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sabato 7 aprile 2012

divertenti e graziosi giocattoli

More about La caduta di Hyperion«Possono non esistere esseri superiori divertiti da qualcuna delle graziose, per quanto istintive, attitudini in cui cade la mia mente, mentre considero la prontezza d'un ermellino o il timore d'un cervo? Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie che mostra sono belle. Per un essere superiore, i nostri ragionamenti forse assumono lo stesso tono... per quanto errati, forse sono belli. Ed è questa, la vera essenza della poesia».
Questo passaggio tratto da una lettera del poeta inglese John Keats, uno dei miei preferiti dagli adolescenziali tempi del liceo, al fratello, già citato all'interno del primo volume del ciclo I canti di Hyperion di Dan Simmons, funge da esergo del secondo, che ho giusto finito l'altro ieri.
E a me fa risuonare in mente alcuni frammenti di Eraclito, in cui l'oscuro filosofo spegne urgentemente come fosse un incendio ogni vana presunzione umana di lucida e definitiva conoscenza e comprensione della ragione e delle leggi della realtà, poiché «la qualità interiore umana, invero, non possiede gli strumenti del conoscere», non avendo natura divina, cosicché «di fronte alla divinità l’uomo risulta infantile, proprio come il fanciullo di fronte all’uomo» e le idee degli uomini non sono altro che divertenti e graziosi «giocattoli di fanciulli».
Inoltre «dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte», scrive Eraclito. Il frammento allude al gioco di parole tra biòs, arco (che, adoperato come arma, può portare la morte, uccidere), e bìos, vita; allo stesso tempo, è presente un richiamo al dio Apollo, di cui sono strumenti caratteristici sia l’arco sia la lira. Così, il senso del frammento sarebbe, secondo Giorgio Colli, che «le opere dell’arco e della lira, la morte e la bellezza, provengono da uno stesso dio, esprimono un’identica natura divina, e soltanto nella prospettiva deformata, illusoria del nostro mondo dell’apparenza si presentano come frammentazioni contraddittorie» (La nascita della filosofia).
Allo stesso tema rimanda il frammento «belle, di fronte al dio, sono tutte le cose; ma gli uomini hanno giudicato alcune cose come ingiuste, altre invece come giuste». Tutte le cose sono forme differenti in cui l’unico dio compare, dio che «si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno»: come il fuoco resta lo stesso e contemporaneamente diventa diverso, diversamente profumato e colorato, a seconda del particolare aroma che gli si getta dentro, così il dio, che è unità dei contrari, si realizza per l’uomo in un contrario o nell’altro nelle varie contingenze della vita. L’ingiustizia, la bruttezza, la negatività delle cose (le odiose zuffe di strada di cui scrive Keats) esistono solo per l’uomo, il dio non può essere assoggettato dalle categorie della predicazione umana. Viene, così, evidenziata la frattura metafisica fra il mondo e la prospettiva degli uomini e quelli degli dei. «Il mondo» – secondo Oswald Spengler – «è un enorme ed eterno àgón che si svolge secondo rigide regole di combattimento», ha il ritmo e la misura, la forza terribile, di una lotta che però, paradossalmente, «si scioglie in armonia» perché è «qualcosa che non è nulla di umano» e di cui il filosofo può godere, «gioire della leggerezza, dell’innocenza, dell’assoluta mancanza di sofferenza nello spettacolo del suo divenire e operare» (Eraclito).

lunedì 26 dicembre 2011

un uccello spirituale con un'animalità di seta e d'acciaio

More about Il vangelo di NietzscheInvogliato dal titolo e sotto convincenti sollecitazioni esterne ho acquistato in occasione dell'ultima edizione di Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria che si tiene ogni anno a Roma ad inizio dicembre, Il Vangelo di Nietzsche, raccolta di interviste rilasciate tra il 2003 e il 2005 da Philippe Sollers.
Il romanziere e saggista francese sostiene che è in corso un «piano tirannico» per «impedire quanto è possibile all'umano di pensare, attaccando neurologicamente le sue capacità di lettura: riduzione del linguaggio, quindi riduzione della percezione, della sensazione, psicologizzazione a oltranza», per rendere l'uomo un «ruminante dominato, castrato dalla comunicazione e dallo sfruttamento economico globale». Per rendersi refrattari a questo attacco serve una strategia bellica, bisogna lottare, e l'arma, secondo Sollers, è la poesia, che però oggi è per lo più appiattita perché i poeti sono «infingardi», «mancano di ambizione», «si accontentano di poco» e si rendono schiavi volontari. Al linguaggio resta così la capacità comunicativa, ma si pensa sempre di meno, poco o niente.
Pensare del resto, afferma Sollers, «è pericoloso per il benessere fisiologico dell'essere umano. Ecco quello che afferma Nietzsche, che è pregevole (sappiamo che ha affrontato ogni rischio del pensare): "Un tale pensiero è vortice e vertigine per ossa umane e anche vomito di stomaco" [Così parlò Zarathustra]». Dall'appiattimento generale così prodotto «qualcosa è stato occultato, bloccato, chiuso, escluso», cioè «l'accesso alla comprensione orfica della natura... L'orfismo, è chiaro, è solo e semplicemente Orfeo, le rocce che si muovono al suono della musica»; nell'uomo d'oggi «il desiderio è diventato ignorante o non è abbastanza sapiente», così che resta lontano l'ideale di Rimbaud per cui "le nostre ossa sono rivestite di un nuovo corpo innamorato" (Illuminazioni), in lui, appesantito e divenuto estremamente lento, manca ogni traccia di velocità interiore: «ai nostri giorni la velocità è onnipresente, tranne che negli spiriti... L'umanoide contemporaneo è un assemblaggio elettronico con la testa molle. L'apice del XVIII secolo, invece, è un uccello spirituale con un'animalità di seta e d'acciaio».

