imponendo versioni aporife - e della realtà più vera dietro quella fenomenica e apparente - idea comune di tutte quelle forme culturali che vanno dal mito della caverna di Platone al sogno del cinese Chuang-zu (è il filosofo a sognare di essere una farfalla o è la farfalla a sognare di essere un filosofo?), dall'ipotesi iperbolica e radicale del genio maligno di Cartesio alla sua versione più moderna dei cervelli manipolati da uno scienziato elaborata da Hilary Putnam.


giovedì 5 aprile 2012

pillole amare

Virtualmente tutti i filosofi esistenzialisti parlano in maniera diffusa del tipo di scelta operata da Neo fra onestà e ignoranza, verità e illusione, una scelta fra l’autenticità e l’inautenticità. I personaggi di Matrix e La nausea, romanzo esistenziale di Sartre, illustrano bene i pro e i contro dei due stati.
Come i classici della letteratura esistenzialista, anche Matrix illustra sia le spiacevoli conseguenze dell’autenticità sia il fascino dell’inautenticità. Il personaggio Neo è emblematico dell’agonia che accompagna il movimento verso l’autenticità e la realizzazione di questa. Neo è come il prigioniero che esce dalla caverna di Platone. Cypher, invece, illustra l’attrazione dell’inautenticità optando per l’ignoranza: «Vede, io so che questa bistecca non esiste… so che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo nove anni, sa che cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene».
Nel romanzo La nausea, Sartre dimostra come l’autenticità sembri insopportabile e l’inautenticità stessa si presenti come un rifugio. Il protagonista, Roquentin, diviene con riluttanza consapevole della vera natura della realtà. Per esempio, nello stringere la mano di un amico, la lascia andare terrorizzato perché gli dà la sensazione di “un grosso verme bianco”. Analogamente, è paralizzato dalla paura quando afferra la maniglia di una porta che sembra a sua volta afferrarlo. Quando guarda nello specchio per riprendersi, non trova alcun sollievo, alcun conforto, perché “non capisce nulla del suo volto”. Vede invece solo qualcosa “al confine col mondo vegetale, al livello dei polipi, una carne scipita che si chiude e palpita con abbandono". Inoltre, quando guarda la sua mano e al suo posto vede un crostaceo, l’impressione è talmente insopportabile che si pugnala alla mano. In tram un semplice sedile assume l’aspetto della pancia gonfia di un animale morto. Anche se pare che Roquentin stia perdendo contatto con la realtà, alla fine diviene evidente che, in effetti, sta diventando consapevole della sua vera natura. Ciò che le esperienze di Roquentin rivelano è che “la diversità delle cose e la loro individualità non sono che apparenza, una vernice” e che gli uomini esistono – e sono confinati – in un mondo essenzialmente privo di ordine e significato. Ai piedi del castagno “questo Mondo, il Mondo nudo e crudo si mostra d’un tratto”.
Sia Matrix sia La nausea dimostrano che l’autenticità è difficile non solo perché la verità che rivela è dura per lo stomaco, ma anche perché l’inautenticità è la norma della maggior parte della gente. Gli esistenzialisti imputano il prevalere dell’inautenticità tanto alla resistenza psicologica quanto all’indottrinamento sociale. Tuttavia, poiché l’inautenticità rappresenta una fuga davanti a se stessi e noi non possiamo sfuggire a ciò che siamo, una vita inautentica è caratterizzata da un certo disperato fervore e da uno sforzo perpetuo. Oltre a non riuscire a sradicare l’ansietà e a essere costretti a una sorta di “vita in fuga”, vivere in modo in autentico comporta anche la conseguenza negativa di limitare la libertà di un individuo. Anziché abbracciare l’opportunità di creare se stessi, gli individui inautentici preferiscono adottare identità predeterminate, calarsi in ruoli che gli sono stati imposti anziché ritagliarseli da se stessi. Quando accetta la vera natura dell’esistenza, Roquentin smette di correre e comincia a vivere, si impegna nell’arduo e poco attraente compito di esistere giorno per giorno ingiustificabile e senza scuse.

