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lunedì 7 aprile 2025

essere se stessi, essere per gli altri (filosofia di evangelion 1di2)

Di Fausto Lammoglia avevo già letto e apprezzato Filosofia di L'attacco dei giganti, un saggio popfilosofico che non è una lezione di filosofia in cui si studiano i grandi filosofi attraverso un prodotto della cultura pop, ma un dialogo con un prodotto di pop culture per fare insieme a esso e al lettore filosofia. Dello stesso tenore e valore si rivela anche questo appena uscito Filosofia di Neon Genesis Evangelion, che non spiega la filosofia attraverso la serie televisiva anime sceneggiata e diretta da Hideaki Anno e prodotta dallo studio Gainax - capolavoro denso e terribile quanto Essere e tempo di Martin Heidegger -, piuttosto fa attraversare al suo lettore domande profonde da abitare.

Prima domanda: essere se stessi. Partendo dall'imprescindibilità del corpo: Shinji e tutti i piloti non guidano gli Eva da remoto, ma entrano in simbiosi con la loro unità provando dolore fisico tanto da passare più tempo in ospedale che a bordo, e sotto la corazza delle unità Evangelion non ci sono cavi ma carne e sangue tanto che la loro vera natura è la loro animalità e fisicità. Shinji dovrà imparare da e con il suo corpo, riconoscere ciò che sente e prova, per potersi impossessare della sua persona, per imparare a essere se stesso. Rivelatore il fatto che le entry plug siano posizionate nella nuca e che il quinto chakra che connette anima e corpo sia proprio quello del collo (come avviene, del resto, anche in Attacco dei giganti, noto è il debito di stima che Isayama ha con l'opera di Anno).
Per essere se stessi è anche però necessario il riconoscimento attraverso l'altro - come ha chiaramente spiegato Hegel -, e infatti i piloti degli Eva cercano continuamente di essere riconosciuti come portatori di valore. Shinji, pur volendo continuamente fuggire, affronta le prove quali tentativi di recuperare un significato esistenziale agli occhi degli altri - quasi che implori preoccupatevi per me, prestatemi attenzione, siate gentili con me, abbiate cura di me. Asuka cerca di ottenere il suo posto nel mondo brillando in ciò che fa (a scuola, come pilota) e cercando di imporsi come donna (anche se così perde in partenza la sua possibilità di essere riconosciuta come persona poiché alla fine presenta se stessa come oggetto). 

L'incontro con l'altro diventa esperienza di limite e confronto, di revisione e ricostruzione della propria identità. E così la seconda domanda è: essere per gli altri. Come insegna il dilemma del porcospino presentato da Schopenhauer, è molto complesso trovare la distanza adeguata per poter essere se stessi insieme agli altri. La soluzione più semplice per essere riconosciuti sarebbe quella di assecondare l'altro, ma il rischio è così quello di non trovare una propria identità autonoma. Identificando se stessi con le aspettative altrui e sociali, con comportamenti culturalmente codificati, con funzioni strumentali ed etichette lavorative o legate al genere, si finisce per convogliare le energie vitali nella performatività, in modo da aderire quanto più perfettamente ad un ruolo, e ciò porta l'individuo pericolosamente vicino a esplodere o implodere, soverchiato dalla pressione sociale come spiega Marcuse. Si semplifica la vita, si rinuncia a scegliere per evitare le responsabilità che ne conseguono, ma si rimane ingabbiati in un'esistenza inautentica.
I piloti delle unità Eva fanno tutto ciò che fanno per essere riconosciuti e, di conseguenza, per riconoscersi. Convinti di non aver valore di per sé, i piloti trovano un loro significato nelle etichette che hanno ricevuto: l'Eva, la loro funzione, è tutto ciò che hanno, ossia tutto ciò che sono. Combattono per mettersi in mostra, per eccellere, per poter essere lodati, riducendo il loro essere alla loro funzione - ad eccezione di Toji che mostra invece una dimensione relazionale dell'esistenza e non prestazionale. Ma ridursi alla propria performatività, al bisogno di apparire e soddisfare una richiesta proveniente da altri, dissolve la possibilità di essere per sé, come spiega Sennett.
In fondo è tutta questione di distanze. Il cammino di Shinji è il tentativo di trovare un equilibrio tra l'isolamento e la dissoluzione negli altri; l'equilibrio necessario a non ferirsi senza per questo rimanere solo.

lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

sabato 19 marzo 2016

filosofia dell'umorismo

Qual è il rapporto tra ridere e filosofare? La storia che Lucrezia Ercoli percorre e ricostruisce nel suo Filosofia dell'umorismo mostra come l'opposizione tra serio e comico non sia altro che l'equivalente di altre contrapposizioni sedimentate nella cultura ufficiale, così che l'umorismo sembra destinato a riecheggiare fuori dalle mura della cultura rappresentando come un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo. Un ospite inquietante, cui spesso è toccato subire il disinteresse teorico e la condanna morale. Così che sull'umorismo, dote in effetti piuttosto rara tra gli esseri umani, sono scivolati anche i più grandi pensatori che "sono riusciti a definire il pensiero, l'essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende dalle scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime" (Umberto Eco).
Dalla serietà, sacralità e potenza ma anche violenza e aggressività che il mito classico riconosce al riso, al riso, nella filosofia antica, di Democrito - impietoso e anche crudele, non è quello della innocente spensieratezza ma quello distaccato e privo di compassione del sapiente che sa - e di Diogene - cinico, blasfemo, osceno, scandaloso e distruttore, dissacra ogni veneranda e terribile autorità; dalla distinzione operata da Aristotele tra un appropriato buon umore, una giudiziosa arguzia che non è né buffoneria né rusticità, e lo stigmatizzabile ridicolo che va tenuto sotto controllo (riconoscendogli così, però, il potere di trasformarsi in un grimaldello che porti alla luce un fondo indomabile che pur giace nel cuore dell'umano), all'ambiguità del riso carnascialesco che ha insieme un ruolo di liberazione ed emancipazione sociale ed esistenziale e anche uno di conservazione di quell'ordine che decostruisce ma di cui esorcizza la dissoluzione definitiva; dall'umorismo che per Baudelaire rappresenta i confini incerti dell'umano, una zona di confine tra la grandezza infinita del divino e l'infinita miseria della bestia, all'arguzia che per Schopenhauer è il godimento di scoprire l'insufficienza della ragione, il piacere della sua sconfitta, che mostra come l'infinita delicatezza delle sfumature dell'esperienza non si adatti alla vita astratta dell'intelletto; dall'umorismo di Jean Paul, che è una filosofia folle e forsennata dallo spirito poetico e libero, a  quello di Pirandello, che riflette sulle crudeli leggi sociali che imprigionano il fluire vitale in una serie infinita di forme fisse e maschere; dalla funzione sociale, di risanamento di una contraddizione e castigo di un comportamento, che ha il riso per Bergson, all'umorismo che per Ritter, quale profonda critica della ragione e della sua pretesa di limitare tramite i propri concetti finiti la forza dell'infinita pienezza della vita, è filosofia; dal riso con cui Nietzsche risponde alla morale e alla metafisica, danzando con lievità al di là di esse, a quello con cui Bataille si  affranca da ogni verità, distrugge ogni trascendenza, decostruisce ogni identità per aprirsi a un agire veramente libero.
Questa storia dell'umorismo ci insegna che è necessario ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità; che "il ridente altro non è che il maieuta di una diversa società possibile" (Umberto Eco); che umorismo e filosofia hanno lo stesso scopo di gettare un'ombra di diffidenza sulle ovvietà del senso comune, sulle premesse ideologiche, sui pregiudizi culturali. Ridere è filosofare.

domenica 13 aprile 2014

sui fantasmi - letture di aprile (I)

Scritto prendendo le mosse dal saggio kantiano Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica - che a sua volta parte da una polemica con lo scienziato e visionario svedese Emanuel Swedenborg per arrivare ad affermare che è ai sognatori della sensazione come lui che sono simili i metafisici, sognatori della ragione -, il Saggio sulla visione degli spiriti di Arthur Schopenhauer giunge a conclusioni assai diverse rispetto a quelle di Kant. Vedendo i singoli individui come la manifestazione parziale, nello spazio e nel tempo e quindi nel mondo visibile dei fenomeni, di un'unica realtà unitaria e universale (la volontà) dall'invisibile essenza, per la filosofia di Schopenhauer non è affatto impensabile la comunicazione tra gli uomini - sia da viventi nell'azione a distanza, sia da defunti apparendo ai viventi - attraverso tale comune essenza. L'apparizione degli spiriti, la cui presenza si manifesta in modo completamente diverso da quella di un corpo, non agendo né sulla retina né sul timpano, è attribuibile a uno stimolo proveniente non dalla percezione sensibile ma da tutt'altra parte, ovvero dall'interno, dall'organismo stesso: dipende dall'intervento anche durante la veglia dell'organo del sogno, che mette in comunicazione il sognante non con la realtà esterna ma con il proprio interno, con il vasto e infinito mare inconscio della volontà.