martedì 11 ottobre 2011

lo specchio

Quando ho visto Lo specchio, di Andrej Tarkovskij, ammetto di essere rimasto affascinato dall'estetica di questo film assolutamente non narrativo e costituito, invece, da un illogico fluire atemporale di memorie, ricordi, fatti attuali, spunti onirici, ricostruzioni storico-documentaristiche. Tutto davvero molto poetico. E molto belle anche le poesie che il regista inserisce nella pellicola, come quella, composta dal padre, che si può sentire verso la fine.

 
L'uomo ha un corpo solo,
solo come la solitudine.
L'anima è stanca
di questo involucro senza connessure,
fatto d'orecchie e d'occhi,
quattro soldi di grandezza,
e di pelle - cicatrice su cicatrice,
tirata sulle ossa.
Dalla cornea vola dunque via.
Nel pozzo spalancato del cielo,
sulla ruota di ghiaccio,
sulle ali di un uccello,
e sente dalle inferriate
della sua vivente prigione
il sussurrare dei boschi e dei campi,
il rombo dei sette mari.
Senza corpo l'anima si vergogna,
come un corpo svestito,
né pensiero, né azione,
né progetti, né scritti.
Un enigma senza soluzione:
chi ritorna sui suoi passi
dopo aver ballato sul palco
dove nessuno balla?
E sogno io un'anima
diversa, in una nuova veste:
che arde, passando
dal timore alla speranza.
Come fiamma che si alimenta nell'alcool,
priva d'ombra, che vaghi per la terra
lasciando a suo ricordo sul tavolo
un tralcio di lillà.
Corri, bambino, non piangere
sulla misera Euridice,
e con la tua piccola asta per le vie del mondo
sospingi ancora il tuo cerchio di rame;
anche se udibile solo per un piccolo quarto,
in risposta ad ogni tuo passo,
allegra ed asciutta,
la terra ti mormora negli orecchi.