(Jennifer L. McMahon, Ingoiare una pillola amara: l’autenticità esistenziale in Matrix e nella Nausea, in Pillole rosse. Matrix e la filosofia)


martedì 3 aprile 2012

l'eletto

La storia della filosofia ci fornisce due opposte interpretazioni dell’idea di salvezza. Nella versione platonica, dove la fonte dell’illusione è esterna agli esseri umani che ne sono ingannati, colui che deve vincere l’illusione giunge anch’egli dall’esterno. Un uomo eccezionale, un “re filosofo”, è necessario per guidare l’umanità.
La seconda alternativa, difesa da Kant, è quella della filosofia dell’Illuminismo moderno. La sola società che ha valore è quella in cui liberi cittadini governano se stessi. Gli schiavi possono essere veramente liberi solo se si liberano da sé. Se la libertà dalle catene gli è data senza che essi vi partecipino con i loro stessi sforzi, ricadranno velocemente in uno stato di servitù. Kant sostiene che nessuno può salvarci, eccetto noi stessi. Quest’auto-liberazione dell’umanità è il destino che ciascuno di noi deve scoprire autonomamente.
Per evitare la disperazione, l’individuo deve avere fede nella possibilità di realizzare l’ideale morale come matrice di un mondo pienamente dispiegato. Kant distingue tre aspetti di questa fede, li chiama postulati, e sono: libertà, Dio e immortalità.  Tali credenze sono essenzialmente quelle dei liberatori, dei salvatori dell’umanità. Attraverso i postulati impariamo a eseguire la nostra missione terrena, impariamo cosa vuol dire essere l’Eletto, il quale può creare il mondo del sommo bene, può giungere alla terra promessa di Zion, regno celeste sulla terra.
Per vedere la nuova Matrix della mente unita, compartecipata, è necessario credere non solo che esista la libertà, ma che le persone libere abbiano il potere di creare il sommo bene, che, sintonizzandosi nella realtà della nostra unione morale, abbiano il potere di realizzare fini più elevati, di creare un mondo radicalmente differente.  Nella sala d’attesa dell’Oracolo, un “potenziale eletto” dice a Neo: «Non credere di piegare il cucchiaio. È impossibile. Cerca invece di giungere alla verità che il cucchiaio non esiste. Allora ti accorgerai che non è il cucchiaio a piegarsi, ma sei tu stesso». Noi non possiamo cambiare la realtà esterna se crediamo che sia separata da noi. Se però riconosciamo che essa è una sola cosa con noi allora basterà soltanto piegare noi stessi e il cucchiaio si piegherà. Il “sé” in un questo caso non è l’ego separato, isolato, ma il Sé più elevato in unità con il Tutto. Avremo un potere divino solo se rinunceremo all’illusione della separatezza. Neo deve imparare che non è l’Eletto, l’Unico, bensì che è Uno insieme a ogni esistenza. Ne segue che Dio dovrebbe essere visto come un’estensione di noi stessi quando trascendiamo i limiti della separatezza fisica.
La vitalità del corpo fisico dipende dalla credenza mentale nel potere ultimo della morte. È questa la regola che governa Matrix. Il potere di ogni individuo, la sua realtà, dipendono dalle sue credenze, e queste sono in ultima analisi regolate dalla paura della morte. Per compiere il proprio destino come essere morale è necessario che l’individuo abbandoni la credenza nella morte e la paura davanti a essa, perché entro i limiti di una sola vita è impossibile per l’individuo compiere il proprio supremo dovere: determinare la venuta del sommo bene. Lo scopo morale di determinare il sommo bene è qualcosa che riguarda il nostro mondo, non un altro mondo. In tal modo, l’immortalità postulata dalla moralità dev’essere un’immortalità “inframondana”.