La Conferenza sui fantasmi è il discorso inaugurale tenuto da Henri Bergson nel 1911 presso la Società di Ricerca Psichica, associazione fondata nel 1882 per occuparsi di occultismo e spiritismo, per investigare con metodi rigorosamente scientifici l'insieme dei fenomeni paranormali. Per il filosofo francese quelli che vengono definiti fenomeni psichici sono una conferma dell'esistenza della durata reale (concezione temporale che egli distingue dal tempo meccanico della scienza) e del verificarsi attraverso di essa di contatti diretti tra le coscienze, di intersezioni di due coscienze inestese al di là delle barriere spaziali: telepatia, casi di pre-morte (facoltà di ripercorrere fulmineamente la propria vita nell'istante in cui si sta per perderla, in una visione panoramica della totalità del proprio passato), chiaroveggenza (perché la dimensione temporale assoluta della durata reale comprende in sé passato e futuro), fantasmi, sono l'attestazione dell'atto estremo di liberazione della coscienza dal vincolo fisico del cervello, del suo traboccare dall'organismo slegandosi dal corpo.

martedì 8 maggio 2012

e se nietzsche ti vedesse adesso?

Pensavo che siccome mia sorella era così carina e autoritaria avrebbe fatto una vita favolosa. Ma era troppo fredda e troppo religiosa. Diceva che il Cristo sarebbe stato il suo unico sposo. Roba da suore, sicuro. Non avrebbe potuto pensare cose simili senza un'influenza esterna. Venne fuori dalla camera da letto.
Dissi: - Come sta Geova stasera? Che cosa ne pensa, Lui, della teoria dei quanti? La prossima volta che ti vedi con Jahvè digli che avrei qualche domandina da fargli. Oh Signore Santissimo Geova, guarda la tua timoratissima adorante ai tuoi piedi, sta blaterando il suo stupido vaniloquio. Oh Gesù, ella è santa. Cristolino zomparello, ella ti è consacrata. Oh Spirito Santo, oh Triplice Ego santamente infuso, facci uscire dalla Depressione. Conserva le nostre riserve auree. Colpisci la Francia ma, per l'amor di Dio, fa' prosperare noialtri! Oh Geova, nella tua infinita mutevolezza vedi un po' di cacciare qualche soldino per la famiglia Bandini.
Mia madre disse: - Vergognati, Arturo. Vergogna.
Salii sul divano e urlai: - Io rigetto l'ipotesi Dio! Basta con la decadenza di questo cristianesimo fraudolento! La religione è l'oppio dei popoli! Tutto ciò che siamo o che speriamo di essere lo dobbiamo al demonio e ai suoi pomi proibiti!
Mia madre cominciò a seguirmi con la scopa, minacciandomi con la saggina sulla faccia. Spinsi la scopa da parte e saltai sul pavimento. Quindi mi tolsi la camicia e rimasi nudo dalla cintola in su. Piegai il collo verso di lei.
- Sfogate la vostra intolleranza, - dissi. - Perseguitatemi! Mettetemi su un letto di tortura! Esprimete il vostro cristianesimo! Fate che la Chiesa Militante mostri la sua anima sanguinaria! Mandatemi sulla forca! Infilate ferri incandescenti nei miei occhi. Bruciatemi sul rogo, cani cristiani!
Girai la schiena e andai alla finestra.
- Cani cristiani, - dissi. - Sciacalli, donnole, puzzole, asini.
- Sei pazzo, - disse.
- Non chiamatemi pazzo, - dissi. - Mezzesuore nevrotiche, frustrate, inibite, sciocche, bavose!
Andarono a letto. A me il divano-letto. Quando la porta fu chiusa dietro di loro tirai fuori le riviste e le ammucchiai sul letto. Ero contento di poter ammirare le ragazze alla luce in una stanza grande. Era molto meglio di quello stanzino puzzolente. Parlai con loro per circa un'ora, con Elaine, con Rosa, e alla fine un incontro di gruppo, con tutte loro radunate intorno a me. Ma dopo un po' ne fui tremendamente stanco, perché cominciai a sentirmi sempre più idiota. Tutto era diventato assai odioso e pensai: "Ma guardati! Eccoti qui seduto a parlare con un branco di prostitute. Un bel superuomo sei diventato! E se Nietzsche ti vedesse adesso? E Schopenhauer, che ne direbbe? E Spengler! Oh, Spengler ruggirebbe! Pazzo, idiota; porco, bestia, lurido sorcio spregevole, piccolo porco disgustoso!" D'un tratto feci un fascio di quelle figure e le stracciai, le feci a pezzi e le gettai nella tazza del cesso. Poi strisciai di nuovo a letto e scalciai via le coperte. Mi odiavo talmente che mi sedetti sul letto pensando alle cose peggiori che potessi pensare sul mio conto. Alla fine ero talmente esecrabile che non si poteva far altro che dormire.

