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domenica 20 febbraio 2022

filosofia della nostalgia

Con Yesterday. Filosofia della nostalgia quel sentimento dominante in tempo di crisi quando il presente è opaco e il futuro incerto, viene indagato e raccontato da Lucrezia Ercoli in maniera puntuale e interessante, delicata e potente.
La nostalgia sembra essere un tratto proprio del XXI secolo, in cui il vento della Storia non è più quello della tempesta del progresso che, all'inizio del secolo scorso, spingeva più l'Angelus Novus di Klee e Benjamin verso il futuro, ma quello della retrotopia (Zygmunt Bauman) che, in un'epoca di incertezze e di un futuro sempre più imprevedibile, riconduce verso il passato e un paradiso perduto. E, come mostra la Ercoli, essa rappresenta un sentimento ambiguo, che può declinarsi tanto in una malattia paralizzante quanto in un indicatore per pensare l'avvenire, che può essere tanto affascinante quanto pericoloso.

Nostalgia (da nostos, ritorno in patria, e algos, dolore o tristezza) è un termine coniato nel 1688 - in cui confluiscono espressioni presenti in diverse lingue, dal tedesco Heimweh al francese mal du pays, dall'inglese homesickness al portoghese saudade - per indicare una malattia, una condizione clinica, causata da un eccessivo attaccamento alla patria lontana. Una patologia che accompagna l'accelerazione del tempo moderno, con i suoi cambiamenti radicali e veloci portati dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione del finire del XVII secolo. Certo già l'Odissea omerica ha delineato i contorni della nostalgia come malattia dell'esule che rimpiange la terra natia, ma è la modernità che la universalizza, la fa sfuggire ai confini della patria, per renderla nostalgia di paesi e di felicità sconosciuti (Charles Baudelaire), desiderio di una felicità che è sempre dove non si è noi. O, forse paradossalmente, l'odierno uomo di città ha eliminato da lungo tempo la nostalgia? (Martin Heidegger). E questo sarebbe il vero pericolo: l'esperienza della perdita della casa sembrerebbe incompatibile con l'omologazione moderna per cui è facile sentirsi a casa ovunque, in cui tutto è vicino e raggiungibile, immediato.  Una connectography (Parag Khanna) in cui i confini non sono più definiti tramite mappe geografiche perché trasporti, comunicazioni, reti mediali hanno trasformato i concetti di spazio e di viaggio.

Il film di Woody Allen Midnight in Paris rappresenta un vero e proprio saggio visivo sulla nostalgia dell'età dell'oro, mostrando come quello che per una generazione è prosaico e volgare, per la generazione successiva si trasforma in qualcos'altro, in qualcosa di magico e vintage. Ma mostra anche che l'età dell'oro non è la stessa per ogni epoca, che la costante è piuttosto la considerazione del presente come noioso e insoddisfacente. Questa sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, l'idea di una parabola discendente è narrata nel poema Le opere e i giorni da Esiodo ed è un mito che si rafforza nella cultura romana per esempio con l'Ovidio delle Metamorfosi, e non è una proprietà esclusiva della tradizione occidentale: si tratta di un archetipo universale che si rafforza nei periodi di crisi, necessario per elaborare la disperazione provocata dalla estrema miseria, dalla mancanza di libertà e dal crollo dei valori tradizionali (Mircea Eliade), di una nostalgia delle origini che è caratteristica permanente della memoria collettiva. I
l passato è costantemente frutto di una creazione che rinnova un mito immaginario tra realtà e sogno, che popola il nostro presente di spettri che non se ne sono mai andati, di fantasmi che continuano a condizionarci: il passato non è morto, non è nemmeno passato (William Faulkner).
Una serie televisiva come Happy Days costruisce gli anni Cinquanta come quel tempo felice della storia americana contemporanea prima della catastrofe della Guerra in Vietnam, e la formula seriale e ripetitiva è perfetta per creare la continuità e la stabilità di giorni felici. La cinquantezza (Fredric Jameson) propria di produzioni degli anni Settanta e Ottanta non racconta il passato nella sua totalità ma lo epura da ogni forma di conflitto e complessità storica, lo riesuma in forma innocua, lo crea nostalgicamente senza comprenderlo. Film come Pleasantville di Gary Ross o The Truman Show di Peter Weir decostruiscono questo paradiso dei fifties mostrandolo come un inferno repressivo e proibizionista o comunque mostrando come pura simulazione la sua perfezione.
La nostalgia, così, non corrisponde a un archivio di eventi ma a una visione irreale da sogno. Ed è con l'immagine in movimento - video, cinema, televisione - che dal secondo dopoguerra, ancora più che nei decenni precedenti, il passato acquisisce una natura immaginaria, completamente svincolata dalla storia.
Da questa dimensione anche nefasta e terribile della nostalgia mettono in guardia Milan Kundera - che nell'incipit del romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere mostra come essa speri nel ritorno del tempo perduto anche quando questo è segnato da atrocità irripetibili -, Vladimir Nabokov - che ne Il dono avverte dell'inestinguibile nostalgia per le cose a cui diciamo addio anche se non le abbiamo mai amate -, le ostalgie (crasi tra osten, cioè est, e nostalgia) nella Germania dopo la caduta del muro di Berlino dei popoli dell'ex blocco sovietico, per i quali liberazione e passaggio disorientante vanno insieme. Questo senso di continuità di una comunità, questo forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato, rischia di produrre un'inversione storica (Michail Bachtin) che riporti in vita anche i cadaveri di un passato che si era superato, di essere un potente veleno in cui orgoglio nazionale e tradizione religiosa formino un cocktail reazionario.
Una serie televisiva come Stranger Things dei fratelli Matt e Ross Duffer, invece, costruisce una ottantezza, una nostalgia degli anni Ottanta come epoca dell'immaginazione, in cui la tecnologia non è ancora esplosa a livello di massa, non è ancora una presenza pervasiva nelle vite di ognuno che condiziona lo spazio pubblico e privato, e c'è una promessa di liberazione ed emancipazione non ancora soppressa da un sistema di controllo digitale. Anni in cui cose strane possono ancora accadere.
Questa la dualità della nostalgia: da una parte una nostalgia restauratrice, una fissazione regressiva bloccata nella fascinazione del ritorno dell'ordine naturale e delle identificazioni forti, un revival reazionario legato a una propaganda faziosa, una retorica nazionalista, un'esaltazione della patria; dall'altra una nostalgia riflessiva, capace di riconoscere l'irrevocabilità del passato e di fare della memoria un'eredità per progredire, generando un'attesa carica di pathos e di storia.

