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venerdì 14 febbraio 2025

libri acquistati con il bonus docente (2) + altri ultimi acquisti

Siamo al secondo acquisto librario realizzato grazie al bonus docente.
Intanto abbiamo arricchito ulteriormente il nostro stash con altri due volumi di Vogue Knitting: la guida definitiva per imparare a lavorare a maglia,The Learn-to-Knit Book, e la versione portatile, da viaggio, per rapidi riferimenti sulle tecniche di maglia, The Ultimate Quick Reference. Altro campo di interesse, la calligrafia, coperto con  A to Z of Copperplate calligraphy, per imparare la calligrafia, padroneggiare la scrittura a mano in corsivo attraverso un quaderno di esercizi per principianti.
Quattro racconti per l'infanzia di un Charles Dickens, Storie fantastiche delle vacanze, cui sono arrivato dal saggio dedicato allo scrittore inglese da Gilbert Keith Chesterton citato da Tolkien nel suo scritto Sulla fiaba, letto questo mese. La sospensione dell'incredulità è il presupposto di un racconto introduttivo uscito dalla penna di un bambino di otto anni. Una lisca magica che, per una sola volta può esaudire qualunque desiderio viene donata da una Fata a una piccola Principessa. Un piccolo Capitano coraggioso di nome Boldheart combatte la sua guerra personale contro le angherie del Maestro di Grammatica Latina. Distinti ed educati piccoli signori accudiscono i grandi come fossero i loro bambini, in un paese incantato dove i grandi non devono mai far tardi, devono sempre ubbidire e per punizione sono messi nell'angolino.
Consigliato da un collega, Il serpente di Ouroboros di Eddison Eric Rücker ci trasporta, come in un sogno, in una terra lontana governata dalle leggi della magia, dove due regni sono in lotta per la gloria o la distruzione totale. Il duello mortale tra Gorice, il Re stregone di Witchland, e Goldry, Signore di Demonland, segna l’inizio di una guerra che coinvolgerà eroi, mostri, incantatori e principesse, trascinati nel vortice delle armi fino all’inaspettato finale. Pubblicato nel 1922, il romanzo fonde in una nuova forma letteraria elementi dell’epica classica, delle saghe nordiche, dei poemi cavallereschi e del romanzo gotico: è l’atto di nascita del fantasy, anni prima che Tolkien, amico e attento lettore di Eddison, creasse Arda. 
Filosofia, matematica, Deleuze, stile. Tutte parole che non possono non interessarmi. In che modo è possibile pensare il rapporto tra la matematica e il pensiero di Gilles Deleuze? Ancor più radicalmente: come è possibile pensare matematica e filosofia, scienza e filosofia, senza ricalcare i domini disciplinari della logica e della filosofia della matematica? Il volume di Andrea De Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Gilles Deleuze si propone di ricostruire le radici matematiche della metafisica deleuziana attraverso un costante contrappunto della filosofia con le matematiche più recenti, in particolare l’analisi complessa, le geometrie riemanniane e sub-riemanniane e i modelli neurogeometrici della morfodinamica contemporanea. L’idea alla base di questo studio è che un simile contrappunto non debba essere giustificato tramite delle analogie disciplinari tra diversi ambiti del sapere, ma a partire da una più profonda analisi dello stile in cui un pensiero prende forma. In tal senso, si propone l’idea di una logica dello stile, ben diversa dalla stilistica, che prende il nome di stilologia.
Infine, anche se deve ancora arrivare, il primo volume di una nuova collana della Carocci dedicata al gioco, Giochi per scrivere meglio, in cui Beniamino Sidoti mostra come scrivere sia una tecnica che si può acquisire, migliorare, condividere, approfondire e, come ogni tecnica, appresa anche giocando. Il libro propone un'ampia raccolta di giochi, sperimentati in contesti diversi nell'arco di trent'anni e di provata efficacia, da utilizzare a scuola o nella formazione, in attività sociali, individuali o di coppia. Sono giochi per imparare a scrivere meglio, per sviluppare nuove competenze e scoprire stili o generi letterari divertendosi. Perché ogni gioco permette di fare un passo in più, e tutti insieme di fare molti passi. Beniamino Sidoti è stato uno dei docenti del del corso di perfezionamento in Gaming and Boardgame Design organizzato dall'Università di Genova che ho seguito la scorsa estate, e un paio di suoi esercizi li ho già utilizzati a scuola.

Ne approfitto però anche per segnalare altri ultimi acquisti in libreria.
A fine gennaio abbiamo acquistato L'ora di greco, del premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang. In una Seoul rovente e febbrile, una donna vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi. Le era già successo una prima volta, da adolescente, e allora era stato l’insolito suono di una parola francese a scardinare il silenzio. Ora, di fronte al riaffiorare di quel mutismo, si aggrappa alla radicale estraneità del greco di Platone nella speranza di riappropriarsi della sua voce. Nell’aula semideserta di un’accademia privata, il suo silenzio incontra lo sguardo velato dell’insegnante di greco, che sta perdendo la vista e che, emigrato in Germania da ragazzo e tornato a Seoul da qualche anno, sembra occupare uno spazio liminale fra le due lingue. Tra di loro nasce un’intimità intessuta di penombra e di perdita, grazie alla quale la donna riuscirà forse a ritornare in contatto con il mondo. 
E, consigliato da Simone Regazzoni, L'anniversario di Andrea Bajani. Si possono abbandonare il proprio padre e la propria madre? Si può sbattere la porta, scendere le scale e decidere che non li si vedrà più? Mettere in discussione l’origine, sfuggire alla sua stretta? Dopo dieci anni sottratti al logoramento di una violenza sottile e pervasiva tra le mura di casa, finalmente un figlio può voltarsi e narrare la sua disgraziata famiglia e il tabù di questa censura con la forza brutale del romanzo. E celebrare così un lacerante anniversario: senza accusare e senza salvare, con una voce scandalosamente calma, come scrive Emmanuel Carrère a rimarcarne la potenza implacabile. Il racconto che ne deriva è il ritratto struggente e lucidissimo di una donna a perdere, che ha rinunciato a tutto pur di essere qualcosa agli occhi del marito, mentre lui tiene lei e i figli dentro un regime in cui possesso e richiesta d’amore sono i lacci di un unico nodo. L’isolamento stagno a cui li costringe viene infranto a tratti dagli squilli di un apparecchio telefonico mal tollerato, da qualche sporadico compagno di scuola, da un’amica della madre che viene presto bandita. In questo microcosmo concentrazionario, a poco a poco si innesta nel figlio, e nei lettori, un desiderio insopprimibile di rinascita - essere sé stessi, vivere la propria vita, aprirsi agli altri senza il terrore delle ritorsioni. Con la certezza che, per mettersi in salvo, da lì niente può essere salvato. L’anniversario è prima di tutto un romanzo di liberazione, che scardina e smaschera il totalitarismo della famiglia. Ci ferisce con la sua onestà, ci disarma con il suo candore, ci mette a nudo con la sua verità. È lo schiaffo ricevuto appena nati: grazie a quel dolore respiriamo. Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.