lunedì 10 ottobre 2011

il quarto stato

In tutta la sua produzione artistica il pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo sembra presentare un concetto pessimistico della vita. Nella sua opera rari sono i momenti gioiosi, se anche in quello che dovrebbe essere un Idillio primaverile (1896-1901) echeggiano i passi sottolineati dall'autore nel romanzo dell'epoca Nell'ignoto (1896): «l'anima del sensibile adolescente schiudesi di repente all'amore e tra i due cugini, quasi inconsciamente incomincia l'eterno idillio». Il presentimento d'una futura e ineludibile sofferenza si proietta sulla scena d'un amore nascente e vagamente incestuoso. Presentimento di sofferenza che si concreta, invece, in Il morticino o Fiore reciso (1895-1906).
Il pittore si concentra con ostinazione sulla rappresentazione di sé e della sua famiglia, come dimostrano i numerosi autoritratti e ritratti svelando una certa ossessione del nido, dell'idea che non c'è "io" senza famiglia , l'irruzione della moglie Teresa e la rapida intensificazione del tema della donna col bambino, come in Donna seduta con bambino (1888), Pensieri o Teresa (1891), Mammine e Sacra famiglia (1892). In questo si mostra un processo di idealizzazione della figura femminile ma anche l'introduzione di innovazioni iconografiche: nella Sacra famiglia la figura della Madonna arriva in primo piano con un gesto che è, innanzi tutto, il rifiuto di conservare un ruolo passivo e gregario; la Madonna è giovane e protagonista, laddove san Giuseppe, confinato sullo sfondo, è vecchio e stanco, in una posizione assolutamente subordinata, e tutto questo quando la dimensione di quotidianità è ancor più accentuata dal fatto che le figure sono prive di aureola. il movimento di quella Madonna col bimbo in braccio anticipa quello della donna in primo piano del Il Quarto Stato (1901).
Oltrepassando decisamente la rigidità allegorica che la rappresentazione del femminile aveva conosciuto nella Francia rivoluzionaria giacobina nei quadri di Jean-Baptiste Regnault (La libertà o la morte, 1795) e Antoine-Jean Gros –, Teresa che nel Quarto Stato simbolicamente avanza verso il futuro rappresenta la realizzazione finalmente concreta, plausibile, popolare di quei valori di libertà, uguaglianza e fraternità di cui le tele francesi sono state il memorabile ma astratto paradigma. La contraddizione tra le simbologie culturali di una ben codificata tradizione relativa alla rappresentazione della donna e le opzioni politiche recepite dalla cultura del tempo, è sintetizzata da Pellizza nell'ambivalenza simbolica d'un femminile sospeso tra tradizione ed emancipazione, famiglia e partecipazione alla scena pubblica, forza e indipendenza, maternità e individualità, dimostrando una tenace volontà d'aggiornamento da parte del pittore sulla questione femminile.
Posizione socialista, anche se il socialismo di Pellizza è umanitario e pacifico come quello del Giovanni Pascoli che scrive «io mi sento socialista, ma socialista dell'umanità, non d'una classe» (1899), e che compone i versi della poesia La voce dei poveri (1902): «Non dateci ilo pane, ma i pani, sì d'oggi, e sì pur di domani, di sempre, o pie genti! Non dateci il vostro buon cuore cambiandolo in nostro rossore; voi uno, noi venti. Non pane soltanto ch'è nulla, ma vesti e la casa e la culla: non rame, ma oro: non ciò che a più chiedere invita, ma tutto: non vitto, ma vita: lavoro! lavoro!». Il socialismo di Pellizza si realizza in una decennale e costante rielaborazione tematica che va da Ambasciatori della fame (1892) ad, appunto, Il Quarto Stato.  
Se in una nota di diario del 1891 Pellizza segna «Scioperi – anche le donne possono prendervi parte – una donna nel quadro può venire in prima linea con essi», ecco che in Fiumana (1895-98) il garzoncello in primo piano di Ambasciatori della fame viene sostituito dalla donna col bimbo in braccio, la quale conquista la scena e la parola. In un'altra nota, del 1896, l'autore scrive: «passa la fiumana dell'umanità, genti correte ad ingrossarla. Il restarsi è delitto, filosofo, lascia i libri tuoi corri a metterti alla sua testa. Artista, con essa ti reca ad alleviarle i dolori colla bellezza che saprai presentarle. Operaio, lascia la bottega in cui per lungo lavoro ti consumi. La moglie e il pargoletto teco conduci ad ingrossare la fiumana dell'Umanità assetata di giustizia».
Anche Giovanni Verga ne I Malavoglia (1881) presenta il nesso tra fiumana e progresso, parlando del «movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso», ma sostenendo che «il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano», perché a questo progresso generale della specie si contrappone la rovina del singolo individuo. Nella novella rusticana Libertà (1883), sui fatti sanguinosi di Bronte dell'agosto 1860, la metafora fluviale serve infatti a Verga per condannare implicitamente l'immaturità politica e la violenza gratuita, modello replicato da De Roberto ne I Viceré (1894) e da Pirandello ne I vecchi e i giovani (1913).
Da Fiumana a Il Quarto Stato c'è il passaggio da una massa che s'ingrossa come un fiume in piena a una schiera contenuta nel numero e compattamente solidale, con tensioni smorzate, sublimate, compresse, latenti.
Nell'incedere dei lavoratori di Pellizza, come nei poveri di Pascoli che chiedono in coro, si può ravvisare  determinazione, consapevolezza della propria forza, ma la figura a grandezza naturale di una massa di contadini è insieme imponente e composta, è distribuita per file ordinate e avanza con dignità verso il futuro, in una forma di protesta silenziosa, cosciente di sé e delle proprie ragioni. L'ardore e la fede nell'avvenire e la coscienza di classe – le stesse del Metello (1955) di Vasco Pratolini, romanzo la cui vicenda abbraccia un arco cronologico che va dal 1873 al 1902 e coincide quindi quasi esattamente con la non lunga vita di Pellizza – sono mostrate con un carattere solenne ed emblematico, e la statuarietà di tutta la grande famiglia dei figli del lavoro è l'icona di un'umanità in cammino verso un destino ineluttabile di libertà, giustizia ed eguaglianza.
In una nota del 1892 su Ambasciatori della fame Pellizza scrive di voler raffigurare «la massa del popolo senza schiamazzi tranne laggiù in fondo dietro a tutti un pugno alzato, solo un pugno, che è come un avvisamento qualora il caso fosse disperato e la fame pervenisse all'insopportabilità». E ancora, in una nota del 1895, scrive: «vengono a reclamare ciò che di diritto – sereni e calmi, del resto, come chi sa di domandare né più né meno di quel che gli spetta –, è l'ora del riscatto, così pensano e non vogliono ottenere colla forza, ma colla ragione». L'intento del pittore è dunque quello della nobilitazione, dell'elevazione morale, della sublimazione, quello di mostrare i lavoratori come dovrebbero essere.
Ma anche nel dipinto Il Quarto Stato, culmine di questa sublimazione, traspare tutta la difficoltà di conciliare un socialismo gradualista e antirivoluzionario alla Turati con l'immagine maestosa e terribile della folla. Tutti i dubbi sul titolo definitivo da attribuire all'opera –  da Ventre vuoto, Budella vacue, Marcia dei Titani, Fiumana famelica a Fratelli-Prossimo, Marcia del Trionfo, Alla conquista dell'ideale, Redenzione emergono nel senso di terribile incombenza, di ansiosa e paradossale calma che precede il precipitare di una situazione, di intenzione congelata ma non meno minacciosa, di aggressività appena dissimulata, che trapela dall'indignazione dei lavoratori.
Questo forse spiega anche perché, nel 1992, Gianfranco Manfredi nel romanzo Magia rossa trasformi i personaggi del quadro di Pellizza in zombi, e, nel 1993, Tiziano Sclavi faccia marciare il suo eroe Dylan Dog alla testa d'un corteo di orride creature, esemplato sul modello del dipinto di Pellizza, così da confessare il versante notturno e rimosso della massa, per nulla redento dagli esibiti valori di civiltà e progresso attraverso cui il pittore aveva tentato di sublimarla.
Resta la relazione tra gli intenti di glorificazione che il quadro pretende d'avere e gli impliciti presagi che continua a proiettare, tra ciò che il quadro vuole essere e quello che rimuove sotto la sua coscienza ideologica ma che preme nella materialità del segno
Del resto, le pecore e i greggi lavorati da Pellizza in contemporanea all'impresa che l'avrebbe condotto a Il Quarto Stato, molto ci possono dire della massa di lavoratori che vi si celebra. Volendo attribuire alla transumanza di pecore de Lo specchio della vita (1895-98) il titolo simbolico di Verso la luce, la stessa luce del radioso avvenire verso cui i lavoratori sono incamminati, Pellizza fa sì che ai lavoratori venga associato lo stesso crudele destino che tutti i greggi si portano dietro «i cavalli son fatti per esser venduti; come gli agnelli nascono per andare al macello» (Verga, Jeli il pastore).