A svelare il vero oggetto della nostalgia è la musica: non l'assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente. Ciò di cui si ha nostalgia è ieri - yesterday -, ieri in quanto ieri, il passato in quanto passato, il tempo in quanto tempo perduto. La canzone pop è così il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica e i tormentoni musicali sono intimni (Peter Szendy) - cioè allo stesso tempo inni collettivi e melodie intime - che ripetono sempre la stessa frase, al contempo dolorosa e catartica: Tu eri e non sei più. In questo senso, la nostalgia evoca una scissione costitutiva, una cicatrice incancellabile, e rappresenta un'esperienza ineliminabile della condizione umana.
Ancora una volta si fa necessario evidenziare il potenziale venefico della nostalgia, il cui soddisfacimento allucinatorio può spegnere la vita rinchiudendola in un mondo popolato di fantasmi, in un paradiso artificiale che impedisce di affrontare il trauma della perdita e di compiere il lavoro del lutto. E tanto più nell'epoca contemporanea l'opportunità di registrare e conservare un numero di ricordi personali senza precedenti nella storia, può tramutarsi nel pericolo di perdere lo slancio verso il futuro che rende propositiva la nostalgia (Davide Sisto).
I tempi della nostalgia contemporanea continuano a accorciarsi, che la nostalgia diventa nostalgia del presente perché la sua operazione avviene per tutto e continuamente. Se ancora nei primi anni Novanta si immaginavano, con fiducia nel futuro e slancio prometeico, alternative, dai primi anni Duemila la cultura sembra essere nel segno della retromania (Simon Reynolds), del revival, della ristampa, del remake, della ricostruzione: il futuro non c'è più, è sconfitto, è perduto.
Per non essere solo il passato che non passa e torna a tormentare sotto forma di fantasma seducente, per non essere il crepuscolare e senile cliché dell'ai miei tempi che guarda con diffidenza le novità e mal si adatta ai cambiamenti, la nostalgia deve diventare un imparare dagli spettri delle rivoluzioni mancate e delle utopie non realizzate, dai revenant di chi non c'è più ma ci parla ancora. Una hauntology (Jacques Derrida) che si fa carico delle presenze spettrali, e che sembra essere il sentimento dominante delle produzioni contemporanee capaci di evocare immagini e suoni provenienti da futuri perduti (Mark Fisher). Una nostalgia che non rinuncia allo spettro - come il crepitio tipico della musica hauntologica che riproduce il rumore della puntina sul vinile e che ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un tempo che è fuor di sesto (Fischer) -, che parla al fantasma e sente cosa ha da dire, ma che oltre allo struggimento per ciò che è stato si fa carico dell'ingiunzione che viene dal passato quale motore dell'avvenire. Una nostalgia come post production (Nicolas Bourriaud) e reboot che riedita il passato in una versione che fa rivedere qualcosa di già visto ma con uno sguardo diverso, che riprogramma il non ancora dei vari futuri che si era preparati a attendere e che non ci sono mai stati.

lunedì 6 gennaio 2014

letture di gennaio (I)

Finiti in rapida successione i tre brevi saggi iniziati a leggere negli ultimi giorni del 2013, allettato dal mal di schiena.
Interessanti i dialoghi con Habermas e Derrida di Giovanna Borradori sulla Filosofia del terrore, riflessioni sul traumatico evento dell'11 settembre, del 9/11, che - secondo Derrida - rimane terribile e ferita "infinita" perché non si sa che cosa sia, perché destabilizza lo stesso "sistema di interpretazione, l'assiomatica, la logica, la retorica, i concetti e le valutazioni che si crede permettano di comprendere e di spiegare" la realtà, visto che - dalla fine della Guerra fredda - l'apparato concettuale, semantico, ermeneutico che avrebbe dovuto neutralizzare il trauma e così attenuarlo attraverso l'elaborazione del lutto, dipende con tutto quello che possiamo chiamare l'ordine mondiale in larga parte dalla stessa solidità degli Stati Uniti. La ferita è "infinita" anche perché mantenuta aperta sull'avvenire, segno premonitore "di ciò che potrebbe ancora accadere e che sarà peggio di tutto ciò che è successo", male assoluto e minaccia assoluta che è un terrificante rimettere in gioco niente di meno che l'esistenza del mondo.

Lo straordinario artista Pablo Echaurren omaggia il gruppo musicale, o meglio la happy family, dei Ramones con il suo imperativo Chiamatemi Pablo Ramone, non una cronaca o storia dei Fast Four (da non confondere con i Fab Four) ma con un personalissimo e idiosincratico tributo pagato alla propria passione musicale (che cerca, però, anche di concettualizzarsi e richiamarsi, così, a motivazioni universali e necessarie e non solo soggettive) e, insieme, un elogio della mazza da baseball, come recita il sottotitolo, del fare arte contro l'accademia: "quando sento Tommy o Marky stantuffare e picchiare come magli sulla batteria e sui miei più intimi frattagli con quella cadenza poderosa-cavernosa che pare scaturire da tamburi in vera cotenna d'elefante, mi chiedo come sia stato possibile che l'intero universo non abbia ancora recepito e di conseguenza non abbia ancora tributato la propria eterna riconoscenza a loro, ai Ramones. Per l'opera prestata e quella pestata. Con una mazza da baseball".