(James Lawler, L’eletto? Noi siamo (l’)Uno! Kant spiega come manipolare Matrix, in Pillole rosse. Matrix e la filosofia)

 

giovedì 22 marzo 2012

primo amore

Primo amore (di Matteo Garrone, Italia 2003). Secondo Plotino per migliorare gradualmente se stessi occorre trattare la propria anima come se fosse una statua, operando ciò come un artista il quale nulla aggiunge o produce, ma al contrario elimina, riduce, cancella. L’obiettivo a cui tende questo lavoro sistematico di alleggerimento consiste nel “vivere puro con se stesso”. Al termine di quest’opera si potrà si potrà diventare luce pura, splendore pieno, compiuta bellezza. All’origine del passo delle Enneadi è un luogo del Fedro di Platone in cui il paragone con l’artista viene introdotto riferendosi all’atteggiamento dell’amante: ciascuno sceglie il proprio amore e “se lo costruisce e se lo adorna come se fosse una statua”. L’amore consiste nel trattare l’altro come qualcosa che va costruito, come oggetto da plasmare, in un’attitudine plastica orientata alla trasformazione. L’amore non è incontro o mera fusione statica fra due individui per quello che ciascuno di loro è, ma coincide piuttosto con un mutamento radicale, che coinvolge tutto il loro essere, il cui scopo è il conseguimento di una perfezione luminosa. A differenza dell’itinerario salvifico descritto soprattutto nelle Enneadi, nessuna salvezza attende i protagonisti di Primo amore. Vittorio coltiva un ideale di assolutezza che non libera e non redime, che non conduce allo “splendore supremo”, ma porta piuttosto al cospetto del volto orribile della Gorgone.

(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema

martedì 10 gennaio 2012

venerando e terribile

A Platone il vecchio Parmenide appariva "venerando e terribile", "tutto bianco di capelli, bello e nobile di aspetto". Col parricidio del filosofo di Elea, Platone giunge a poter ammettere la molteplicità e il divenire.
Il parricidio di Edipo nei confronti di Laio svela il conflittuale comporsi, nell'individualità, di identità ed alterità insieme, la condanna a non poter essere solo uno ma a dover esser molteplice. Insieme a Laio, Edipo uccide anche il "venerabile e terribile" Parmenide.
Così è come io mi immagino e visualizzo il "venerando e terribile" Parmenide.
Il disegno è tratto dall'illustrazione di una carta dei giochi della Rackham, e rappresenta un mago dei grifoni, adepto del fuoco e dell'aria, legato all'inquisizione.

 