Ieri, invece, dopo il pomeriggio passato a scuola per il gruppo di lettura, abbiamo preso in libreria l'Atlante sentimentale dei colori di Kassia St Clair, 76 storie straordinarie, da amaranto a zafferano, per superare l'abitudine a pensare ai colori come a entità astratte, eteree e immutate, codificate una volta per tutte in manuali e cataloghi. Non è così. Gli antichi greci per esempio non riconoscevano al blu una sua precisa identità cromatica, tant’è che il mare nell’Iliade è colore del vino e non sembra in nulla uguale al cielo. Anche i colori insomma hanno una vita: nascono, crescono e muoiono, e a volte hanno seconde e terze vite. Non solo: per ogni colore ci sono centinaia di tonalità, ognuna con caratteristiche e origini precise. Non esiste solo il rosso, ma un prisma intero dallo scarlatto al vermiglione, dalla cocciniglia che si spreme da un insetto alla lacca di garanza estratta da una radice, dal rosso corsa, antenato del celebre rosso Ferrari, all’esotico sangue di drago ricavato da una resina asiatica. E se ogni sfumatura ha la sua storia, è vero anche che ogni sfumatura ha cambiato la nostra storia: la calce con cui si imbiancano i muri si diffuse per disinfettare gli edifici durante le epidemie; il kaki rivoluzionò la guerra introducendo negli eserciti il concetto di camouflage; l’assenzio tinse di verde i sogni dei poeti maledetti; ed è grazie al lapislazzuli, giunto dall’Estremo Oriente, se l’oro degli sfondi medievali si tramutò nel blu oltremare dei cieli rinascimentali, facendo entrare prepotentemente quel colore nella storia dell’Occidente. Tra storia e arte, moda e politica, antropologia e cultura pop, il testo restituisce l’arcobaleno che dà forma al mondo che ci circonda, alla cultura in cui siamo immersi.
Stella distante di Roberto Bolaño, acquistato anche perché il tema dell'incontro del prossimo mese del gruppo di lettura è stelle. Chi è stato Carlos Wieder? Un poeta o un assassino? Un artista o un criminale? Un pilota spericolato che si esibiva in performance di scrittura aerea o un autore di snuff movies? E ha veramente arrestato e torturato e ucciso, nei mesi successivi al golpe di Pinochet, decine di persone, per poi esporre le foto dei cadaveri ridotti a brandelli perché convinto della assoluta, gratuita purezza del male - perché solo il dolore è in grado di rivelare la vita, e perché lo scopo della sua è l'esplorazione dei limiti? Nulla, sembra ribadire l'autore, è più sfuggente della verità. Tant'è che, una pagina dopo l'altra, un tassello dopo l'altro - attraverso un accumulo di indizi, molti dei quali di natura squisitamente letteraria, e di storie parallele, alcune tragiche, alcune grottesche, alcune paradossalmente fiabesche (ma tutte, sempre, eccessive, come il Cile di quegli anni) -, il nostro percorso di avvicinamento a quella che potrebbe essere la verità diventa via via più sdrucciolevole, come se l'autore medesimo ci invitasse a dubitare degli eventi che narra non meno che degli scrittori che cita, delle poesie, delle riviste, dei movimenti letterari a cui allude. Nonché, in definitiva, della esistenza stessa di un uomo chiamato Carlos Wieder.
Dal 1970 al 1987, Gilles Deleuze tenne un corso di filosofia settimanale all’Università sperimentale di Vincennes che a partire dal 1980 si trasferì a Saint-Denis. Le otto lezioni tenute dal filosofo francese tra il marzo e il giugno 1981, sono state trascritte e annotate nel volume Sulla pittura. Che rapporto intrattiene la pittura con la catastrofe, oppure con il caos? Come evocare il monocromo e affrontare il colore? Cos’è una linea priva di contorno? Cosa sono una superficie, uno spazio ottico puro, un regime cromatico? Cézanne, Van Gogh, Michelangelo, Turner, Klee, Mondrian, Pollock, Bacon, Delacroix, Gauguin o Caravaggio costituiscono per il filosofo francese altrettante occasioni per discutere concetti fondamentali come quelli di codice, diagramma, figura, analogia, modulazione. Insieme ai suoi studenti, Deleuze ripensa radicalmente i concetti ai quali fa abitualmente riferimento la nostra comprensione dell’attività creatrice dei pittori. Concreto e luminoso, il pensiero deleuziano si offre qui al lettore al più alto grado della sua particolarissima forza espressiva. 

sabato 18 gennaio 2025

un capricorno di gennaio

C'è questa cosa del capricorno di gennaio. Non che io creda a astrologia o oroscopi, però è una idiomatica autofiction che mi piace raccontarmi, quella di trovare, scoprire o imbattermi in date di nascita di personaggi e personalità che mi piacciono, che fanno parte del mio percorso di formazione e della mia enciclopedia, che me li faccia inserire in questo insieme dei capricorno di gennaio. Insieme a cui, ovviamente, appartengo anch'io.