Purtroppo un po' deludente la lettura di Mostri, draghi e vampiri, analisi proposta da Emma Palese sul passaggio dal mostro come simbolo del meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze. Attraverso un processo di polarizzazione, il mostro gradualmente perde il proprio significato più primitivo e universale - il drago, guardiano di un tesoro o di un luogo sacro, simbolo del transito dall'uomo vecchio a quello nuovo, di slancio vitale ed energia che divora e rigenera insieme - e da tutto si fa parte, il cui grande corpo è razionalisticamente ridotto al diverso, al piccolo perverso - adottando una visione funzionale e organicistica/organica/organizzata del corpo -, finendo nel vaso dell'embiologo. Infine, ora che gli strumenti della tecnica permettono di agire sulla propria fisicità, tutti possono diventare mostri, cyborg - "emblema della perfettibilità umana e del desiderio di superamento di se stessi, ma presenta anche un triste schiacciamento da parte del potere, che si sostanzia nell'intuizione foucaltiana secondo cui i corpi si governano attraverso i loro desideri", perché l'uomo, essere dai desideri illimitati, è perciò stesso altamente vulnerabile - e vampiri - dal mancato appagamento, vittime e consumatori di se stessi, della propria fame e brama che rinasce e si moltiplica tormentandoli.

domenica 24 novembre 2013

letture di novembre (II)

Ancora Euripide, con la tragedia Supplici: senso del dovere, legami verso ciò che è giusto, azioni eroiche al di là della legge e pene da far pagare ("La giustizia chiede giustizia e il sangue altro sangue"); ma anche riflessione politica sulla democrazia e la libertà, sul rapporto tra democrazia e libertà di parola ("Questa è la libertà: 'qualcuno vuole dare qualche consiglio utile alla città?'. Allora chi lo desidera si conquista la fama, e chi non vuole tace. Quale uguaglianza è migliore di questa per una città?").
Sempre in tema "mondo antico" e "cultura classica", i due saggi per una nuova lettura del poema del filosofo di Elea che costituiscono La porta di Parmenide di Antonio Capizzi. Grazie alle scoperte archeologiche degli scavi di Velia è possibile cogliere nel poema dottrinale parmenideo i contenuti realistici accanto a quelli poetici e mitologizzanti, riconoscere i luoghi del proemio in quelli dell'antica città della Magna Grecia, imparare a vedere nel filosofo dell'essere anche un prestante auriga di "famose cavalle" e un valente governante politico. Inoltre è possibile collocare storicamente la figura di Parmenide filosofo e politico nelle trame delle vicende storiche dell'epoca, tra aggressività ed espansionismo siracusano, necessità di unità e forza dei Velini, e la "terza via" ingannevole dei mendaci Fenici.

Delusioni dal saggio popfilosofico di Luca Bandirali ed Enrico Terrone sulla Filosofia delle serie TV. L'analisi dei due autori sulla nuova serialità televisiva - da CSI a Trono di Spade, come recita il sottotitolo del volume - è ovviamente condivisibile: gli spettatori somigliano più al pubblico dei lettori di romanzi e la serie tv stessa è epopea e drammaturgia del nostro tempo e che proprio con la temporalità intrattiene rapporti inediti rispetto ad altri prodotti televisivi o al cinema stesso, e non è solo questo che fa delle serie tv dei "degni" oggetti di indagine filosofica. Ma poi il volume sembra ridursi a una enciclopedica raccolta, ricca ma un po' superficiale, di queste stesse serie tv, un'antologia di riassunti e passi scelti con scarni commenti, analisi e critiche. 
Qualche spunto indubbiamente c'è: Jack Bauer, il protagonista di 24, definisce (o decostruisce?) una serie di dualismi fondamentali - pubblico e privato, legge e violenza, necessità e libertà - ed è l'eroe che si fa carico dell'inestricabilità di queste antinomie e della possibilità della loro risoluzione. Glee è una riflessione teorica sui principi essenziali del pop, sull'idea che la pop music sia qualcosa che si può anche suonare da soli, ma che trova il suo senso compiuto soltanto all'interno di un gruppo; che non serva soltanto a esprimere emozioni e sentimenti che già abbiamo in noi, ma anche a costruirne di nuovi; che le canzoni pop non sono cose appese al muro come i quadri in un museo, ma esistono perché le si possa re-interpretare a piacimento, senza nessun reato di lesa maestà. Heroes e Flashforward con i loro viaggi nel tempo dalla minima plausibilità metafisica - e nulla plausibilità scientifica - filosoficamente rappresentano una comunità che si interroga sulla propria natura storica e che esamina una varietà di scenari possibili per decidere verso quale di questi, nell'interesse collettivo, sia opportuno che la storia faccia rotta. 
Tante serie tv, infine, da Trono di Spade a Deadwood e Lost, mostrano come fissando e presidiando le proprie frontiere un'aggregazione si munisca di un'identità (i confini del territorio separino noi dagli altri) e di una proprietà (distinguono ciò che è nostro da ciò che appartiene agli altri), così che una frontiera non ha soltanto un valore spaziale e topologico ma anche etnografico ed economico; ma mostrano anche come questa frontiera non sia qualcosa di assolutamente definito, ma presenti zone di indeterminazione e di permeabilità che ne rendono possibile non solo l'evoluzione storica ma anche il ripensamento metafisico. Insomma, queste serie tv mettono in scena quell'atto definito dal filosofo francese Jacques Derrida di ex-appropriation, atto di fondazione che nel costituire una comunità (identità, proprietà, territorio) al tempo stesso ne intacca originariamente, fin da subito, la frontiera che la delimita, esponendo l'appropriazione già da sempre alla possibilità dell'espropriazione, facendo della frontiera fin dalla sua definizione originaria un limite instabile, che si presta ad essere varcato tanto dall'interno quanto dall'esterno.
Ecco, materiale sufficiente per un post, e poco più, però, questo è il limite del volume.