sabato 31 dicembre 2011

l'arte di chiudere il becco alle donne

Ma dove sono le donne? Dove sono le filosofe? Dove sono le donne, con le loro idee piene di fascino. Di filosofe proprio non se ne vedono. Vi sono donne alla guida di nazioni, imperi, partiti. Conosciamo poetesse, scrittrici... ma le filosofe? Ce ne sono tantissime, ma sono tutte dipinte! Basta alzare lo sguardo sui muri della Sorbona, si vedono ovunque pomposissime allegorie femminili nel grande anfiteatro firmato dal pittore neoclassico Puvis de Chavannes. Ma da dove arrivano quelle muse che dovrebbero ispirare studenti e professori? Soprattutto dai bordelli parigini. La Verità forse si chiamava Ninì e, sotto le spoglie della Prudenza, professori e studenti potevano riconoscere la Grande Fernanda. Misoginia? I filosofi si sono limitati a rispecchiare la misoginia della loro epoca, l'hanno elaborata e le hanno dato una forma. Sul tema monotono della debolezza della donna, hanno ricamato e costruito un concetto della "natura" femminile come incapace di concettualizzare. Certo, la filosofia non è l'unica attività non femminilizzata: poche sono le donne direttrici d'orchestra o fantine; e che io sappia non ci sono donne lottatrici di sumo. Una volta una donna tentò di occupare il seggio di san Pietro, nondimeno il magistero papale resta un'attività prettamente virile. È certo che non si tratta di una dimenticanza, né di un banale ritardo. Le donne sono espressamente pregate di non autoinvitarsi nella cerchia esclusiva dei pensatori. La filosofia è l'arte di chiudere il becco alle donne.
Eppure provate a parlare di debolezza delle donne a qualcuno che vive nel mondo di Medea, delle Baccanti, delle Menadi, delle Amazzoni, delle cacciatrici di Artemide! Donna è il nome di un'energia sovrumana che può far tremare di paura. Classi femminili, classi pericolose! Ammetterete che sarebbe il caso di riunirsi tra uomini per prendere dei provvedimenti, decretare l'eccellenza di una vita moderata e instaurare la filosofia come amore della saggezza, del pensiero ordinato e del linguaggio articolato. A proposito delle baccanti, per conoscerle, vi do un consiglio: fate caso ai capelli. La baccante ha i capelli sciolti. Una donna in ordine e curata ha sempre i capelli raccolti. Quando li scioglie significa che la Forza è in lei, la forza del desiderio amoroso – è nell'alcova, e solo per l'amante che le donne un tempo si scioglievano i capelli – oppure è la forza di un dio pericoloso che non rispetta niente, né le trecce né lo chignon, un dio che spettina.  
Dal mio punto di vista, non c'è alcuna incompatibilità tra la Donna e la Filosofia. Se le donne non hanno avuto voce in capitolo, potrebbe essere per un problema di organi, di corde vocali? Parlare in pubblico, equivale a mettersi a nudo. Per l'uomo non rappresenta sempre un inconveniente: l'arte oratoria è per lui un modo di competere in virilità. Gli uomini sono come i Tre Moschettieri, hanno bisogno che le armi tintinnino, e la filosofia è una forma prettamente maschile di rumoroso sfoggio delle armi. Tuttavia Aspasia e le geishe ateniesi hanno diffuso nel IV secolo prima di Cristo una forma raffinata di espressione, orale e scritta, arte del conversare e dello scrivere. Lei e le sue amiche hanno partecipato alla storia della filosofia ma non appaiono nella foto. È una questione d'inquadratura. Da Platone in poi la lezione è la seguente: le donne possono partecipare alla storia della filosofia ma devono restare fuori dall'inquadratura.
C'è in ogni caso una condizione per fare parte del club dei filosofi: va bene scrivere, ma bisogna pubblicare! Per lungo tempo la letteratura femminile si è limitata alla posta e ai diari, vale a dire a una scrittura personale a breve termine. Se ci fosse un principio di scrittura femminile si enuncerebbe così: si scrive sempre per qualcuno. Al contrario, nel cuore della filosofia agisce un principio maschile secondo cui si scrive per tutti, per il mondo intero, senza destinatario particolare. I filosofi si convincono che sono messaggeri dell'Universale. Nei salotti parigini del XVII e XVIII secolo, universo che Benedetta Craveri descrive ne La civiltà della conversazione, le donne danno origine ad uno stile capace di far brillare il vero e di dare fondamento al brillante, ad una alleanza tra la Verità e la Consolazione, la Scienza e il Piacere. È proprio tale alleanza