E così Isaac Asimov (2 gennaio), J.R.R. Tolkien (3 gennaio), Umberto Eco (5 gennaio) Edgar Allan Poe (19 gennaio) per la letteratura, Hayao Miyazaki (5 gennaio), Haruki Murakami (12 gennaio) e Yukio Mishima (14 gennaio) per la cultura nipponica, Giorgio Colli (16 gennaio), Alain Badiou (17 gennaio) e - soprattutto, visto che ne condivido proprio la data di nascita - Gilles Deleuze (18 gennaio) per la filosofia, costituiscono una costellazione immaginaria tutta per me.

mercoledì 21 ottobre 2020

filosofia come allenamento

La palestra di Platone è l'ultimo, straordinario testo del filosofo Simone Regazzoni.
La philosofia, amore per il sapere, è anche se non soprattutto philoponia, amore per la fatica, è essere disposti a faticare per cambiare se stessi, per elevarsi.
Ma non essendo l'uomo una mente disincarnata, puro pensiero, res cogitans separata dal proprio corpo vivente, la filosofia non può permettersi di assumere una postura asservita al dominio della sola parola e della razionalità, deve invece ripensarsi come cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita che coinvolge il plesso di mente-e-corpo, come invito ad abbandonare la propria dipendenza da uno stile di vita comodo e cogliere invece l'occasione per allenarsi come un dio (Sloterdijk).
Così è la filosofia in origine, con Platone, filosofo lottatore che pensa nei luoghi in cui si lotta, pensa il proprio discorso nei termini propri della lotta e quando articola in chiave politica la propria filosofia pone l'allenamento in palestra e la lotta come elementi fondamentali per la formazione di maestri e allievi.
Così può e deve tornare a essere, considerando il corpo vivente come spazio di lotta, potenza, benessere, conflitto, pensiero, elevazione, auto-creazione, gioia. La sfida è atletica, estetica, cognitiva, etica e politica insieme, e consiste nella cura di sé (Foucault) come allenamento e combattimento permanente, al fine di essere in grado di fronteggiare, con coraggio, gli eventi, di accedere a un'altra intensità di esistenza (Badiou).
Certo non c'è nessun combattimento senza aggressività e senza il rischio di fare o di farsi male, ma è proprio questo male che si impara a maneggiare, gestire, contenere, pensare: non c'è etica degna di questo nome, se non ci si allena all'uso della forza che ogni vivente possiede in sé, se non ci si prende cura della pulsione di morte, con la pulsione a combattere o di aggressività che ogni soggetto porta con sé. Come anche Montaigne scrive sull'educazione dei fanciulli, è necessario avvezzarli al sudore e al freddo, al vento, al sole e ai rischi affinché essi possano fare ogni cosa, e non desistano dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma per mancanza di volontà.
Attraverso la fatica, e facendo prova dell'essere-esausto, facendo prova del limite, ci si supera per divenire altro da sé: l'elevazione non è un mero potenziamento di sé, accrescimento di sé, ma un divenire in sé altro da sé, un miglioramento, perfezionamento, potenziamento vitale, un divenire-animale (Deleuze) che è accesso alla pienezza della potenza del proprio corpo vivente. Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé. Il soggetto, in questo senso, si costituisce nell'allenamento, l'allenamento è il processo attraverso cui il soggetto costituisce continuamente se stesso al di là di sé: l'allenamento è una pratica di soggettivazione continua che produce un potenziamento vitale. Si è in lotta continua con se stessi per andare al di là di sé. Attraverso allenamento e ripetizione si arriva allo stile, forma incarnata e adatta alla propria singolarità, forma della propria forza e della propria vita, elevazione, intensità, godimento, gioia.
Questo body-building con cui si costruisce il proprio corpo, è anche un lavoro sulla vita ed è contemporaneamente un brain-building, data la neuroplasticità del cervello sulla cui materialità e sui cui processi di pensiero agiscono i movimenti del nostro corpo. Allenarsi è un processo di trasformazione radicale che coinvolge la totalità dell'essere umano, è un trasformarsi, elevarsi, perfezionarsi per essere migliori rispetto a ciò che si è, è una lotta contro la vita mediocre e una tensione verso l'eccellenza.



lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

mercoledì 31 maggio 2017

letture di maggio

Molto bello il romanzo di Salman Rushdie L'incantatrice di Firenze, in cui tra storia e favola si legano i destini dell'Occidente - la Firenze rinascimentale - e dell'Oriente - le splendide corti dell'Asia -, tra individui che non si contentano di essere ma sono intenti a diventare, donne immaginarie fatte reali dalla forza dell'immaginazione di chi le ama, artisti capaci di sfuggire alla realtà nelle loro opere, assedi alla bella città di Prato, uomini con la spada che quando incontrano uomini con il fucile sono uomini morti perché nell'era dell'archibugio non c'è più posto per il cavaliere in armatura. 

Opere prime sia per un autore che leggo con piacere ormai da anni, Murakami Haruki, con la recente riproposizione in un unico volume - Vento & Flipper - dei suoi due primi romanzi Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 - accompagnati dal racconto illustrato Gli assalti alle panetterie -, sia per un autore di recentissima scoperta, Michael Chabon, con I misteri di Pittsburgh, romanzo di iniziazione alla vita adulta in cui, come spesso avviene, è il caldo dell'estate a sciogliere vecchi legami e presunte certezze, a fondere orizzonti e identità, a trasformare e far sperimentare nuove forze e forme, nuovi incontri, desideri e concatenamenti.

Piccoli e interessanti saggi: quello di Carlo M. Cipolla Vele e cannoni, che mostra i presupposti tecnici alla base dell'aggressiva espansione europea per mare nell'età moderna; la filosofia di un non-colore tracciata da Alain Badiou ne Lo splendore del nero; le Aporie sul morire, sui limiti e sui passaggi di Jacques Derrida; il percorso di apprendistato in filosofia di Gilles Deleuze ricostruito da Michael Hardt.

Graphic novel di Mark Millar, Superior, e di Kathryn Immonen, Ti prego, rispondi, e le gialle tavole non esaltanti de Le cose così di Mattia Labadessa.

domenica 31 luglio 2016

letture di luglio

Come il precedente e come i seguenti, mese le cui letture - e riletture - girano fortemente intorno e vicino a Nietzsche: Sproni di Jacques DerridaDivenire molteplice di Gilles Deleuze, Nietzsche e l'eterno ritorno di Karl LöwithLa filosofia di Nietzsche di Eugen FinkCaratteri filosofici di Peter Sloterdijk, L'essenza della filosofia di Wilhelm Dilthey, Cultura e critica di Jurgen Habermas,  Filosofia contro Accademia di Fernando Savater, Krisis Pensiero negativo e razionalizzazione di Massimo CacciariIl doppio cervello di Nietzsche di Roberto Dionigi, Nietzsche e l'Aurora della misura di Benedetta Giovanola, L'inattuale, idea pedagogica di Giovanni Maria Bertin, Ermeneutica e genealogia di Salvatore Natoli, Lettere e note su Nietzsche di Paul Valéry.