lunedì 6 febbraio 2012

filosofia nel juke-box

Nel saggio Tormentoni! Filosofia nel juke-box, Peter Szendy tenta di svelare l'arcano meccanismo con cui i tormentoni della musica pop producono attraverso il loro ascolto una inebriante, irrazionale e invincibile identificazione: «la più potente delle tentazioni provocata dal ritornello della canzone popolare» è quella di «avvolgersi, come in un vecchio cappotto, nella situazione che essa ci ricorda» (Benjamin). La canzone, quando prende la forma del motivetto da fischiettare e da canticchiare, è il genere per eccellenza che accompagna i nostri giri, le nostre azioni, le nostre passeggiate quotidiane.
Mentre l’unico e il cliché, l’incomparabile e l’interscambiabile, la psiche e il mercato, il singolare e il banale, sembrerebbero termini inconciliabili e incompatibili, i tormentoni musicali ci svelano inaspettatamente una paradossale e vertiginosa esperienza unica pur nella ripetizione e nella generalità dello stereotipo perché «ogni spettatore unico deve decidere da sé, deve fare da sé» (Kierkegaard). Il cliché, nella sua banalità interscambiabile, è tuttavia ogni volta unico per ognuno. Proprio quando, ascoltandoli, più nulla sembra possibile, i tormentoni vengono improvvisamente a snidare in noi ciò che di più segreto custodiamo: un momento passato, un istante che ci è caro, un’emozione o una pulsione inconfessabile, che appartengono solo a noi.
La melodia ossessiva, assillante (haunting) è come un fantasma che ritorna – con una singolare forza di apparizione e di reiterata irruzione (andirivieni spettrale) – a infestarci, come un tarlo o un virus nell’orecchio che non smette di riprodursi in noi, provocando una certa entusiasmante saturazione: cioè degli ingorghi e intasamenti nella circolazione interiore della nostra psiche, ma anche degli slanci di entusiasmo, dei voli lirici di un’incomparabile forza emotiva. Come dei fantasmi, come degli spettri, queste melodie vengono a tormentare: esse sono tormentoni, appunto, ossia grandi tormenti, ritornelli che abitano e assillano la vita di colore ai quali incessantemente ritornano.
I tormentoni hanno la forza di trascinamento e di raccoglimento propria degli inni: sono un inno intimo, una sorta di Marsigliese della psiche, incontenibile, compulsiva, impossibile da fermare; in ognuno di noi giocano il ruolo di un’Internazionale per delle intime commemorazioni (si confondono, così, le frontiere tra privato e pubblico). I tormentoni, insomma, diventano degli inni capaci di veicolare un’intimità inconfessabile e singolare, pur essendo al tempo stesso delle merci musicali perfettamente comuni, assolutamente equivalenti e indifferenti.
I tormentoni si fanno carico di ciò che si è cristallizzato in quanto vita o tratto di vita: ciò che ha preso forma diventando uno, unico, come una proprietà incomparabile. Un istante, un’estate, un anno divenuti incomparabilmente nostri. Quello che un gran numero di tormentoni canta e ci fa cantare è proprio la fama o la gloria di un momento spesso inconfessabile, in ogni caso singolare. A tutti noi il tormentone canta che… ah, no! non toccherà a me, io non sparirò certo così. Oh no, not I, I will survive. Il tormentone si costituisce come struttura di autoconservazione, esso si fa carico dell’affetto di ogni istante unico per ripeterlo all’infinito, capitalizza il tempo vissuto, qualsiasi esso sia, e quando ritorna quel momento singolare che il tormentone commemora, nella sua indifferente fedeltà a tutto e a niente, questo momento ritorna accresciuto degli interessi nostalgici di un io c’ero, ero lì, ecco ciò che ho vissuto come nessuno mai, ciò che è stato e che non sarà più. Nostalgia, malinconia di tutti i tormentoni.

sabato 28 gennaio 2012

tutta boston guida la stessa fottuta macchina?

Nel saggio Materia e memoria il filosofo francese Henri Bergson propone una distinzione tra memoria, ricordo e percezione.
La memoria è la coscienza stessa, il nostro spirito che registra tutto ciò che ci accade, identificandosi così con il nostro passato che «ci segue, tutt'intero, in ogni momento».
Il ricordo, invece, è la temporanea materializzazione in un'immagine di un evento del passato, di una piccola parte della memoria complessiva (la maggior parte del passato viene mantenuta nell'inconscio).
La percezione, infine, agisce come un filtro di selezione dei dati del piano della realtà tra il corpo e la memoria.
Ma questo filtro che è la percezione, non funziona certo in maniera meccanica e automatica, bensì è mosso nel suo operare selettivo dalla memoria stessa, che ci fa percepire la realtà non in maniera oggettiva, impersonale, omogenea, universalmente identica e condivisa, ma in modo soggettivo, dipendente dalla vita, dalle esperienze e dalle esigenze del nostro singolarissimo spirito, dai moti e moventi della nostra coscienza.
Così, ad esempio, non solo può accadere che Daniele Silvestri si tormenti e rischi l'infarto alla vista di un'Y10 bordeaux – macchina evidentemente guidata dalla sua ex –, reazione evidentemente imputabile al suo personalissimo vissuto, ma addirittura che Amanda Palmer, cantante del duo Dresden Dolls, guidando in giro per la sua città non faccia altro che vedere jeep Cherokee del '96 – macchina evidentemente guidata dal suo ex –, percezione di certo non imputabile al fatto che tutta Boston guidi la stessa fottuta macchina nera, né superabile lasciando per un po' la città e aspettando che quell'auto vada fuori moda. Il numero insano, folle, di jeep dello stesso modello e colore visto da Amanda, lo dimostrano tutti i minori attacchi di cuore sofferti in ogni strada principale di Boston, dipende da un filtro selettivo e totalmente idiosincratico della sua memoria e non da una oggettiva e distaccata percezione sensoriale.



L'immagine è un particolare da Materia e memoria, di Ginevra Ballati, trovata sul suo blog Emporium.

lunedì 9 gennaio 2012

#1da woman

Disegnata da Frank Miller ne Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora.

Cantata da Tricky in una canzone in collaborazione con John Frusciante e Flea dei Red Hot Chili Peppers.