domenica 2 ottobre 2011

una pinta di birra è quel che fa per te

guy peellaertConsigliato da un mio ormai ex studente comprai Una pinta d'inchiostro irlandese, di Flann O'Brien. Me ne andai nella mia camera dove erano «la maggior parte delle cose che consideravo essenziali per l'esistenza» , «mi diressi al tenero trespolo del mio letto, sul quale sistemai la mia schiena in un'indolente posizione orizzontale e mi ritirai nel regno della mia mente» leggendo questo (anti)romanzo dentro un (anti)romanzo dentro un (anti)romanzo dentro (anti)un romanzo all'interno di uno dei quali, tra l'altro, i personaggi si ribellano al proprio autore (un po' come sarà nell'Icaro involato di Queneau) organizzandosi per mettere fine alla sua capricciosa tirannide e trasformandolo a sua volta in un personaggio di un loro collettivo romanzo/processo composto da estratti dal dattiloscritto e reminiscenze biografiche del protagonista, estratti da altre opere, estratti dal manoscritto del protagonista del dattiloscritto del protagonista («Trellis vuole che tutti leggano questo libro salutare. Egli capisce che un opuscolo puramente moralistico non può colpire la massa dei lettori. Di conseguenza ha deciso di riempire il suo libro di porcherie. Ci saranno per lo meno sette tentativi di atti osceni subiti da ragazze giovanissime, e una quantità illimitata di parole turpi. Ci sarà inoltre del whisky e della birra in quantità»), interpolazioni orali dei personaggi, analisi retoriche del testo, incisi descrittivi ed esplicativi e interpretativi, ritagli di stampa, riassunti, continuazioni, riprese, note, memoriali, poesie epiche, meditazioni letterarie sul romanzo moderno («L'intero insieme della letteratura preesistente deve essere considerato come un limbo nel quale gli scrittori intelligenti possono trovare i personaggi richiesti. Il romanzo moderno dovrebbe essere in gran parte un repertorio di rimandi»), lettere di promesse di vittorie sicure alle corse dei cavalli.
Un libro davvero divertente ed entusiasmante come quando a teatro "qualcuno sfascia delle porcellane sulla scena" (Graham Greene) e per nulla superficiale, un po' à la Sterne del Tristram Shandy, che dimostra ulteriormente la tesi del «primato dell'America e dell'Irlanda nel campo della letteratura contemporanea» e della «povertà delle opere prodotte da scrittori di nazionalità inglese» (tesi tra l'altro sostenuta anche da una mia collega di inglese durante degli esami di Stato, visto che moltissimi degli autori di letteratura inglese dell'ultimo anno sono nati in Irlanda).

«Può darsi che l'alcool danneggi la mente, riflettevo, ma può anche darsi che questo danno sia piacevole. Farne l'esperienza di persona mi sembrava l'unico modo soddisfacente di sciogliere i miei dubbi. Consapevole del fatto che questo era per me il primo, silenziosamente palpavo la base del bicchiere prima di portarmelo alle labbra. Con spirito leggero mi interrogavo internamente».

Quando tutto va male e non ne azzecchi una,
per quanto fai il meglio che puoi fare,
quando la vita è nera come la stessa notte,
UNA PINTA DI BIRRA È QUEL CHE FA PER TE.
Quando mancano i soldi e non li puoi trovare,
e il tuo cavallo ti ha lasciato al verde,
quando non ti rimane che un mucchio di cambiali,
UNA PINTA DI BIRRA È QUEL CHE FA PER TE.
Quando stai proprio male, o hai un dolore al cuore,
e il tuo volto è più pallido della cenere,
quando il dottore dice che devi cambiare aria,
UNA PINTA DI BIRRA È QUEL CHE FA PER TE.
Quando il cibo ti manca e la dispensa è vuota,
e la pancetta sfugge la tua padella,
quando la fame cresce man man che salti i pasti,
UNA PINTA DI BIRRA È QUEL CHE FA PER TE.

sabato 2 luglio 2011

cultura mutante

«Come diceva Nietzsche, il destino è il termine con cui i vigliacchi descrivono ciò che non hanno la forza di cambiare», grida Charles Xavier mentre sta affrontando Sinistro sul piano astrale - come da splendida immagine qui sotto - in X-Men Legacy 215 dell'ottobre 2008 (in Gli Incredibili X-Men 228 del giugno 2009).

xavier vs sinistro

E nel numero precedente (X-Men Legacy 214 del settembre 2008, in Gli incredibili X-Men 227 del maggio 2009), citando Little Gidding - ultimo dei Quattro quartetti - di T.S. Eliot, afferma: «Non dobbiamo desistere dal viaggiare. E la fine di tutti i nostri viaggi dovrà arrivare là dove avevamo iniziato e conosceremo il posto per la prima volta».
Splendido invito al viaggio.