Unici romanzi, La moglie perfetta di Roberto CostantiniI figli della mezzanotte di Salman Rushdie.

sabato 27 dicembre 2014

filosofia della crudeltà

Nella sua Filosofia della crudeltà Lucrezia Ercoli indaga le implicazioni etiche ed estetiche di questo enigma che è la crudeltà, cruda bestialità pre-civile, mostruoso e grave vizio, ma insieme anche sacra violenza purificatrice, desiderio e piacere che già da sempre appartiene all'umanità. L'opera di Escher Illusione con angeli e diavoli - o Limite del cerchio IV - rende visivamente questo concetto, rileva l'autrice nell'introduzione, per cui "la barriera tra la crudeltà e il suo contrario si fa permeabile e sfuma", il mondo è pieno di bene e di male e gli angeli possono diventare diavoli, e viceversa.
Il punto di partenza del saggio non può che essere il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, secondo il quale "tutto ciò che agisce è crudeltà" (Il teatro e la crudeltà) perché la crudeltà non è altro che la vita che supera ogni limite e si mette alla prova, è la legge che regola ogni creazione, inscritta nello statuto stesso della vita: "è l’esercizio della coscienza che conferisce a ogni atto della vita il colore del sangue perché 'è chiaro che la vita è sempre morte di qualcuno'. La crudeltà mette in luce, quindi, il necessario determinismo a cui è sottoposto ogni nostro atto di vita, che, per la sua decisione di esistere, genera morte". La crudeltà è il prezzo da pagare per svelare come la cultura possa divenire nient'altro che passività, consuetudine, pigrizia, stereotipo.
Figura di questa crudeltà è l'Eliogabalo dello stesso Artaud - 'leggenda nera' evocata anche da molta altra letteratura, poesia e arte figurativa: Verlaine, Wilde, D'Annunzio, Huysmann, Alma-Tadema -, i cui "comportamenti crudeli condannati dalla ratio diventano domande martellanti che mettono in discussione la consistenza granitica delle certezze". Egli non è né Dio né padrone ma soltanto se stesso, è sfida, tensione, energia crudele e luminosa, liberatrice ed emancipatrice. "Attraverso l'uso spregiudicato della crudeltà 'gratuita e immotivata' riesce a sfuggire, almeno temporaneamente, alla tirannia che cancella la sua personalità. Libera il proprio corpo e il proprio desiderio con un processo di differenziazione, carico di decisioni sanguinose e crudeli". In Eliogabalo la crudeltà è il riverbero di una ribellione faticosa e coraggiosa contro la legge naturale e la morale istituita. La crudeltà di Eliogabalo, che scioglie le pietrificazioni della vita, è la distruzione e ricomposizione del processo alchemico, è la ricerca di un corpo senza organi (Deleuze) che eluda la presunta fissità ed esclusività del reale, è vita acrobatica estrema e paradossale che fa di ogni attimo una questione di vita o di morte, è sfrontata lotta contro le convenzioni che apre alla possibilità ma non può lasciare illesi, è transvalutazione di tutti i valori.
E così si arriva a Nietzsche, a quel trattato sulla crudeltà che è la Geneaologia della morale, ma non solo. La crudeltà spietata e violenta è l'opera di salvifica demistificazione della ragione, è eroismo del pensiero che scava a fondo, decostruisce le false prospettive, è veglia lucida. E si arriva a Bataille, per il quale l'arte è esercizio di crudeltà che viola e tortura la falsa solidità e unità aprendo alla meraviglia e all'orrore, che "mette a morte le forme chiuse, mette tutto irrecuperabilmente 'in questione'. Consente di oltrepassare il confine tra la polis e la silva, tra la civiltà e la ferinità". 
La crudeltà sarebbe, quindi, un compito ineludibile di contrapposizione all'inerzia della vita pacifica, che è in realtà vita seduta, comune vigliaccheria quotidiana: "apre una tensione etica che rifugge dal dogmatismo degli stereotipi, che non pretende un redde rationem, ma lascia bruciare la carne". E l'arte da un'estetica crudele - dalla carne esposta nelle macellerie di Francis Bacon ai corpi disfatti di Ciprì e Maresco, dalle violenze insensate di Arancia meccanica alle mutilazioni crudeli delle vittime della fiction Dexter -, non respingendo il caos ma componendolo e trasformandolo, 'forsennando' (Derrida) il linguaggio formale della mera rappresentazione, "crea un inquietante quanto seducente caosmos che lascia aperto il senso duplice della crudeltà", realizzando uno 'shock' (Benjamin), un 'urto' (Heidegger), che come un proiettile rompe una corazza protettiva.

domenica 8 giugno 2014

abyss - letture di giugno (I)

Michael Price, giovane professore di filosofia antica, pensa la filosofia "come gara automobilistica su strada in cui devi farli saltare tutti fuori dai loro sedili" o, come scrivono Deleuze e Guattari, non "pensa alla filosofia come a una perpetua discussione, nei termini di una 'razionalità comunicativa', o di una 'conversazione democratica universale'. Niente è meno esatto. E quando critica un altro lo fa a partire da problemi e su un piano che non erano quelli dell'altro e che fondono gli antichi concetti come si può fondere un cannone per ricavarne nuove armi" (Che cos'è la filosofia?). Il filosofo protagonista di Abyss, il primo romanzo di Simone Regazzoni, guida una Chevrolet Camaro RS/SS 396 nera del '68 e più che al dialogo filosofico si dedica all'azione eroica: se nel 1986 la X-Man Kitty Pride si diceva che "è dura scrivere una tesi di filosofia etica e, contemporaneamente, salvare il mondo. Ma voglio provarci", nel 2014 Michael Price sembra, invece, riuscire a conciliare i due apparentemente opposti propositi, pubblicando un saggio sulle dottrine non scritte di Platone - accolto dagli accademici tanto male quanto La nascita della tragedia di Nietzsche dal mondo della filologia, e perciò certamente un ottimo testo - e, contemporaneamente, affrontando le complesse e nascoste trame di agenzie segrete statunitensi, gruppi terroristici neonazisti, guardiani che operano nell'ombra in zone quantomeno grigie. Trame che provano a tessere un nuovo inizio o a ordire un'apocalisse? E comunque come uno studioso di Platone si ritrova invischiato in una vicenda da film d'azione? 
Con un'arte della scrittura da sceneggiatore di serie tv, Regazzoni radicalizza quella commistione tra filosofia e cultura popolare che da anni porta avanti a livello di saggistica con la popfilosofia, e realizza un romanzo d'avventura  che è pura filosofia da spiaggia, un phil-thriller da godersi in pieno come una gara automobilistica, in cui si salterà sulle proprie sedie (o poltrone, o divani, o, meglio, sdraio) per l'azione esplosiva alla nitrocellulosa (fulmicotone), per la continua inventiva, per il puro divertimento.