lunedì 19 marzo 2012

vita sexualis

More about Vita sexualisŌgai Mori racconta in Vita sexualis lo sviluppo del desiderio sessuale e le esperienze erotiche – dai sei ai ventun anni – di un filosofo, la cui precoce o innata lucidità di marca schopenhaueriana sembra attutire ogni umana pulsione sessuale, non farlo abboccare all'ingannevole esca del piacere di cui la natura si serve per indurre gli uomini alla perpetuazione della specie, atto cui altrimenti nessun essere desidererebbe consapevolmente contribuire.
Interessante, proprio all'inizio del testo, la presentazione del protagonista, Kanai Shizuka, di mestiere filosofo appunto, accomunato a Schopenhauer anche nel suo stile di tenere le proprie lezioni: «spesse volte il professore riesce a far scoccare nell'uditorio illuminazioni folgoranti ricorrendo ad argomenti lontanissimi o addirittura del tutto estranei al tema che sta esponendo. Dicono che Schopenhauer annotasse su un quaderno notizie di cronaca e altri fatti banali servendosene poi per illustrare il suo pensiero. Ebbene, Kanai nella sua storia della filosofia fa confluire di tutto. Talvolta, nel bel mezzo di una serissima lezione, sorprende gli studenti citando come spiegazione un qualche romanzetto che in quel momento va di moda fra i giovani. Romanzi, il professore ne legge un'infinità». Insomma, un pop filosofo ante litteram.