Filosofia, poesia, ancora una volta i fumetti si dimostrano tutt'altro che letture infantili.

venerdì 24 giugno 2011

l'anima brucia più di quanto illumini

Io, immagine di Dio! Io che mi credevo vicinissimo allo specchio dell'eterna verità, io, superiore a un cherubino, io che osai godere, pieno di presentimenti, una vita divina. Io, che il tuono di una parola mi ha cacciato.
Ho studiato, a fondo e con ardente zelo, filosofia e medicina, e purtroppo, anche teologia. Eccomi qua, povero pazzo, e ne so quanto prima.
Vengo chiamato Maestro, anzi dottore e già da anni meno per il naso, in su e in giù, i miei scolari. E scopro che non possiamo sapere nulla.
cena de le ceneri bruno latellaCiò mi brucia quasi il cuore. Ne so, è vero, un po' più di tutti quegli sciocchi, dottori, maestri, scribi e preti; non mi tormentano né scrupoli né dubbi, né ho paura del diavolo o dell'inferno. Però mi è stata tolta in cambio di ciò ogni gioia; non mi metto in capo di sapere qualcosa di buono, non mi illudo di poter insegnare qualcosa, di saper rendere migliori o convertire gli uomini. Mi sono dato pertanto alla magia naturale, se mai il potere o la parola dello Spirito mi rivelassero qualche segreto. Per non dover dire, dopo così amare, sudate fatiche, quello che non so, per poter scoprire ciò che, nel profondo, tiene insieme l'universo e contemplare ogni attiva energia ed ogni primitiva sostanza e smetterla di rovistare tra le parole.
Ma no... non mi è lecito osare di rassomigliare a te. Ho avuto la forza di attirarti, ed in quel momento beato mi sentii così piccolo e così grande. Ma tu mi ricacciasti crudelmente dentro l'incerto destino degli uomini. Ed ecco, ora mi si dissecca il corpo e mi s'umetta il cervello; mi nascono i tofi e mi cascano gli denti, mi s'inora la carne e mi s'inargenta il crine; mi si distendono le palpebre e mi si contrae la vista, mi s'indebolisce il fiato e mi si rinforza la tosse; mi si fa fermo il sedere e trepido il camminare, mi trema il polso e mi si saldano le coste; mi si assottigliano gli articoli e mi s'ingrossano le giunture, mi s'indurano gli talloni e mi s'ammolla il contrappeso; l'orticello della cornamusa mi s'allunga, et il bordon s'accorta.

(dal libretto teatrale de La cena de le ceneri di Bruno, adattamento di Federico Bellini e regia di Antonio Latella)


Il testo di questo libretto di Antonio Latella sull'opera teatrale di Bruno ricalca un po' e in parte il travestimento che Edoardo Sanguineti fa del Faust di Goethe:

Ahimè, ahimè! ho studiato la psicologia dell'età evolutiva,
la sociologia delle comunicazioni di massa,
la bibliografia e la biblioteconomia,
la semiotica, la semantica,
la cibernetica, la prossemica,
l'informatica, la telematica,
la biologia - e, accidenti, l'ecologia - e poi
la micro e la macrofisica, la meta e la patafisica,
da cima a fondo, con tanto zelo!
E adesso, eccomi qui, povero idiota,
e furbo come prima.
Mi chiamano l'egregio, l'illustre, il chiarissimo,
e il prof, e il dott,
e il maestro, magari, madonna!
E sarà dal '77 - ma che dico io mai? - sarà dal '68, ecco,
che me lo meno, con i miei studenti.
Questa è una cosa che mi strazia il cuore.
E va be', sarò più erudito dei miei colleghi,
ordinari, straordinari, associati, aggregati, incaricati,
lettori, ricercatori, dottori di ricerca, assistenti, precari,
e tutto il personale non docente.
Né scrupolo né dubbio mi tormenta,
né diavolo né inferno mi spaventa.
Ma non ci ho niente la felicità:
niente di vero penso di sapere,
niente di niente riesco più a insegnare,
né gli uomini io mi spero migliorare,
né di riuscirci, il mondo, a trasformare:
e non ho beni, mobili né immobili,
né uno straccio di Nobel, né il Potere:
manco un cane può viversi così.
Dunque, mi son dato alla magia:
voglio vedere un po', se me lo scopro,
il segreto dell'essere dell'esserci,
il mistero dell'esserci dell'essere.
E così non va a finire
che ci sudo sempre a dire
tutte cose che non so.
Cerco invano di trovare
che cos'è che può legare,
strutturato, il mondo qui.
E dominerò, un giorno, le radici ultimissime
dell'energia e della materia,
e tutti quanti i quanta:
e non starò più a riciclarmi, almeno,
questa eterna immondizia di parole!