a interessare Hume ed egli la traduce così: «unire le forze del sapere e il mondo della conversazione», vale a dire il mondo degli uomini e il mondo delle donne, i dotti e le dame. Egli pensa che accanto ai trattati, ai corsi e ai discorsi, bisogna sviluppare il genere meno pesante del saggio, opera breve scritta intorno ad un solo argomento senza tecnicismi. È un'alternativa al librone oscuro di filosofia e al romanzetto: il saggio è una conversazione da salotto, la felice unione dello scritto e dell'orale, salva la parola femminile dall'inferno delle chiacchiere, della parlantina, del cicaleccio, delle ciance, dei pettegolezzi. Ma con il Terrore rivoluzionario il mondo della conversazione, quel nuovo modo di pensare e di scrivere, cade nel cestino della crusca insieme alle teste di quelle sfrontate, e il salotto, l'arte di fare circolare il nulla con eleganza, l'arte di perdere mollemente tempo, non è cosa seria.
All'inizio del XIX secolo Hegel era l'organo centrale della Verità. Per interpretare tale formidabile ruolo, non bastava una voce da femminuccia: occorreva una voce sicura, magistrale, categorica, che dicesse "È così e basta", una voce virile che affermava con forza delle verità così come si batte un'incudine. Ma le cose non stavano così. Pare che Hegel fosse munito di un organo difettoso: si schiariva la voce e tossicchiava continuamente. Tra balbettii e farfugli, però, il filosofo produce cose serie: la serietà, la filosofia, il Concetto, il Sapere, se paragonati a questi, gli altri discorsi umani sono frivoli e caduchi. O è semplicemente ridicolo? In occasione di un passaggio a Berlino, un giovane filosofo, un certo Schopenhauer, non era riuscito a prendere sul serio il predecessore di Hegel e idolo delle folle studentesche, Fichte: «Durante questo corso, dice delle cose che mi fanno venir voglia di mettergli una pistola alla gola dicendogli: "Devi morire subito senza pietà; ma per amore della tua minuscola anima, dimmi se questo tuo linguaggio ostrogoto nascondeva un pensiero sensato o se ti sei solo preso gioco di noi?"».
Il Filosofo è una macchina pensante che ha una risposta a tutto, anche al dolore di una donna sconosciuta che è stata lasciata, perché il suo fine non è il bene ma il Vero e per lui la filosofia non è né un balsamo né una pozione. Per quanto riguarda Schopenhauer – un tipo violento, come abbiamo potuto constatare – la sua collera contro le preparatrici di decotti filosofici sembrava senza limiti. Ci aveva avvertiti: «La mia filosofia è sprovvista di comodità, e ciò in quanto dico la verità». Avvertimento per gli infermieri dell'anima! La versione virile della filosofia non lascerà loro nessuno spazio. I due campi si affrontano: da una parte gli uomini, che collocano la Verità al di sopra di tutto e iniziano ogni discorso dicendo: "Ho ragione e posso provarlo". E dall'altra le donne, fedeli alle loro nonne – di cui conservano, in un angolo della memoria e dell'armadio, la ricetta di un decotto per curare i colpi di sole, di un bouquet di piante per guarire le emicranie o un ciondolo porta fortuna –, che situano al di sopra di tutto la cura, l'attenzione a sé e che pensano sia giusto voler guarire. 
Un aneddoto racconta che alcuni visitatori arrivati sulla soglia della casa del grande Eraclito, non osano entrare perché il filosofo si scaldava vicino al fuoco. Il saggio di Efeso li incoraggia a farsi avanti dicendo loro: "Gli dei sono anche qui, nella cucina". La filosofia non è soltanto una questione di idee, di concetti o parole ma anche di cose che si colgono e si preparano. Ora, nel suo Simposio Platone non si abbassa mai a parlarci di cucina, partendo da un avvenimento ricco, equivoco, meticcio, Platone costruisce un testo purificato, univoco, maschile: prendete una decina di convitati, lasciate evaporare le contingenze materiali, nascondete fornelli e anfore, cancellate gli spuntini, conservate solo le parole e servite freddo. In realtà non c'è nessuna fine conversazione senza fine nutrimento! Per pensare una filosofia "paritaria" – se ci piace il termine – bisogna pensare una filosofia ben temperata, umida, rabelaisiana, tessile: la filosofia si tesse con molteplici fili e legami, non tagliandosi fuori dalle cose, non toglie la parola a nessuno, non è l'arte di interrompere, una pratica senza soluzione di continuità con la ghigliottina, o di far tintinnare le armi.