So tuck you hair behind you ears,
Your tears and your silly fears
I'll be your teddy bear
you choose the clothes I wear
For you I'll suffer much pain,
sharp glass my brain,
For you I lose, lose my focus
For you I swim, swim in locusts 

venerdì 30 dicembre 2011

mosè

Savonarola può essere visto come esempio del confluire di due tradizioni che non rifuggono dall’ira: quella dell’aristotelismo tomistico spesso adottato dall’ordine domenicano e quello della tradizione dell’ira di Dio, che riferisce alla fabbricazione del vitello d’oro, allo scatto d’ira di Mosè che spezza le tavole della legge, all’uccisione delle tremila persone colpevoli di una regressione a divinità dagli uomini. Il modello di Mosè quale emancipatore del suo popolo sta alla base della nostra immagine di rivoluzione. Tutte le rivoluzioni moderne considerano le fasi di transizione, l’attraversamento del deserto, come il momento in cui occorre la durezza affinché non si perda la fede nella Terra Promessa e nella sua invisibile necessità, dettata dalla nuova divinità che è la Storia.
Anche per Machiavelli è necessario far uccidere coloro che sono impossibilitati a comprendere il nuovo. «Tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbero potuto fare osservare loro lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati». Diversamente da Savonarola, Papa Giulio II Della Rovere non era un profeta disarmato. Questo combattivo Papa «procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con furia». Non per nulla, sulla sua tomba in San Pietro in Vincoli Michelangelo ha potentemente messo al centro il suo Mosè, nel momento in cui sta per cedere all’ira e spezzare le tavole della Legge.
Nel Mosè e Aronne di Schönberg si presenta la complementarietà antagonistica tra i due fratelli: da un lato vi è Mosè, il rappresentante della legge, della parola essenziale, del pensiero senza immagini, della trascendenza; dall’altro lato vi è Aronne, che dona al popolo immagini visibili, fatte dall’uomo, in grado di compiere miracoli, attorno alle quali sono lecite l’anarchia e le orge. Si tratta di una polarità ineliminabile.
Noto è l’episodio di un dibattito tra un rappresentante del Partito Comunista Tedesco e uno del Partito Nazional-Socialista Tedesco. Il comunista infarcì il suo discorso di cifre, di citazioni dal Capitale di Marx, discettò sulla caduta del saggio medio di profitto; il nazionalsocialista al contrario fece ricorso al mito, alle immagini, all’emotività, assimilò comunismo e capitalismo in quanto fattori di disumanizzazione e di prevalenza delle macchine, toccò le corde profonde dei presenti e alla fine uscì trionfalmente vincitore da questo duello oratorio convincendo delle sue idee anche chi era contrario.

(Remo Bodei, Il Mosè di Schönberg e quello di Machiavelli, in AA.VV., Figure del conflitto)

mercoledì 21 dicembre 2011

un povero puzzoncello a cui non credere mai

Che odore scadente aveva questo Dio! Com'era ridicolmente malcombinato il profumo che questo Dio emanava da sé. Non era nemmeno vero profumo d'incenso, quello che esalava dai turiboli. Era un cattivo surrogato, adulterato con legno di tiglio e polvere di cannella e salnitro. Dio puzzava. Dio era un povero puzzoncello.

(Patrick Süskind, Il profumo)


e al dio degli inglesi non credere mai...
e al loro dio perdente non credere mai ...
e al loro dio goloso non credere mai...
e al dio della scala non credere mai...
e a un dio a lieto fine non credere mai. ..
e a un dio fatti il culo non credere mai...
e a un dio senza fiato non credere mai. ..

(Fabrizio De Andrè, Coda di lupo)