Afterhours, Dentro Marilyn
... l'anima brucia più di quanto illumini...

giovedì 26 maggio 2011

il tempo di una sigaretta

More about Essere senza tempoÈ merito di Norbert Elias aver mostrato nel suo Saggio sul tempo (1984) come e in che modo la moderna «società disciplinare» abbia costretto l’uomo a interiorizzare e ad accettare come «naturali» le strutture del nuovo tempo della storia, come il tempo dell’esistenza sia una variabile dipendente dai ritmi della società e dei suoi processi di trasformazione. Non vi è ambito dell’esistenza umana che non sia stato travolto dal processo di accelerazione che ha elettrizzato la modernità in ogni sua determinazione («mobilitazione totale» è l’espressione di Ernst Jünger) e la differenza tra «tempo della vita» e «tempo del mondo» si è gradualmente trasformata in un abisso (Hans Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, 1986): il primo, con i suoi ritmi biologici, naturali, ciclici, è stato costretto ad adeguarsi ai tempi linearizzati e sempre più rapidi della storia, sia sul lato socio-politico, sia su quello tecnico-scientifico ed economico, le attività umane sono state chiamate a fare propri i tempi incalzanti della storia uniformandosi al loro andamento accelerato e, di conseguenza, mettendosi esse stesse al galoppo, nella costante sensazione che fosse sempre troppo scarso il tempo a disposizione per agire in un mondo in cui tutto procede così concitatamente.
Ma c’è una differenza capitale tra la tradizione del tema della brevità dell’esistenza umana e del tempo scarso (Seneca, Orazio) e la concezione moderna: per la prima il tempo è comunque inteso come un possesso pienamente umano, di cui noi stessi siamo amministratori e possiamo saggiamente ottimizzarlo; con la modernità il tempo si autonomizza e diventa padrone della nostra esistenza.
Il caffè è trasformato ben presto in metafora della sobrietà e dunque della razionalità illuministica, oltre che della produttività in grado di accelerare se stessa convertendo in ore lavorative quelle tradizionalmente consacrate al riposo (il sonno dell’organismo è accusato di frenare la produzione e l’incremento dei suoi ritmi). La rivista fondata da Pietro Verri e dal suo gruppo, nel 1764, venne intitolata «Il Caffè» anche perché voleva essere un tributo a quella bevanda miracolosa, emblema della lucidità della ragione. Nell’Histoire de France, Michelet si spinge a salutare il caffè come la bevanda che aveva riportato alla sobrietà un’intera epoca, svegliando l’umanità dal suo torpore millenario. Trovava un suo alleato nel caffè non soltanto la ragione, che grazie ad esso poteva essere ancora più vigile e desta, ma anche la produzione industriale, a cui la «bevanda nera» garantiva corpi scattanti, veloci e iperattivi, nemici dell’ozio e della lentezza. È come se il caffè avesse contribuito a plasmare un nuovo «corpo razionalistico e borghesemente progressista» (Schivelbusch, Il paradiso, il gusto e il buonsenso), sempre sveglio, agile, perfettamente funzionale allo «spirito borghese» e alla sua tensione alla valorizzazione del profitto: il caffè rivestì la funzione di sincronizzare la vita umana con i ritmi accelerati della modernità, favorendo l’accelerazione della storia. 
Particolarmente significativo è il fatto che l’aristocrazia, per tutto il secolo XVIII, volle mantenersi con sospetto a debita distanza dal caffè, preferendo un’altra bevanda, la cioccolata, che sembra sortire esiti opposti, favorendo «quello stadio intermedio fra il giacere e lo stare seduti» (ibid.), diventando così una rivendicazione dei ritmi «molli» e pacati del mondo premoderno. 
Non va del resto trascurata la diffusione dell’acquavite: anch’essa frutto dell’accelerazione avviata dalla Rivoluzione industriale e da quella francese, intercetta il favore soprattutto della classe operaia. Il caffè fu borghese, la cioccolata fu aristocratica e l’acquavite fu per sua vocazione proletaria: essa permetteva ai lavoratori salariati di ubriacarsi in tempi rapidissimi, trovando nell’alcol – come ricorda Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 – la sola fuga momentanea dalla propria condizione alienata. Di fronte alla velocità vertiginosa della vita in fabbrica, l’operaio reagisce a casa velocizzando il tempo di abbandono della propria sobrietà, quasi come se non aspirasse ad altro se non a congedarsi al più presto, almeno temporaneamente, dai ritmi insostenibili del sistema capitalistico e della sua razionalità produttivistica, attraverso una fuga verso l’ubriacatura accelerata. 
Nella Certosa di Parma (1838) di Stendhal, nel vortice degli eventi della battaglia di Waterloo, Fabrizio perde l’orientamento, tra palle di cannone fischianti, disertori allo sbaraglio e furti di cavalli e, al culmine dello spaesamento, non vede altra soluzione che trangugiare avidamente l’acquavite per non essere travolto da quei ritmi frenetici: «la massimizzazione dell’effetto, l’accelerazione dei tempi e la riduzione del prezzo fanno dell’acquavite un vero prodotto della rivoluzione industriale» (ibid.) e della sua smania di ottenere risultati massimi nel minor tempo possibile, in una vera e propria «fretta etilistica». Quest’ultima è elogiata, nel 1863, da Baudelaire: «per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare» (Enivrez-vous). 
D’altra parte, il processo di velocizzazione dei tempi della vita affiora in modo lampante non soltanto dalle particolari bevande che vanno diffondendosi, ma anche dal modo specifico in cui cominciano a essere consumate: nei locali vanno sempre più affermandosi i «banconi», che affiancano i tavoli e che rendono possibile una abbreviata permanenza nel locale.
Se dall’ambito dei beni liquidi si sposta l’attenzione a quello di un altro genere voluttuario – il fumo –, ci si imbatte in analoghe testimonianze dell’accelerazione dei tempi della vita. Nella misura in cui «il tempo stringe», diventa indispensabile ridurre al minimo gli intervalli di tempo libero, accorciando il più possibile anche le pause dedicate al fumo: in particolare, «nella storia del fumo questa fretta si manifesta nella semplificazione e nell’abbreviazione dei procedimenti usati per fumare» (Schivelbusch, ibid.) e nella sequenza di diversi strumenti porta dalla pipa al sigaro, e da questo alla sigaretta. La sigaretta si trasforma in una nuova e uniforme unità di tempo – il «tempo di una sigaretta».