sabato 31 dicembre 2011

l'arte di chiudere il becco alle donne

Ma dove sono le donne? Dove sono le filosofe? Dove sono le donne, con le loro idee piene di fascino. Di filosofe proprio non se ne vedono. Vi sono donne alla guida di nazioni, imperi, partiti. Conosciamo poetesse, scrittrici... ma le filosofe? Ce ne sono tantissime, ma sono tutte dipinte! Basta alzare lo sguardo sui muri della Sorbona, si vedono ovunque pomposissime allegorie femminili nel grande anfiteatro firmato dal pittore neoclassico Puvis de Chavannes. Ma da dove arrivano quelle muse che dovrebbero ispirare studenti e professori? Soprattutto dai bordelli parigini. La Verità forse si chiamava Ninì e, sotto le spoglie della Prudenza, professori e studenti potevano riconoscere la Grande Fernanda. Misoginia? I filosofi si sono limitati a rispecchiare la misoginia della loro epoca, l'hanno elaborata e le hanno dato una forma. Sul tema monotono della debolezza della donna, hanno ricamato e costruito un concetto della "natura" femminile come incapace di concettualizzare. Certo, la filosofia non è l'unica attività non femminilizzata: poche sono le donne direttrici d'orchestra o fantine; e che io sappia non ci sono donne lottatrici di sumo. Una volta una donna tentò di occupare il seggio di san Pietro, nondimeno il magistero papale resta un'attività prettamente virile. È certo che non si tratta di una dimenticanza, né di un banale ritardo. Le donne sono espressamente pregate di non autoinvitarsi nella cerchia esclusiva dei pensatori. La filosofia è l'arte di chiudere il becco alle donne.
Eppure provate a parlare di debolezza delle donne a qualcuno che vive nel mondo di Medea, delle Baccanti, delle Menadi, delle Amazzoni, delle cacciatrici di Artemide! Donna è il nome di un'energia sovrumana che può far tremare di paura. Classi femminili, classi pericolose! Ammetterete che sarebbe il caso di riunirsi tra uomini per prendere dei provvedimenti, decretare l'eccellenza di una vita moderata e instaurare la filosofia come amore della saggezza, del pensiero ordinato e del linguaggio articolato. A proposito delle baccanti, per conoscerle, vi do un consiglio: fate caso ai capelli. La baccante ha i capelli sciolti. Una donna in ordine e curata ha sempre i capelli raccolti. Quando li scioglie significa che la Forza è in lei, la forza del desiderio amoroso – è nell'alcova, e solo per l'amante che le donne un tempo si scioglievano i capelli – oppure è la forza di un dio pericoloso che non rispetta niente, né le trecce né lo chignon, un dio che spettina.  
Dal mio punto di vista, non c'è alcuna incompatibilità tra la Donna e la Filosofia. Se le donne non hanno avuto voce in capitolo, potrebbe essere per un problema di organi, di corde vocali? Parlare in pubblico, equivale a mettersi a nudo. Per l'uomo non rappresenta sempre un inconveniente: l'arte oratoria è per lui un modo di competere in virilità. Gli uomini sono come i Tre Moschettieri, hanno bisogno che le armi tintinnino, e la filosofia è una forma prettamente maschile di rumoroso sfoggio delle armi. Tuttavia Aspasia e le geishe ateniesi hanno diffuso nel IV secolo prima di Cristo una forma raffinata di espressione, orale e scritta, arte del conversare e dello scrivere. Lei e le sue amiche hanno partecipato alla storia della filosofia ma non appaiono nella foto. È una questione d'inquadratura. Da Platone in poi la lezione è la seguente: le donne possono partecipare alla storia della filosofia ma devono restare fuori dall'inquadratura.
C'è in ogni caso una condizione per fare parte del club dei filosofi: va bene scrivere, ma bisogna pubblicare! Per lungo tempo la letteratura femminile si è limitata alla posta e ai diari, vale a dire a una scrittura personale a breve termine. Se ci fosse un principio di scrittura femminile si enuncerebbe così: si scrive sempre per qualcuno. Al contrario, nel cuore della filosofia agisce un principio maschile secondo cui si scrive per tutti, per il mondo intero, senza destinatario particolare. I filosofi si convincono che sono messaggeri dell'Universale. Nei salotti parigini del XVII e XVIII secolo, universo che Benedetta Craveri descrive ne La civiltà della conversazione, le donne danno origine ad uno stile capace di far brillare il vero e di dare fondamento al brillante, ad una alleanza tra la Verità e la Consolazione, la Scienza e il Piacere. È proprio tale alleanza