martedì 20 dicembre 2011

tutti quanti vogliono essere un gatto



domenica 27 novembre 2011

l'indagatore dell'incubo

More about Dylan Dog«Se, come noi, avete passato l'adolescenza a intossicarvi regolarmente con le avventure dell'Indagatore dell'Incubo» – Dylan Dog – e se, diversamente dal suo assistente Groucho, non ritenete proprio che la filosofia sia quella «scienza con la quale o senza la quale tutto resta tale e quale», allora il saggio di Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrorre filosofia, è sicuramente una buona e interessante lettura, capace di far emergere la sensibilità poetica e filosofica, di stampo esistenzialista, con cui la serie Bonelli tratta della condizione umana e delle sue situazioni più "estreme" – l'angoscia, l'amore, la morte, la ricerca della verità, l'assurdità della vita – «fino a guardare nietzscheanamente nell'abisso, con la speranza che quest'ultimo, in un momento di distrazione, non si accorga di noi». 
Tanti sono gli ingredienti che fanno di Dylan Dog un fumetto tanto apprezzato da pubblico e critica. L'autore, nel primo capitolo del suo saggio, tenta un'analisi proprio della materia di cui sono fatti gli incubi della serie.
Innanzitutto ciò che Umberto Eco definisce la "sgangherabilità", ossia l'essere composto da una serie di elementi, di punti fissi, che «possono essere isolati e riproposti all'infinito, ricombinati in modo diverso e con l'aggiunta di sempre nuove variabili». Come Nero Wolfe ha le sue orchidee e Colombo il suo impermeabile sgualcito, il suo cane, sua moglie, come serie televisive come Star Trek hanno i loro "pezzi" ricomponibili a piacere, così è anche per la serialità fumettistica dell'Indagatore dell'Incubo.
Poi c'è il citazionismo, ovvero il disseminare di omaggi a film, opere letterarie, musica, i racconti dei vari albi: l'immaginario collettivo, gli elementi "mitologici" sedimentati nella cultura popolare, sono non solo citati ma adoperati, prelevati, trasfigurati, cioè rielaborati e reinterpretati.
Altri elementi sono l'oltrepassamento del "quarto muro" e l'auto-referenzialità. Come nelle opere teatrali di Bertold Brecht, in cui gli attori si rivolgono direttamente al pubblico producendo un effetto straniante e stridente, di alienazione, come nei comics di She-Hulk o Deadpool, coscienti di essere personaggi dei fumetti e quindi capaci di interagire direttamente con i lettori e di sfondare gli spazi bianchi tra le vignette, in Dylan Dog questo elemento metafinzionale è rappresentato soprattutto da Groucho, le cui battutte sono rivolte ai lettori. Nel numero 25 della serie, Morgana, accade invece che Dylan Dog si ritrova a leggere il proprio fumetto, il cui disegnatore ha, tra l'altro, le medesime fattezze di Angelo Stano (illustratore della serie).
Rilevante anche il fatto che la serie affronti tematiche sociali, assumendo posizioni anti-borghesi: dopo «un ciclo di storie più spiccatamente horror, con mostri, depressione esistenzialista, sangue e crudeltà» e un altro «di tipo onirico, che mescola surrealismo e universi paralleli, il tutto allo scopo di fuggire dalla banalità quotidiana», arriva per la serie «un processo di normalizzazione o di autocensura» cui corrisponde «lo slittamento verso il sociale e l'edulcorazione dell'horror». È però da sottolineare «la possibilità che Dylan, grazie a buonismo, animalismo, coscienza sociale e quant'altro, si sia guadagnato un posto nella inquietante "Grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa" teorizzata da Jovanotti». In questo processo, come sostiene anche Claudio Paglieri, il problema di Dylan Dog è quello di «non essere più "contro". La sua rabbia si è annacquata: non fa venire mal di fegato ai bourgeois con le sue accuse, non fa più nascere voglie di censura ai politici né scandalizza i genitori con i nudi e lo splatter. È stato assorbito, è entrato a far parte della maggioranza» (Mi chiamo Dog. Dylan Dog).
L'ultimo e definitivo ingrediente è la capacità di lasciar filtrare nella coscienza dei lettori «la consapevolezza del morire e gli interrogativi ad essa legati», l'offrire «la possibilità di parlare di qualcosa che la contemporaneità ha fatto di tutto per rimuovere, di parlare dell'esistenza umana in tutti i suoi aspetti strutturali, di gettare una nuova luce, insolita e inquietante, sulla vita quotidiana, di vedere da un'angolatura spaesante lo scorrere e il ripetersi dei nostri giorni».
Quest'ultimo elemento è, probabilmente, il più propriamente filosofico. La condizione umana così com'è descritta in Dylan Dog sembra effettivamente rispecchiare l'inappellabile definizione che ne dà il filosofo Albert Caraco, citato nell'introduzione da Manzocco: «nudi fuori e vuoti dentro, con l'abisso sotto i piedi, il caos sopra la testa» (Breviario del caos). E gli strumenti filosofici con cui l'autore conduce la sua analisi sono fondamentalmente quelli presi a prestito dall'esistenzialismo di Karl Jaspers e del cosiddetto primo Heidegger. Dal primo il concetto di "situazione limite", che comprende strutture fondamentali della nostra esistenza quali la nascita, la morte, il dolore, l'amore: «nei confronti del nostro esserci hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo» (Filosofia). Dal secondo, invece, quello di "tonalità emotiva", condizione emotiva generale e profonda – di disperazione, noia o stupore – che ci spinge a interrogarci sul senso ultimo di tutte le cose: «"perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla?" È la prima di tutte le domande. Capita a ciascuno di noi di essere sfiorato dalla forza nascosta di questa domanda. In certi momenti di profonda disperazione, quando ogni consistenza delle cose sembra venir meno e ogni significato oscurarsi, la domanda risorge» (Introduzione alla metafisica).

lunedì 21 novembre 2011

strane idee di divertimento

More about La mano sinistra di DioSu suggerimento di Damiani mi sono deciso a comprare e leggere il primo thriller con protagonista Dexter Morgan (sì, quello della serie televisiva), La mano sinistra di Dio di Jeff Lindsay.
E ho fatto bene a lasciarmi convincere, ringrazio molto per questa scoperta: a me il genere giallo o thriller non è che piaccia molto da leggere di solito (da vedere, invece, sì), ma questo romanzo è decisamente al di là del semplice genere cui teoricamente appartiene, è divertente, è glamour, è "tagliente" in tutti i sensi. Che leggerezza e che tensione insieme. Come se essere un serial killer fosse una passione, un hobby come gli altri, e in effetti.
«Era un ulteriore esempio dello sfacelo della società che tanto preoccupava Harry. Sul serio: se non mi fate arrivare il giornale in orario, come potete pretendere che non vada in giro ad ammazzare la gente?». Chi non ha pensato cose del genere, ad esempio, mentre era alla guida della sua macchina? Chi non ha mai avuto certe idee di divertimento?

venerdì 11 novembre 2011

l'apprendista stregone

«La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate», scriveva Marx nel Manifesto del Partito Comunista, utilizzando, per spiegare come l'avvento del socialismo sarebbe stata una necessità storica prodotta dallo stesso sviluppo dialettico del capitalismo – che aveva generato gli stessi uomini e armi che lo avrebbero abbattuto – una metafora tratta dalla ballata di Goethe L'apprendista stregone.
Composta nel 1797 e ispirata a un episodio de L'amante del falso di Luciano di Samosata, la ballata di Goethe racconta di un giovane apprendista che, ricevuto dal maestro l'ordine di pulire le stanze durante la sua assenza, si serve di un incantesimo  per dare vita a una scopa che compia il lavoro al posto suo. La scopa agisce come le è stato ordinato, ma finisce per allagare le stanze, senza che l'apprendista sappia come fermarla se non provando a spezzarla in due con l'accetta, ma ottenendo il solo risultato di raddoppiarla. Solo il ritorno del maestro stregone rimedierà al disastro.
Dall'opera letteraria, il compositore francese Paul Dukas ricavò l'impianto di un poema sinfonico, e alla storia si è ispirato anche un episodio del film d'animazione Disney Fantasia  con protagonista Topolino , a sua volta parodiato da Grattachecca e Fichetto in un episodio de I Simpson.