giovedì 30 maggio 2013

il nuovo realismo è un populismo

Uno spettro si aggira per l'Italia. Che cos'è il Nuovo Realismo? No, non il fenomeno culturale e cine-letterario dell'Italia degli anni Quaranta e Cinquanta, quello era il Neorealismo. Il Nuovo Realismo - o, meglio, New Realism, che fa più fico - è il risultato delle "fantasticherie di un pensatore reazionario" (Donatella Di Cesare) e fondamentalista quale Maurizio Ferraris, la fiction e invenzione pseudo-filosofica e di consumo, sotto un'etichetta e un brand ammiccanti e commerciali, di chi si auto-proclama "paladino dei fatti, degli oggetti, del mondo, della realtà", di una assoluta verità oggettivamente vera. Mischiando buon senso e risentimento anti-filosofico, il New Realism inviterebbe "a disfarsi di secoli di riflessioni, a buttar via libri e saggi, che prenderebbero tempo ed energie, insomma a semplificarsi l'esistenza", promettendo e proponendo in cambio poche pagine e pochi pensieri rassicuranti, non disorientanti, che non spingeranno il lettore a pensare.
"Bentornata ingenuità!" (Fabio Milazzo) più che realtà, sarebbe il caso di dire, vista l'idea proposta da Ferraris, la cui grande novità non sarebbe altro che la vecchia, pre-moderna, medievale, tomistica concezione della verità come corrispondenza, come adeguamento dell'intelletto alle cose, per cui le teorie sarebbero vere se rispecchiano una realtà e una natura che esiste indipendentemente dal soggetto che la osserva e ne fa esperienza. Negando ogni idea complessa di realtà, questo "ingenuo antropomorfismo" fa sì che "il pensiero risulti assolutamente inutile, privo di valore", ed esige in qualche modo il sacrificio dell'intelletto. 
Il "ritornare ad una forma di filosofia che non ha più corso da almeno tre secoli a questa parte" (Corrado Ocone) mostra un Ferraris interessato "più che alla 'verità', all'affermazione". La conferma su "chi è il nuovo realista" (Laura Cervellione) ce la dà il suo antidemocratico atteggiamento di sentirsi benedetto e di "mostrarsi come la Ragione" - fatto "certamente più facile di dimostrare di avere ragione" -, la sua fallace e illogica "strategia argomentativa che mira a squalificare" (Lorenzo Magnani) chi non sottoscrive la posizione del realismo ingenuo, riducendolo a un Hitler, affermando che così "allora vinceranno sempre i Berlusconi, i Bush e magari pure i negazionisti avranno sempre ragione".
Decostruendo questo New Realism, esso appare più che altro e nient'altro che "un fenomeno filosofico-mediatico sapientemente incorniciato in una potente narrazione editoriale tutta italiana alla disperata ricerca di visibilità" (Simone Regazzoni), pubblicizzato in maniera virale per vendere una merce che, oltre la confezione, non ha nulla di meglio da dire se non "il fuoco brucia, il sole acceca, l'acqua bagna, addirittura i muri oppongono resistenza se tenti di passarci attraverso".
Il nuovo realismo è un populismo secondo i sopracitati autori dell'omonimo saggio, dunque, perché non è altro che una banalizzazione e volgarizzazione del pensiero filosofico il cui obiettivo è riscuotere successo e consenso tra il pubblico. Non si tratta affatto di una non condannabile - anzi! - popolarizzazione della filosofia, di una resa democratica del diritto alla filosofia, ma di una riduzione e degradazione del pensiero al mercato, al conservatorismo, al mite buon senso ingenuo e comune, rinunciando a "creare concetti che siano aeroliti piuttosto che merci" (Gilles Deleuze, Felix Guattari, Che cos'è la filosofia?), a "stabilire nuove verità, con coraggio e perseveranza" (Lorenzo Magnani).

lunedì 2 gennaio 2012

la piega

L'anima nel Barocco intrattiene con il corpo un rapporto complesso: sempre inseparabile dal corpo, trova in quest'ultimo un'animalità che la stordisce, che la impastoia nei ripiegamenti della materia, ma pure un'umanità organica o cerebrale che le permette di innalzarsi, e la farà salire su tutt'altre pieghe.

mercoledì 29 giugno 2011

deviseificazione

«E adesso forza, facce, fatevi avanti! No, non vi dico addio, estranee sconosciute facciate dei tizi estranei e sconosciuti che mi leggeranno, anzi, vi do il benvenuto. Salve graziose ghirlande di parti del corpo, tutto comincia adesso: fatevi avanti, venite a me, rimpastatemi pure, fabbricatemi una faccia nuova, perché debba di nuovo fuggirvi e rifugiarmi in altre persone e correre correre correre attraverso tutta l'umanità».
(Witold Gombrowicz, Ferdydurke)

Il protagonista del romanzo di Gombrowicz accetta il tentativo di sfuggire al viso, sembrando in ciò seguire il suggerimento filosofico di Deleuze e Guattari sulla "deviseificazione": «essa libera per così dire teste cercanti che disfano gli strati al loro passaggio, forano i muri di significanza e balzano fuori dai buchi di soggettività, abbattono gli alberi per fare posto a veri e propri rizomi, e guidano i flussi verso linee di deterritorializzazione positiva o di fuga creatrice» (Gilles Deleuze, Félix Guattari, Millepiani).