a interessare Hume ed egli la traduce così: «unire le forze del sapere e il mondo della conversazione», vale a dire il mondo degli uomini e il mondo delle donne, i dotti e le dame. Egli pensa che accanto ai trattati, ai corsi e ai discorsi, bisogna sviluppare il genere meno pesante del saggio, opera breve scritta intorno ad un solo argomento senza tecnicismi. È un'alternativa al librone oscuro di filosofia e al romanzetto: il saggio è una conversazione da salotto, la felice unione dello scritto e dell'orale, salva la parola femminile dall'inferno delle chiacchiere, della parlantina, del cicaleccio, delle ciance, dei pettegolezzi. Ma con il Terrore rivoluzionario il mondo della conversazione, quel nuovo modo di pensare e di scrivere, cade nel cestino della crusca insieme alle teste di quelle sfrontate, e il salotto, l'arte di fare circolare il nulla con eleganza, l'arte di perdere mollemente tempo, non è cosa seria.
All'inizio del XIX secolo Hegel era l'organo centrale della Verità. Per interpretare tale formidabile ruolo, non bastava una voce da femminuccia: occorreva una voce sicura, magistrale, categorica, che dicesse "È così e basta", una voce virile che affermava con forza delle verità così come si batte un'incudine. Ma le cose non stavano così. Pare che Hegel fosse munito di un organo difettoso: si schiariva la voce e tossicchiava continuamente. Tra balbettii e farfugli, però, il filosofo produce cose serie: la serietà, la filosofia, il Concetto, il Sapere, se paragonati a questi, gli altri discorsi umani sono frivoli e caduchi. O è semplicemente ridicolo? In occasione di un passaggio a Berlino, un giovane filosofo, un certo Schopenhauer, non era riuscito a prendere sul serio il predecessore di Hegel e idolo delle folle studentesche, Fichte: «Durante questo corso, dice delle cose che mi fanno venir voglia di mettergli una pistola alla gola dicendogli: "Devi morire subito senza pietà; ma per amore della tua minuscola anima, dimmi se questo tuo linguaggio ostrogoto nascondeva un pensiero sensato o se ti sei solo preso gioco di noi?"».
Il Filosofo è una macchina pensante che ha una risposta a tutto, anche al dolore di una donna sconosciuta che è stata lasciata, perché il suo fine non è il bene ma il Vero e per lui la filosofia non è né un balsamo né una pozione. Per quanto riguarda Schopenhauer – un tipo violento, come abbiamo potuto constatare – la sua collera contro le preparatrici di decotti filosofici sembrava senza limiti. Ci aveva avvertiti: «La mia filosofia è sprovvista di comodità, e ciò in quanto dico la verità». Avvertimento per gli infermieri dell'anima! La versione virile della filosofia non lascerà loro nessuno spazio. I due campi si affrontano: da una parte gli uomini, che collocano la Verità al di sopra di tutto e iniziano ogni discorso dicendo: "Ho ragione e posso provarlo". E dall'altra le donne, fedeli alle loro nonne – di cui conservano, in un angolo della memoria e dell'armadio, la ricetta di un decotto per curare i colpi di sole, di un bouquet di piante per guarire le emicranie o un ciondolo porta fortuna –, che situano al di sopra di tutto la cura, l'attenzione a sé e che pensano sia giusto voler guarire. 
Un aneddoto racconta che alcuni visitatori arrivati sulla soglia della casa del grande Eraclito, non osano entrare perché il filosofo si scaldava vicino al fuoco. Il saggio di Efeso li incoraggia a farsi avanti dicendo loro: "Gli dei sono anche qui, nella cucina". La filosofia non è soltanto una questione di idee, di concetti o parole ma anche di cose che si colgono e si preparano. Ora, nel suo Simposio Platone non si abbassa mai a parlarci di cucina, partendo da un avvenimento ricco, equivoco, meticcio, Platone costruisce un testo purificato, univoco, maschile: prendete una decina di convitati, lasciate evaporare le contingenze materiali, nascondete fornelli e anfore, cancellate gli spuntini, conservate solo le parole e servite freddo. In realtà non c'è nessuna fine conversazione senza fine nutrimento! Per pensare una filosofia "paritaria" – se ci piace il termine – bisogna pensare una filosofia ben temperata, umida, rabelaisiana, tessile: la filosofia si tesse con molteplici fili e legami, non tagliandosi fuori dalle cose, non toglie la parola a nessuno, non è l'arte di interrompere, una pratica senza soluzione di continuità con la ghigliottina, o di far tintinnare le armi.