domenica 23 ottobre 2011

un weekend postmoderno (3)

patti smith, horses
La terza tappa di lettura del testo di Tondelli comprende le pagine più narrative di Un weekend postmoderno, in perfetto stile tondelliano, e gli Affari militari, che mi hanno fatto una certa impressione per come siano quasi riusciti a farmi rimpiangere di non aver vissuto certe esperienze.
Ma è la sessione sulla Fauna d'arte che si sta d
imostrando, per quanto mi riguarda, la più interessante: una perfetta descrizione e narrazione della postmodernità, una perfetta riflessione storica e filosofica su questo periodo, portata avanti attraverso il racconto del costume (anche nel senso di abbigliamento) e della cultura popolare.
Così ritroviamo insieme la cravatta indossata da Patti Smith nella foro per la copertina dell'album Horses, la nascita di una musica da guardare e toccare e vestire oltre che da ascoltare, il nuovo fumetto italiano
di Andrea Pazienza il James Joyce del fumetto che raccoglie sulle sue tavole «narcisismo e autobiografia, giochi di parole e slang giovanile, tecnica rivoluzionaria nel disegno e nella composizione della tavola, talento inverosimile nella coniugazione di stili opposti, ma sempre riconducibili a un tratto personalissimo, politica e Movimento, droga e sballi, donne e amici e branchi e gruppuscoli, deliri e paranoie» e del selvaggio RanXerox  «l'automa e macchina compiuterizzata, in grado di trasferirsi, senza brusche rotture, nei travestimenti dell'uomo primitivo o di quello spaziale e galattico».
Quello che viene narrato è un nuovo ellenismo in cui tutto è mischiato, confuso, fluttuante, stratificato, sovrapposto, coesistente, simultaneo, centrifugato, contaminato; che dà il senso
«di trovarsi nei chip di memoria di un computer di fronte all'avventura umana ricapitolata in vista della fine del millennio»; in cui la ricetta appare la seguente: «mischiare & citare & confondere»; la cui protagonista è «una generazione che, nell'impossibilità di offrire a se stessa una ben precisa identità culturale, ha preferito non darsene alcuna, o meglio, mischiare i generi, le fonti culturali, i padri putativi, fino ad arrivare alla compresenza degli opposti. Una generazione in cui i linguaggi si confondono e si sovrappongono, le citazioni si sprecano, gli atteggiamenti e le mode si miscelano in un cocktail gradevole e levigato che forse è il succo di questa tanto chiacchierata postmodernità».
Chi ha mai spiegato meglio la condizione postmoderna e i piaceri dell'era elettronica?




domenica 16 ottobre 2011

un weekend postmoderno (2)

More about Un weekend postmodernoContinuando la lettura delle cronache di Tondelli confermo la piacevolezza dell'immersione in atmosfere tipicamente tondelliane e il gusto per questa forma ibrida di saggistica/narrativa.
Mi è piaciuto molto il pezzo sui videogiochi (Phoenix). Continuano anche a piacermi il paragone tra una certa vita di provincia, giovanile e vacanziera e il carnevale alla Rabelais; la narrazione dell'immaginario collettivo; la capacità di intrecciare i fili della cultura "alta" e "bassa" (come in Fuori stagione, nel cui finale si passa dai film di Fellini ai videoclip di Loredana Bertè).
E, infine, mi sono goduto in pieno l'immersione nel clima scolastico e universitario, che praticamente io non ho mai abbandonato.


giovedì 6 ottobre 2011

pi-pi-mao-mao

 Vuoto biascicablabla
Bla bla canto bla bla
Fauci schiumeggianti
Zuppa di won ton
(Bucky Wunderlick, Pi-Pi-Mao-Mao)

Rumore, capito. È tutta una questione di sound. Hertz e megahertz. Noi spacchiamo il cranio alla gente a forza di watt. Elettricità, capito. È una forza della natura. Noi elaboriamo una forza della natura. La corrente elettrica è dappertutto. Noi la incanaliamo in cavi, microfoni, amplificatori e così via. Solo natura e niente più. Certe volte la riduciamo a parole. E le parole nessuno le sente perché si perdono in mezzo al rumore, il che è naturale. Oggi le urla sono parte essenziale del nostro sound.
È per questo che siamo così bravi. Perché facciamo rumore. Più forte di chiunque altro, e meglio. Qualunque stronzo ricciolidoro è capace di cantare una ballatona melodica. Invece bisogna spaccargli il cranio, al pubblico. È l'unico modo per costringerli ad ascoltare.
Il vero artista fa muovere la gente. Il mio sound gli fa alzare il culo. In realtà, però, a me piacerebbe fare del male fisicamente al pubblico con il mio sound. Magari ammazzare qualcuno. La gente verrebbe ai concerti perfettamente consapevole di questo. Noi cominciamo a cantare e suonare e qualcuno nel pubblico sente dolore fisico o magari ha le convulsioni e qualcuno addirittura ci lascia la pelle per effetto delle nostre musiche e dei nostri testi. Pensate, la gente che crolla a terra dal dolore. E tutti verrebbero al concerto con la piena consapevolezza che può succedergli. Gente che muore di bellezza e potenza. L'arte è questo, tesoro. E sono io a crearla.

(Don DeLillo, Great Jones Street)

giovedì 18 agosto 2011

un privilegio raro

Con il Black Act (1723) in Gran Bretagna venivano condannati alla pena di morte i responsabili di reati come la caccia di frodo e il danneggiamento delle proprietà rurali. L'enormità della pena rispetto alla relativa banalità del reato mette in luce un profondo contrasto sociale: rivela l'opposizione di gruppi rurali in difesa delle tradizionali consuetudini di caccia, usurpate dal nuovo ceto dei commissari delle foreste regie.