sabato 14 maggio 2011

gli uomini ciechi e l'elefante

La filosofa Martha Nussbaum rileva la “fragilità del bene”, l’intrinseca debolezza della cosiddetta “vita buona”, sempre assediata dall’incertezza della sorte e dalla prepotenza di fattori extrarazionali. Se l’autrice americana riflette sulla costitutiva caducità del bene, il film Elephant di Gus Van Sant argomenta in margine a quella che un’altra grande filosofa, Hannah Arendt, chiama la “banalità del male”, alla sua inesplicabilità. Illusorio è pensare che possa realizzarsi compiutamente la “vita buona” – troppo numerosi e condizionanti sono gli impedimenti che ad essa oppongono la fortuna e le passioni. Ma non meno infondato è credere di poter individuare l’origine del male, di poterlo distinguere infallibilmente da altri moventi, ritenere che esso sia riconoscibile con sicurezza, e dunque che si possa isolarlo e infine estrometterlo dalla vita sociale. Gus Van Sant comunica l’”altra faccia” dell’analisi condotta da Martha Nussbaum: la descrizione di una condizione umana costitutivamente fragile, perché sempre ineluttabilmente esposta all’emergere di qualcosa che può dissolvere qualunque ideale di “vita buona”. Senza “ragioni” e senza “motivi”. Il male come semplice controfaccia del bene. 
I due giovani protagonisti del film sono ritratti nel loro essere perfettamente “normali”, accomunati negli abiti e nelle consuetudini di vita a quei coetanei dei quali essi diventeranno i carnefici, privi di ogni inclinazione omicida e di ogni fanatismo ideologico, pressoché indistinguibili dagli altri giovani. 
Pare che Van Sant abbia tratto il titolo del film da un apologo buddhista: alcuni ciechi cercano di immaginare quale sia la forma di un elefante, descrivendo solo la parte che ognuno di loro può toccare. Nel confrontarci col male, con questo pachiderma enorme, ciascuno di noi si comporta come uno di quei ciechi, crede di poterlo raffigurare soltanto perché ne ha conosciuto una singola parte o un aspetto circoscritto.

(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema)

La stessa leggenda indiana dei sei uomini ciechi e dell'elefante è ripresa anche in una poesia del XIX secolo di John Godfrey Saxe
It was six men of Indostan
To learning much inclined,
Who went to see the Elephant
(Though all of them were blind),
That each by observation
Might satisfy his mind.
[...]
And so these men of Indostan
Disputed loud and long,
Each in his own opinion
Exceeding stiff and strong,
Though each was partly in the right,
And all were in the wrong!

MORAL.

So oft in theologic wars,
The disputants, I ween,
Rail on in utter ignorance
Of what each other mean,
And prate about an Elephant

Not one of them has seen!
E anche in un albo di Hulk – negli USA Red Hulk 16 (dicembre 2009), in Italia Devil & Hulk 163 (luglio 2010) – viene raccontata e illustrata questa favola: «Un re chiese a sei ciechi di esaminare un animale di cui non sapevano niente, un elefante. Non erano stupidi, erano uomini brillanti. Ciascuno di loro toccò una parte della bestia. Quando ebbero finito, furono chiamati dal re per spiegare cosa fosse un elefante. Non c'era accordo. La discussione fu così accesa che iniziarono a lottare tra loro. Si sarebbero ammazzati se il re non fosse intervenuto. Il re aveva dimostrato la sua teoria. Chiunque vede le cose in un solo modo, non conoscerà mai tutta la verità».


venerdì 13 maggio 2011

o invero quanto vale

In una tavola del numero 9 della serie a fumetti Uncanny X-Force (maggio 2011), si vede Wolverine entrare in una stanza a recuperare una katana che gli servirà per compiere un atto di vendetta per conto di Magneto: uccidere un ex nazista, ormai un uomo vecchio, fuggito dopo la guerra in Sud America, dove ha poi condotto una vita buona (si è costruito una casa, ha iniziato una nuova vita, incontrato una donna e cresciuto tre figli), provando a dimenticare il passato ma consapevole che questo lo avrebbe prima o poi raggiunto, gettando la guerra dietro di sé ma sapendo che non meritava neanche un singolo istante della felicità che gli era stata concessa.
Nella stanza, appesa ad una delle pareti, è presente una citazione da uno dei frammenti del poeta Archiloco, lirico greco del VII secolo a.C., che sembra dare il senso della vicenda: «I have a high art, I hurt with cruelty those who would damage me».
O invero quanto vale
a chi male t'ha fatto
render tremendo male.