(da Frédeéric Pagès, La filosofia o l'arte di chiudere il becco alle donne)

sabato 24 dicembre 2011

della morte dell'amore

Relativamente al tema dell'amore in Dylan Dog, due sono fondamentalmente i richiami filosofici a cui Roberto Manzocco si rifà nel suo saggio sulla serie a fumetti della Bonelli. Il primo è Schopenhauer, che ne Il mondo come volontà e rappresentazione tratteggia una metafisica dell'amore sessuale secondo cui «ogni innamoramento, per quanto etereo possa apparire, è radicato nell'istinto sessuale. L'estasi incantevole, che coglie l'uomo alla vista di una donna di bellezza a lui conveniente e che gli fa immaginare l'unione con lei come il sommo bene, è proprio il senso della specie, che, riconoscendo chiaramente impresso in essa il suo stampo, vorrebbe con essa perpetuarlo. L'uomo è dunque in ciò guidato realmente da un istinto, che tende al miglioramento della specie anche se si illude di cercare soltanto l'accrescimento del proprio godimento. Conformemente all'esposto carattere della cosa, ogni innamoramento, dopo il godimento finalmente raggiunto, prova una strana delusione e si meraviglia, che ciò che ha così ardentemente desiderato non dia nulla di più di ogni altro appagamento sessuale. L'appagamento avviene propriamente solo per il bene della specie e non cade perciò nella coscienza dell'individuo, il quale, animato dalla volontà della specie, serviva con ogni sacrificio ad un fine, che non era il suo proprio». L'amore, quindi, come illusione della natura, strumento con cui la specie tratta l'individuo come un burattino, muovendolo per fini altri e lasciandolo, poi, deluso: omne animal post coitum triste est.
Il secondo riferimento filosofico è all'analisi condotta da Sartre ne L'essere e il nulla sull'amore come paradossale forma di possesso, che pretende di esercitarsi senza trasformare l'altro in schiavo ma che, invece, «vuole possedere una libertà come libertà. Chi si accontenterebbe di un amore che si desse come pura fedeltà all'impegno preso? Chi accetterebbe di sentirsi dire: "Ti amo, perché mi sono liberamente impegnata ad amarti e perché non voglio contraddirmi: ti amo per fedeltà a me stessa"? Così l'amante chiede il giuramento e si irrita del giuramento. Vuole essere amato da una libertà e pretende che questa libertà come libertà non sia più libera. Vuole insieme che la libertà dell'altro si determini da sé a essere amore – e questo, non solo all'inizio dell'avventura, ma ad ogni istante – e, insieme, che questa libertà si imprigioni da sé, che ritorni su se stessa, come nella follia, come nel sogno, per volere la sua prigionia». 
Ma acconto a quello dell'amore altro tema assai ricorrente è quello della morte, in un'oscillante presentazione «tra una sconsolante visione materialista ed esistenzialista e una serie di suggestioni oniriche di indubbio fascino». In uno dei primi albi, Attraverso lo specchio, Tiziano Sclavi compone una bellissima ballata in stile danza macabra medievale – «Chi è colui così gagliardo e forte che possa vivere senza poi morire? E da colei ch’è tutto, Madonna Morte, l’anima sua possa far fuggire? Verrà la Morte e i tuoi occhi avrà e la bellezza tua, vanità di vanità. Verrà la Morte e porterà con sé tutto il tuo impero, tutto, insieme a te. Verrà la Morte e taglierà il legame così sottile e forte, così bello e infame» – che non lascia dubbi sul fatto che la morte sia il tema centrale della serie dylaniata. L'autore richiama la strana duplicità di questo istante supremo, di grande vicinanza e di estrema lontananza insieme, con le parole del filosofo francese Vladimir Jankélévitch: «È un oltre-mondo che è un altro mondo, assolutamente altro e assolutamente altrove, e tuttavia presente ovunque; che è dunque onnipresente e onniassente; che è tutto insieme trascendente e immanente – infatti basta un niente perché "laggiù" sia immediatamente "qui". La morte è alla porta, invisibile e tuttavia così prossima! La morte sarebbe un incunearsi dell'aldilà nell'al di qua?» (La morte). 
La morte come fuori categoria, come completamente altro, come quasi niente. Heidegger ritiene la morte «la possibilità più propria dell'uomo, che egli anticipa e tramite la quale dà coerenza, ordine e direzione alla propria vita». Mentre Sartre, ancora una volta, ne fa l'inumano per eccellenza, descrivendo l'istante della morte come un salto ontologico che ci trasforma nella nostra essenza e solidifica in modo permanente la nostra identità: «Al limite, all'istante infinitesimale della mia morte, non sarò più che il mio passato. Esso solo mi definirà. È ciò che Sofocle intende esprimere quando nelle Trachinie fa dire a Deianira: "È una massima riconosciuta da lungo tempo fra gli uomini, che non ci si può pronunciare sulla vita dei mortali e dire se essa è stata felice o infelice, prima della loro morte". Questo è anche il senso della frase di Malraux: "La morte cambia la vita in destino". Al momento della morte noi siamo, cioè siamo senza difesa di fronte al giudizio altrui. Con la morte il per-sé si cambia per sempre in in-sé nella esatta misura in cui è scivolato tutto intero nel passato» (L'essere e il nulla). Per il filosofo francese – secondo Manzocco – «l'uomo è come un condannato a morte che si prepara per il giorno dell'esecuzione, fa le prove per non sfigurare, per mostrarsi coraggioso sul patibolo, ma, prima che la sentenza venga eseguita, l'influenza spagnola se lo porta via. Non si può aspettare la morte, è un fatto bruto, che piomba sulla vita "dall'esterno"». E «se è così» – scrive Sartre – «non possiamo nemmeno dire che la morte conferisce un senso alla vita dal di fuori: un senso può venire solo dalla soggettività stessa. Poiché la morte non appare sul fondamento della nostra libertà, non può che togliere alla vita ogni significato».