(da Frédeéric Pagès, La filosofia o l'arte di chiudere il becco alle donne)

mercoledì 2 novembre 2011

corpo a corpo con la morte

Nel suo saggio Filosofando con Harry Potter, Laura Anna Macor definisce la saga della Rowling come «un vero e proprio esercizio spirituale, una sorta di ginnastica interiore, che niente ha da invidiare al Fedone platonico o ai virtuosismi teoretici di Essere e tempo» di Heidegger, collocabile negli scaffali delle librerie in compagnia non solo di libri fantasy o per ragazzi. La vera co-protagonista di tutta la vicenda sarebbe, infatti, la Morte e lo scontro – uno scontro interiore, più che esteriore e carnale – con essa dei diversi personaggi: la brama umana di distruggere i limiti della mortalità e i molti tentativi messi in atto dai maghi per vincere la morte (l'Elisir di Lunga Vita estratto dalla Pietra Filosofale, il sangue di unicorno, gli Inferi, gli Horcrux, i Doni della Morte) si contrappongono all'accettazione della dimensione umana nel pieno delle sue implicazioni, vale a dire anche nel pieno delle sue limitazioni («Come scrive l'eminente filosofo mago Bertrand de Pensées-Profondes nel suo famoso trattato Uno studio delle possibilità di invertire gli effetti contingenti e metafisici della morte naturale, con particolare riguardo alla reintegrazione di essenza e materia: "Lasciate perdere. Non succederà mai.», da Le fiabe di Beda il Bardo). La vera differenza tra Voldemort e Harry Potter consiste nell'atteggiamento nei confronti della morte che li contraddistingue: da un lato la Morte viene temuta e, proprio per questo, sfidata, dall'altro viene temuta ma rispettata, riconosciuta come irreversibile. Il rispetto di questa linea di confine, di questo limite, definisce l'uomo in quanto tale.
La priorità di dignità e giustizia rispetto al semplice mantenimento dell'esistenza a tutti i costi, il subordinare la sopravvivenza ad altri e più alti valori – cioè, accettare la morte – sono caratteristiche di Harry Potter sin dal suo primo anno a Hogwarts: «Se uno finisce dannato per sempre, meglio morire, no?», sostiene Harry quando il centauro Fiorenzo lo rende edotto degli effetti del bere il sangue di unicorno (Harry Potter e la Pietra Filosofale). E la semplicità e l'immediatezza di questo parere si rivelano autentiche dopo essere state nuovamente acquisite attraverso le molte sofferenze e innumerevoli traversie della sua travagliata adolescenza: «Vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della Morte). «Peggio che morire sembra essere tutto ciò che priva l'essere umano del suo proprium, vale a dire della sua dignità e della sua affettività», spiega l'autrice, richiamando la spiegazione del professor Lupin sugli effetti del malvagio potere dei Dissennatori, che non portano via la vita ma l'anima, non rubano l'esistenza ma l'umanità: «È molto peggio. Puoi esistere anche senza l'anima, sai, purché il cuore e il cervello funzionino ancora. Ma non avrai più nessuna idea di te stesso, nessun ricordo... nulla. Non è possibile guarire. Esisti e basta. Come un guscio vuoto. E la tua anima se n'è andata per sempre... è perduta» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).
È proprio l'accettazione della morte, riconosciuta come condizione definitoria del proprio essere, ad orientare l'agire umano facendolo rispondere a un ordine di ragioni superiore al mero impulso alla sopravvivenza, alla richiesta biologica di salvaguardia personale – il rispetto della morale e dell'umanità, l'impegno per la concretizzazione della giustizia –, e a rendere possibile quella magia antica e potente che è l'amore: «la magia dell'amore consiste nella protezione fornita alle persone amate, nel momento in cui si sia pronti a morire per loro», in un effetto scudo prodotto dal sacrificio della vita compiuto per amore, ed inoltre è «l'unica via autentica che permette all'uomo di rimanere tale, cioè di accettare la propria mortalità, senza per questo dover però rinunciare a ogni speranza in una qualche forma di sopravvivenza», spiega la Macor.