Nessun uomo supera il proprio passato, ma anche Wolverine e Magneto se ne dovranno ricordare quando le loro vittime torneranno per loro.

lunedì 4 aprile 2011

sopravvivere: lutto e gravidanza

L’isola deserta affascina e spaventa, al contempo, perché non è solo perdita e morte, ma porta in sé il segreto di una ri-creazione, di una nuova nascita attraverso la morte di cui la catastrofe del volo 815 in Lost è il sigillo: «Non c’è una seconda nascita perché c’è stata una catastrofe; semmai l’opposto: c’è una catastrofe successiva all’origine poiché ci deve essere, dopo l’origine, una seconda nascita», dice Deleuze ne L’isola deserta e altri scritti.
L’isola è il luogo per eccellenza della sopravvivenza. Ma, come in Lost Locke ricorda a Jack, «sopravvivere è solo un concetto relativo». Il luogo della sopravvivenza non è altro che il luogo della vita. «La vita è sopravvivenza», come ha scritto Derrida (ultima intervista rilasciata prima di morire e intitolata Apprendre à vivre, enfin. Al tema della sopravvivenza il filosofo ha dedicato un saggio, poi raccolto in Paraggi, intitolato Sopra-vivere). «Noi siamo strutturalmente dei sopravvissuti». Perché ogni vivente, fin dalla nascita, è già abitato dalla possibilità incancellabile della morte – da questa catastrofe a cui sarà già sopravvissuto, e che lo accompagna mentre lo attende. E dunque vivere significa già da sempre sopravvivere, rinascere a questa morte che, prima ancora di essere effettiva, sarà già stata qui. Per questo lutto e gravidanza si intrecciano indissolubilmente.
Nell’essenziale rapporto tra vita e morte a colpire di più non è tanto l’elemento ciclico, bensì l’intreccio e la compenetrazione dei due aspetti, e l’incredibile confondersi di lutto e gravidanza. Ma in che senso dovrebbero essere associati? Non sono forse uno l’opposto dell’altro? Solo in apparenza. Perché mettere al mondo significa già destinare alla morte – cominciare a far morire. Non si dona la vita senza donare, al contempo, la morte. La nascita è la morte. Un’interessante analisi di questa singolare condizione di viventi-mortali ci viene dalla lettura che Derrida ha dato di un verso del poeta di lingua tedesca Paul Celan, che recita: Die Welt ist fort, ich muss dich tragen (“Il mondo è partito e io ti devo portare”). Derrida commenta: «Il mondo è partito, il mondo ci ha abbandonati, il mondo non c’è più, il mondo è distante, il mondo è perduto». Il verbo portare con cui si chiude il verso traduce il tedesco tragen che significa, al contempo, “portare il lutto” e “portare un bambino in grembo”. «Tragen» afferma Derrida «si dice correntemente dell’esperienza che consiste nel portare un bambino che ancora deve nascere. Ma, d’altra parte, se tragen parla il linguaggio della nascita, se deve indirizzarsi a un vivente presente o a-venire, può anche indirizzarsi al morto, al sopravvissuto o al loro spettro, in un’esperienza che consiste nel portare l’altro in sé, come si porta il lutto». Ora, in entrambe queste esperienze, il mondo è perduto, non c’è più, se n’è andato nella misura in cui l’io resta solo con l’altro: l’altro a venire e/o l’altro che non c’è più. L’altro che non c’è più come altro a-venire nella forma di un ritorno spettrale. E l’altro a-venire come altro che non c’è già più, la cui vita porta già in sé la morte a-venire.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

lunedì 28 marzo 2011

i lampi di possibili tempeste

More about Harry Potter e la filosofia«La critica sentenziosa mi fa addormentare – diceva Foucault –; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). Sono i lampi di queste tempeste ciò che la filosofia dovrebbe provare a scatenare in un inedito confronto con il proprio tempo. La cultura di massa o cultura pop, con le sue storie e i suoi mondi, è oggi un campo imprescindibile per l’esercizio dell’antico e nobile amore della sapienza. Un esercizio qui inteso come riscrittura filosofica del testo pop e montaggio del testo filosofico con il testo pop. 
Certo, nell’Occidente antimagico vi sarà sempre qualche Babbano pronto a dichiarare che un romanzo di maghi, fantasmi, manici di scopa volanti, draghi, è diseducativo per la ragione, oltre che per i giovani lettori di cui rischierebbe di distorcere l’indole, e tante grazie. Ma questa, in fondo, è solo una vecchia storia, buona per spiriti tristi e risentiti che non sanno come giustificare la propria pigrizia intellettuale. E di questa storia, francamente, mi importa poco o nulla. La saga di Harry Potter è vera e reale perché apre un mondo. È quanto ci ha insegnato Heidegger: un’opera d’arte è la messa in opera di una verità in quanto è capace di aprire un mondo, di mettere in atto un mondo. È da qui, e non dai balbettii di certa critica letteraria, che occorre partire per comprendere la portata del romanzo-mondo creato dalla Rowling. La saga di Harry Potter è, a tutti gli effetti, un’opera d’arte della cultura pop di grande complessità e bellezza, e una risorsa straordinaria e potentissima per l’esercizio della filosofia. Una filosofia per bambine e bambini, streghe, maghi e Babbani. E per quanti sanno prestare ascolto alle parole di un grande poeta, René Char, che scriveva: «Sviluppate la vostra legittima stranezza».

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

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