witkiewiczE Stanislaw Ignacy Witkiewicz (aka Witkacy) - pittore, commediografo, filosofo, critico letterario, romanziere e amico di Gombrowicz - sembra mettere in pratica, con La Ditta dei ritratti,  proprio l'idea che
la personalità sia al limite afferrabile solo in molteplici sequenze, in molti ruoli-maschere, eseguendo infatti una serie di ritratti di uno stesso soggetto e in una varietà di stili - da quelli più “rileccati”, vicini al kitsch, fino a un groviglio di linee quasi astratto, e alcuni realizzati con l’ausilio di narcotici di qualità superiore (alcol, cocaina, caffeina, etere, tè, mescalina) e dal prezzo inestimabile.
Così, nell’anarchia totale di un disegno ribelle che, pur senza rifiutare il ritratto, gli dimostra ostentatamente la sua disistima, nel moltiplicarsi all’infinito della forma che confonde l’immagine e fa aumentare la tensione, il disegno raggiunge il limite oltre cui appare il “mistero”.


mercoledì 27 aprile 2011

amor fati e la lotta degli uomini liberi

«”Ascoltami bene, Harry. Si dà il caso che tu abbia molte qualità che Salazar Serpeverde apprezzava nei suoi alunni, che selezionava accuratamente. E tuttavia, il Cappello Parlante ti ha assegnato al Grifondoro. Tu sai perché. Pensaci”. “Lo ha fatto” disse Harry “perché gli ho chiesto io di non andare fra i Serpeverde”. “Appunto” disse Silente raggiante. “Il che ti rende assai diverso da Tom Riddle. Sono le scelte che facciamo, Harry, che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità» (Harry Poter e la camera dei segreti). Harry Potter è diverso da Voldemort, come da Salazar, non per le sue caratteristiche ma perché ha fatto scelte diverse a partire da cui, solo, quelle caratteristiche assumono forma e valore. È stato Jean-Paul Sartre a esprimere nel modo più radicale quest’idea per cui l’uomo è ciò che, in assoluta libertà, sceglie di essere: «Tu sei libero, scegli, cioè inventa. Nessuna morale generale ti può indicare ciò che è da fare» (L’esistenzialismo è un umanismo).
Il valore etico della libera scelta non consiste nell’esercizio di una libertà astratta e assoluta, ma nella pratica di una libertà sempre inscritta in un contesto, in una ben precisa situazione in cui si tratta di rispondere a ciò che accade. È proprio dove l’ombra di un destino già segnato sembra allungarsi sulla serie delle libere scelte, che Harry comprende il senso profondo della sua libertà di fronte a ciò che accade: «Finalmente capiva quello che Silente aveva cercato di dirgli. Era, si disse, la differenza fra l’essere trascinato nell’arena ad affrontare una battaglia mortale e scendere nell’arena a testa alta. Forse qualcuno avrebbe detto che non era una gran scelta, ma Silente sapeva – e lo so anch’io, pensò Harry con uno slancio di feroce orgoglio, e lo sapevano i miei genitori – che c’era tutta la differenza del mondo» (Harry Potter e il principe mezzosangue). Che differenza c’è tra essere costretti ad affrontare la battaglia mortale e scegliere di affrontarla? È la differenza tra essere o non essere degni di ciò che accade, tra il sì di rassegnazione di fronte a ciò che accade, all’evento, e il sì di affermazione. È Deleuze ad aver descritto, nel modo migliore, questa forma di libertà in cui un certo Amor fati (“amore per il fato, per il destino”) alla Nietzsche come sì all’evento fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi: «Non essere indegni di ciò che accade. Cosa vuol dire allora volere l’evento? Vuol dire forse accettare la guerra quando capita, la ferita e la morte quando capitano? È molto probabile che la rassegnazione sia ancora una figura del risentimento. Se volere l’evento è innanzitutto liberarne l’eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti. In questo senso l’Amor fati fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi» (Logica del senso). La libertà dell’atto etico è dunque un sì all’evento come esposizione incondizionata a ciò che accade, come una passività senza rassegnazione. Una passività che ha la forza di controeffettuare ciò che arriva. Ed è qui che il ragazzo che reca sulla fronte la cicatrice a forma di fulmine sembra incrociare i passi dell’Übermensch, dell’oltreuomo di Nietzsche.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

lunedì 4 aprile 2011

sopravvivere: lutto e gravidanza

L’isola deserta affascina e spaventa, al contempo, perché non è solo perdita e morte, ma porta in sé il segreto di una ri-creazione, di una nuova nascita attraverso la morte di cui la catastrofe del volo 815 in Lost è il sigillo: «Non c’è una seconda nascita perché c’è stata una catastrofe; semmai l’opposto: c’è una catastrofe successiva all’origine poiché ci deve essere, dopo l’origine, una seconda nascita», dice Deleuze ne L’isola deserta e altri scritti.
L’isola è il luogo per eccellenza della sopravvivenza. Ma, come in Lost Locke ricorda a Jack, «sopravvivere è solo un concetto relativo». Il luogo della sopravvivenza non è altro che il luogo della vita. «La vita è sopravvivenza», come ha scritto Derrida (ultima intervista rilasciata prima di morire e intitolata Apprendre à vivre, enfin. Al tema della sopravvivenza il filosofo ha dedicato un saggio, poi raccolto in Paraggi, intitolato Sopra-vivere). «Noi siamo strutturalmente dei sopravvissuti». Perché ogni vivente, fin dalla nascita, è già abitato dalla possibilità incancellabile della morte – da questa catastrofe a cui sarà già sopravvissuto, e che lo accompagna mentre lo attende. E dunque vivere significa già da sempre sopravvivere, rinascere a questa morte che, prima ancora di essere effettiva, sarà già stata qui. Per questo lutto e gravidanza si intrecciano indissolubilmente.
Nell’essenziale rapporto tra vita e morte a colpire di più non è tanto l’elemento ciclico, bensì l’intreccio e la compenetrazione dei due aspetti, e l’incredibile confondersi di lutto e gravidanza. Ma in che senso dovrebbero essere associati? Non sono forse uno l’opposto dell’altro? Solo in apparenza. Perché mettere al mondo significa già destinare alla morte – cominciare a far morire. Non si dona la vita senza donare, al contempo, la morte. La nascita è la morte. Un’interessante analisi di questa singolare condizione di viventi-mortali ci viene dalla lettura che Derrida ha dato di un verso del poeta di lingua tedesca Paul Celan, che recita: Die Welt ist fort, ich muss dich tragen (“Il mondo è partito e io ti devo portare”). Derrida commenta: «Il mondo è partito, il mondo ci ha abbandonati, il mondo non c’è più, il mondo è distante, il mondo è perduto». Il verbo portare con cui si chiude il verso traduce il tedesco tragen che significa, al contempo, “portare il lutto” e “portare un bambino in grembo”. «Tragen» afferma Derrida «si dice correntemente dell’esperienza che consiste nel portare un bambino che ancora deve nascere. Ma, d’altra parte, se tragen parla il linguaggio della nascita, se deve indirizzarsi a un vivente presente o a-venire, può anche indirizzarsi al morto, al sopravvissuto o al loro spettro, in un’esperienza che consiste nel portare l’altro in sé, come si porta il lutto». Ora, in entrambe queste esperienze, il mondo è perduto, non c’è più, se n’è andato nella misura in cui l’io resta solo con l’altro: l’altro a venire e/o l’altro che non c’è più. L’altro che non c’è più come altro a-venire nella forma di un ritorno spettrale. E l’altro a-venire come altro che non c’è già più, la cui vita porta già in sé la morte a-venire.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