Tutto questo Voldemort non lo ha mai compreso: «"Niente è peggio della morte, Silente!" ringhiò Voldemort. "Ti sbagli" replicò Silente. "In verità, l'incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l'ordine della fenice). Ed è per questo che alla fine Harry Potter risulta essere il vero padrone della Morte, il legittimo proprietario e degno possessore dei suoi doni, il che non significa invulnerabile o immortale, poiché è diverso il modo di intendere la vittoria sulla morte di Harry rispetto a quello propagandato da Voldemort: una via radicalmente altra rispetto alla negazione dell'umanità e all'annullamento dei confini naturali – rappresentati anche dall'abbrutimento fisico, dal processo di imbestialimento e deformazione cui Voldemort va incontro divenendo «una spaventosa mistura di teschio e rettile, a significare che il progetto di liberazione dai vincoli dell'umano è sicuramente riuscito, anche se non nella direzione programmata» – è quella rappresentata dal sopravvivere alla morte nel ricordo e nell'affetto dei propri cari. Uno dei simboli di questa accettazione della morte è proprio la fenice: «ben lungi», afferma  l'autrice, «dal rappresentare, come di primo acchito si potrebbe credere, la vittoria sulla morte, apparentemente annullata nelle periodiche rinascite, la fenice è invece l'emblema più compiuto dell'interiorizzazione del limite: essa rinasce perché muore, non accetta di morire perché sa che rinascerà, ma rinasce perché ha accettato di morire. Harry ripropone lo stesso percorso della fenice: non va incontro alla morte perché immagina che potrà tornare indietro, ma, al contrario, può tornare indietro perché ha deciso di andare incontro alla morte». In questo Harry Potter è superiore persino ad Albus Silente, che confessa: «Ma chi di noi avrebbe mostrato la saggezza del terzo fratello, se avessimo avuto la possibilità di scegliere fra i tre Doni della Morte? Maghi e Babbani sono altrettanto assetati di potere: chi avrebbe resistito alla Bacchetta del Destino? Quale essere umano, che avesse perduto una persona cara, non avrebbe scelto la Pietra della Resurrezione? Persino io, Albus Silente, troverei più facile rifiutare il Mantello dell'Invisibilità. Il che dimostra che, per quanto intelligente, sono comunque un idiota come tutti» (Le fiabe di Beda il Bardo). Anche Harry è esposto al rischio di cedere alla seduzione della necromanzia a causa del suo dolorosissimo vissuto, è anch'egli vulnerabile all'idea e al desiderio di imporsi sulla morte e renderla reversibile, ma egli, conclude la Macor, «vince questa sua tentazione e arriva ad accettare la morte, sua e dei propri cari, comprendendo che ci sono cose ben peggiori per i vivi che morire».
Nello scontro finale – non solo una lotta ma la dimostrazione della superiorità di una scelta, quella di andare incontro alla morte rinunciando alla possibilità di sopravvivere – le figure che accompagnano Harry Potter sono parte di lui, invisibili a chiunque altro, ed è quello il modo in cui i nostri cari sopravvivono alla morte. Come aveva già spiegato Silente ad Harry dopo lo scontro con i Dissennatori da cui è salvato dal Patronus di un cervo come quello del padre: «Credi che le persone scomparse che abbiamo amato ci lascino mai del tutto? Non credi che le ricordiamo più chiaramente che mai nei momenti di grande difficoltà? Tuo padre è vivo in te, Harry, e si mostra soprattutto quando hai bisogno di lui. Altrimenti come avresti fatto a evocare proprio quel Patronus? Ramoso è tornato a correre la notte scorsa. Quindi ieri notte hai visto tuo padre, Harry... l'hai incontrato dentro di te» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).

Nel complesso un saggio più analitico che filosofico, ambito in cui sostanzialmente nulla aggiunge dopo il bel testo di Simone Regazzoni Harry Potter e la filosofia.

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