Impiccheranno Geordie con una corda d'oro,
è un privilegio raro.
Rubò sei cervi nel parco del re
vendendoli per denaro.
(Fabrizio De André, Geordie)

martedì 28 giugno 2011

philosopher's drinking song

There's nothing Nietzsche
couldn't teach ya
'bout the raising of the wrist

venerdì 24 giugno 2011

l'anima brucia più di quanto illumini

Io, immagine di Dio! Io che mi credevo vicinissimo allo specchio dell'eterna verità, io, superiore a un cherubino, io che osai godere, pieno di presentimenti, una vita divina. Io, che il tuono di una parola mi ha cacciato.
Ho studiato, a fondo e con ardente zelo, filosofia e medicina, e purtroppo, anche teologia. Eccomi qua, povero pazzo, e ne so quanto prima.
Vengo chiamato Maestro, anzi dottore e già da anni meno per il naso, in su e in giù, i miei scolari. E scopro che non possiamo sapere nulla.
cena de le ceneri bruno latellaCiò mi brucia quasi il cuore. Ne so, è vero, un po' più di tutti quegli sciocchi, dottori, maestri, scribi e preti; non mi tormentano né scrupoli né dubbi, né ho paura del diavolo o dell'inferno. Però mi è stata tolta in cambio di ciò ogni gioia; non mi metto in capo di sapere qualcosa di buono, non mi illudo di poter insegnare qualcosa, di saper rendere migliori o convertire gli uomini. Mi sono dato pertanto alla magia naturale, se mai il potere o la parola dello Spirito mi rivelassero qualche segreto. Per non dover dire, dopo così amare, sudate fatiche, quello che non so, per poter scoprire ciò che, nel profondo, tiene insieme l'universo e contemplare ogni attiva energia ed ogni primitiva sostanza e smetterla di rovistare tra le parole.
Ma no... non mi è lecito osare di rassomigliare a te. Ho avuto la forza di attirarti, ed in quel momento beato mi sentii così piccolo e così grande. Ma tu mi ricacciasti crudelmente dentro l'incerto destino degli uomini. Ed ecco, ora mi si dissecca il corpo e mi s'umetta il cervello; mi nascono i tofi e mi cascano gli denti, mi s'inora la carne e mi s'inargenta il crine; mi si distendono le palpebre e mi si contrae la vista, mi s'indebolisce il fiato e mi si rinforza la tosse; mi si fa fermo il sedere e trepido il camminare, mi trema il polso e mi si saldano le coste; mi si assottigliano gli articoli e mi s'ingrossano le giunture, mi s'indurano gli talloni e mi s'ammolla il contrappeso; l'orticello della cornamusa mi s'allunga, et il bordon s'accorta.

(dal libretto teatrale de La cena de le ceneri di Bruno, adattamento di Federico Bellini e regia di Antonio Latella)


Il testo di questo libretto di Antonio Latella sull'opera teatrale di Bruno ricalca un po' e in parte il travestimento che Edoardo Sanguineti fa del Faust di Goethe:

Ahimè, ahimè! ho studiato la psicologia dell'età evolutiva,
la sociologia delle comunicazioni di massa,
la bibliografia e la biblioteconomia,
la semiotica, la semantica,
la cibernetica, la prossemica,
l'informatica, la telematica,
la biologia - e, accidenti, l'ecologia - e poi
la micro e la macrofisica, la meta e la patafisica,
da cima a fondo, con tanto zelo!
E adesso, eccomi qui, povero idiota,
e furbo come prima.
Mi chiamano l'egregio, l'illustre, il chiarissimo,
e il prof, e il dott,
e il maestro, magari, madonna!
E sarà dal '77 - ma che dico io mai? - sarà dal '68, ecco,
che me lo meno, con i miei studenti.
Questa è una cosa che mi strazia il cuore.
E va be', sarò più erudito dei miei colleghi,
ordinari, straordinari, associati, aggregati, incaricati,
lettori, ricercatori, dottori di ricerca, assistenti, precari,
e tutto il personale non docente.
Né scrupolo né dubbio mi tormenta,
né diavolo né inferno mi spaventa.
Ma non ci ho niente la felicità:
niente di vero penso di sapere,
niente di niente riesco più a insegnare,
né gli uomini io mi spero migliorare,
né di riuscirci, il mondo, a trasformare:
e non ho beni, mobili né immobili,
né uno straccio di Nobel, né il Potere:
manco un cane può viversi così.
Dunque, mi son dato alla magia:
voglio vedere un po', se me lo scopro,
il segreto dell'essere dell'esserci,
il mistero dell'esserci dell'essere.
E così non va a finire
che ci sudo sempre a dire
tutte cose che non so.
Cerco invano di trovare
che cos'è che può legare,
strutturato, il mondo qui.
E dominerò, un giorno, le radici ultimissime
dell'energia e della materia,
e tutti quanti i quanta:
e non starò più a riciclarmi, almeno,
questa eterna immondizia di parole!

Afterhours, Dentro Marilyn
... l'anima brucia più di quanto illumini...

mercoledì 18 maggio 2011

esistenza autentica nel deserto

I personaggi di Antonioni presentano due tipici tratti della filosofia di Heidegger: la percezione del vuoto, del nulla (o dell’essere), e l’oppressione tecnologica dell’esistenza, il rumore, la meccanicità, l’inconsistenza e il martellamento pubblicitario.
In Zabriskie Point il contrasto heideggeriano fra esistenza appropriata e inappropriata, fra tecnologia e apertura poetica sull’essere, è curiosamente intrecciato con i motivi della contestazione studentesca degli anni sessanta, la “retorica del deserto” e la musica dei Pink Floyd.
L’inappropriatezza, assieme alla tecnologia automatizzante e al completo estinguersi delle passioni primordiali, è rappresentata soprattutto dalla grande impresa immobiliare di Mr. Allen, preoccupato soltanto di vender terreni in pieno deserto secondo un progetto chiamato “Sannydunes” con l’aiuto di cartelloni pubblicitari che degradano la sacra immensità della natura al livello di una consumistica e fotografica trivialità. Tuttavia, non si può certo dire che l’appropriatezza sia invece rappresentata da quei gruppi d’estrema sinistra che intendono cancellare dalla faccia della terra la borghesia possidente.  All’inizio del film si vede uno stancante e inconcludente collettivo in cui gli interventi, i gesti e le parole d’ordine si discostano poco dall’automatismo e dalla produttività dei discorsi degli impresari.
I due ragazzi protagonisti del film, invece, realizzano in pieno deserto l’autentica rivoluzione, operando con i propri corpi una trasformazione silenziosa e profonda.

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