mercoledì 30 marzo 2011

crossover: per una filosofia popular

More about Pop filosofia
Gioco mentale in forma di parole. Pensiero in atto che richiede forza, creatività e il coraggio di sperimentare, in assoluta libertà, l’inedito. Esiste un atletismo del pensiero. E la filosofia ne è forse l’espressione più pura e pericolosa. Perché estrema. «Nessuno disconosce la pericolosità degli esercizi fisici estremi, ma anche il pensiero è un esercizio estremo», scrive Gilles Deleuze (Pourparler). Stile, pensiero, vigore. Nulla è meno rassicurante di questi giochi o esercizi estremi in forma di parole.
È tempo di portare la battaglia filosofica nella popular culture, usando le armi migliori a disposizione della filosofia, dal pensiero critico alla decostruzione. Che la filosofia stessa si trasformi, così, in filosofia popolare, o pop filosofia, piuttosto che un rischio da evitare, è un obiettivo strategico da perseguire.
La pop filosofia è anche un ripensamento del momento essoterico della filosofia e una nuova forma di attivismo culturale e filosofico: è critica e decostruzione della cultura pop, ma anche capacità di contaminarsi con la cultura pop e di presentarsi essa stessa come opera di cultura pop. La pop filosofia è una filosofia mutante, è crossover in quanto incrocio e contaminazione di filosofia e cultura pop, perché mescola stili filosofici differenti e arriva anche a un pubblico che di norma non legge filosofia.
Pop filosofia è intesa come avanguardia filosofica insieme sperimentale e popolare, come ripensamento e trasformazione pop dell’idea deleuziana di macchina da guerra: oggetti vari della cultura di massa e pezzi di filosofia sono presi, decostruiti e riassemblati per dar vita a una macchina da guerra.

(da Simone Regazzoni, Prologo a Pop Filosofia)

martedì 29 marzo 2011

che cos'è un'isola?

Nel corso del suo seminario (2002) dedicato alla lettura incrociata di Robinson Crusoe e Martin Heidegger, Jacques Derrida si chiede: «Che cos’è un isola? Non c’è mondo, ci sono solo isole». Come se un pensiero dell’isola ci portasse a ripensare il mondo, a mettere in discussione l’idea che c’è un mondo, là fuori: un mondo unico, vero, stabile, di cui facciamo esperienza.
In Lost l’isola è essa stessa un personaggio e ti sta sempre in agguato dietro le spalle. Può anche essere vista come una metafora di Dio – o, più radicalmente, come Dio essa stessa, sulla scia dell’idea elaborata dalla filosofia di Spinoza secondo cui Dio e Natura si identificano, e ogni cosa esistente non è altro che un modo, una manifestazione di Dio. Solo alla fine scopriremo che cosa o chi è, in verità, l’isola. Uno spazio simile al Lost World di Jurassic Park o all’isola incantata di Prospero nella Tempesta di Shakespeare. Una nuova Atlantide. Un artefatto tecnologico di origine umana o extraterrestre. Il terreno per un insolito gioco di ruolo. Un Valis (acronimo di Vaste Active Living Intelligent System – Vasto Sistema di Intelligenza Viva e Attiva), come quello creato da Philip K. Dick. Una forma singolarissima di essere vivente simile all’isola di Krakoa che compare per la prima volta nell’universo della Marvel Comics in Giant-Size X-Men #1.
Ma è come se ogni domanda incontrata nell’orbita di Lost fosse doppia. Come se portasse con sé l’enigma di una questione filosofica più essenziale che va al di là delle risposte che la serie stessa, con il suo procedere, dà.
L’isola si gioca attorno a un doppio movimento: separazione e origine. Separazione dal continente, per le isole continentali. Origine dal fondo del mare, per le isole oceaniche. «Le isole continentali» scrive Deleuze «sono isole accidentali, derivate: sono separate da un continente, nate da una disarticolazione, da un’erosione, da una frattura, sopravvivono all’inabissamento di ciò che le tratteneva. Le isole oceaniche sono delle isole originarie, essenziali: alcune emergono lentamente, altre invece spariscono e poi riappaiono» (L’isola deserta e altri scritti). Lo sparire è costitutivo delle isole quanto il loro apparire, è parte della loro instabile natura, come mostra bene Jean-Luc Nancy: «Di quando in quando un’altra specie di onda si immobilizza in superficie, ed è un’isola scaturita da un altro sollevamento, da un altro corrugamento delle profondità. Di quando in quando, allo stesso modo, un’isola sparisce sotto il mare, ripresa da un altro movimento del fondo» (La nascita dei seni – l’isola viene posta in relazione, da Nancy, con il seno, a sua volta in relazione con l’essere, visto che il francese sein, “seno”, è omografo del tedesco Sein, “Essere”. Poche righe dopo, Nancy evoca queste parole di Lacan tratte dal Seminario VIII: «L’estremità del seno è anch’essa in una posizione di isolamento su uno sfondo, ed è perciò in una posizione di esclusione rispetto a quel rapporto profondo con la madre che è quello del nutrimento. Pensate a quelle isole di cui vedete la pianta sulle carte marittime: non è rappresentato in nessun modo ciò che c’è sull’isola, ma solamente il contorno. Ebbene, è la stessa cosa per gli oggetti del desiderio in tutta la loro generalità»).
Il doppio movimento che anima le isole contamina anche i soggetti che alle isole si rapportano, nella forma di una separazione dal mondo e di un nuovo inizio. «Lo slancio che spinge l’uomo verso le isole riprende il doppio movimento che produce le isole stesse. Sognare le isole, non importa se con angoscia o con gioia, significa sognare di separarsi, di essere già separati, lontano dai continenti, di essere soli e perduti – ovvero significa sognare di ripartire da zero, di ricreare, di ricominciare», precisa Deleuze.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

martedì 22 marzo 2011

tutti gli uomini sono filosofi

Lo spettro della filosofia si aggira per l’isola di Lost e si presenta in forma di nomi propri. Che fare con questi nomi di filosofi? Nulla. Resistere alla tentazione pedante di cercare nessi e collegamenti con i protagonisti della storia della filosofia. Chiunque può portare il nome di un filosofo. Perché ogni donna e ogni uomo è portatore di una filosofia. Ogni vivente umano è, a suo modo, filosofo. La singolare normalità con cui i nomi di filosofi circolano per l’isola indica in primo luogo questo: che la filosofia non è appannaggio dei filosofi di professione, non è sinonimo di accademia e professionisti del pensiero.
Nel corso delle sue Conversazioni con Claire Parnet, Deleuze è molto duro con la storia della filosofia: «La storia della filosofia è sempre stata l’agente del potere nella filosofia, e anche nel pensiero. Essa ha giocato il ruolo repressivo: come potete credere di pensare senza aver letto Platone, Cartesio, Kant e Heidegger, e neanche il libro di questo o quell’autore su di loro?»
Nei Quaderni del carcere (Quaderno 11) Antonio Gramsci scrive: «Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre piuttosto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea”. Tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo».
In Lost le vicende di ogni personaggio sono la storia di una visione del mondo che si confronta e si intreccia con le altre. Lost è una polifonia di visioni del mondo che ruotano intorno all’enigma della verità come enigma dell’isola.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost

 

sabato 12 marzo 2011

dr. house, ethical division (1di2)

Il Dr. House non è, semplicemente, un personaggio con caratteristiche d’eccezione attorno a cui è stata costruita una serie televisiva, bensì, in primo luogo, una figura estetica d’eccezione. C’è una differenza tra personaggio e figura estetica, benché entrambi i concetti appartengano al campo della fiction. Con il concetto di figura estetica Deleuze e Guattari definiscono le grandi figure della letteratura capaci di suscitare effetti che eccedono le affezioni e le percezioni ordinarie. A proposito del capitano Achab, Deleuze e Guattari parlano, usando una formula melvilliana, di «un faro che strappa all’ombra un universo nascosto» (Che cos’è la filosofia?). non è forse questo l’effetto spaesante e perturbante che suscita House nello spettatore, quasi la sua figura ci mettesse di fronte a qualcosa che la rassicurante normalità del mondo oscura e occulta? Inoltre, la figura di House è stata plasmata su un modello letterario, quello di Sherlock Holmes, e, cosa non meno importante, lo stesso House si paragona, e viene paragonato, proprio al capitano Achab, monomaniaco ossessionato anch’egli da una sola cosa. C’è una piega letteraria che attraversa la figura di House, qualcosa che lo differenzia da altri personaggi filmici e costituisce la speciale stoffa della sua eccezionalità. Accade così che gli innumerevoli suoi difetti e vizi si trasfigurino, e diventino i tratti peculiari dell’individuo eccezionale al di là del bene e del male, cui si concede di non rispettare nessuna regola.
La figura estetica di House, nella sua critica effettiva e radicale, de costruttiva della morale, è a suo modo una figura etica. Cosa che trova un suo preliminare e immediato riscontro nel sentimento di ammirazione che l’agire di House suscita nello spettatore, benché contrasti con il senso morale comune. Per quanto possa sembrare paradossale, sottilmente perverso o platealmente immorale, House è la figura di un’etica che elude i paradigmi classici dell’etica e rivela interessanti affinità, da un lato, con la figura del Singolo che Kierkegaard contrappone all’eroe quale figura etica e, dall’altro, con le teorie elaborate da alcuni filosofi contemporanei, in particolare da Jacques Derrida e Alain Badiou (L’etica. Saggio sulla coscienza del Male), che, pur nella loro diversità, mettono in crisi l’idea che il comportamento etico debba essere costituito da atti e decisioni subordinati a una regola universale e al sapere. Il comportamento dell’eroe, anche quando disobbedisce a regole o leggi, è un comportamento etico, perché l’eroe disobbedisce a leggi ingiuste, quelle che non garantiscono il bene universale ma sanciscono privilegi, producono disuguaglianze o generano oppressione. House, invece, non trasgredisce le regole quando le ritiene ingiuste, piuttosto non ne tiene conto: è un singolo che si pone al di là delle regole generali per rapportarsi, senza la mediazione di tali regole, a un’altra singolarità assoluta: il Singolo sospende l’etica e le sue regole perché il suo fine è mettersi in rapporto con l’altro assoluto al di là dell’universale e senza mediazioni. Per questo, dice Kierkegaard, l’occhio dello spettatore riposa tranquillo sull’eroe, mentre il Singolo suscita ammirazione e spaventa. Il Singolo fuoriesce dalla sfera dell’etica come generale, è un solitario che non può condividere con nessuno le proprie scelte. «Umanamente parlando, egli è folle e non può farsi comprendere da nessuno» (Timore e tremore). Il Singolo risponde a una sola cosa: all’ingiunzione di un dovere assoluto come dovere che lo lega all’altro assoluto in quanto altro nella sua singolarità. Che cosa chiede questo dovere assoluto? In primo luogo di sacrificare l’etica. Commentando il testo di Kierkegaard, Derrida ha affermato che l’assoluto di questo dovere presuppone che ogni dovere etico, ogni responsabilità e ogni legge vengano ricusati, traditi, trascesi. Questo dovere si pone dunque, paradossalmente, al di là del dovere e ingiunge di non rispettare il dovere etico. Ecco la sua radicalità e il suo paradosso: «È un dovere non rispettare, per dovere, il dovere etico» (Donare la morte). Questo paradossale dovere ingiunge di non cedere alla tentazione del dovere etico.

(da Simone Regazzoni - Blitris 1 -, L'iper-etica di House, in La filosofia del Dr. House)

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