lunedì 5 dicembre 2011

universi paralleli, sogni, fantasie surrealiste

In seguito alla rivoluzione della meccanica quantistica, alla teoria per cui a livello sub-atomico la realtà non è solida e fissa, ma ha una struttura di tipo probabilistica, così che ogni volta che una determinata particella si trova a dover "prendere una decisione" l'universo intero finisce per ramificarsi in più linee spazio-temporali distinte, la letteratura fantascientifica ha finito per produrre e sviluppare il concetto di universo parallelo. 
Così – ci ricorda Roberto Manzocco nel suo saggio – ne La svastica sul sole di Philip K. Dick abbiamo un mondo in cui il Terzo Reich nazista ha vinto la guerra, ne I mondi dell'Impero di Keith Laumer un mondo in cui i neanderthaliani hanno sterminato l'homo sapiens, nel Ciclo degli Ylanè di Harry Harrison una Terra in cui i dinosauri hanno sviluppato l'intelligenza e sono la specie dominante. Anche il mondo dei comics – aggiungo io – non è rimasto insensibile al fascino degli universi paralleli e alternativi: ne sono esempi il crossover Marvel L'Era di Apocalisse, in cui si narra ciò che sarebbe successo se il prof. Xavier fosse morto prima di creare gli X-Men – sostituendo la linea temporale di Terra 616 con quella alternativa di Terra 295, di recente ripresa dalla serie Uncanny X-Force – e la serie Exiles, in cui supereroi Marvel di varie dimensioni – tra cui, per un certo periodo, anche Psylocke –  vigilano sui rapporti tra linee spazio-temporali parallele – un po' come in Lord Kalvan d'Altroquando di H. Beam Piper, ricordato da Manzocco.
Anche nella serie di Dylan Dog non mancano gli albi in cui sono presentate realtà di questo tipo: in Storia di Nessuno e Gente che scompare entrano in azione delle versioni alternative dell'Indagatore dell'Incubo, in L'ultimo uomo sulla Terra e I killer venuti dal buio compare, invece, un Dylan Dog del futuro, o di un possibile futuro.
Oltre alla presenza di universi paralleli, a rendere meno solida la realtà dell'universo dylaniato è l'idea, messa in pratica nella serie a fumetti, che il sogno non costituisca un fenomeno esclusivamente interiore, ma sia alla radice stessa della realtà. Dylan Dog presenta una visione onirica dell'essere che Manzocco accosta a quella del drammaturgo spagnolo Pedro Calderòn de la Barca, autore di La vita è sogno, di Jorge Luis Borges, di Macedonio Fernàndez, autore di No toda es vigilia la de los ojos abiertos, dello psicanalista Ignacio Matte Blanco, che ne L'inconscio come insiemi infiniti distingue tra la logica asimmetrica e aristotelica della coscienza e quella simmetrica peculiare dell'inconscio e dei sogni. Si può continuare l'elenco, ad esempio, ricordando l'idea del filosofo tedesco Schopenhauer, che argomenta «non è forse tutta la vita un sogno? – o piú precisamente: esiste un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto», e poeticamente esprime la similitudine secondo cui «la vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Una pagina letta cosí isolatamente è invero senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non rimane molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce parimenti all’improvviso, e si deve quindi considerare solo come un’unica pagina più lunga. Siamo cosí costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno» (Il mondo come volontà e rappresentazione).
Nella serie a fumetti si realizza, secondo l'autore, una «sovrapposizione tra concezione dei sogni e teoria degli universi paralleli» e la produzione di un infinito novero di mondi possibili, il cui scopo viene riconosciuto nella rappresentazione della fantasia come strategia esistenziale per sfuggire agli orrori della vita reale: «Ho bisogno di un mistero!» – sostiene Dylan Dog ne La bellezza del demonio – «Che cos'è la vita, la mia vita, senza la speranza che un incubo diventi realtà?». La fantasia è la sensibilità superiore e aliena – attrattiva e repulsiva insieme – tipicamente infantile, un pensare il mondo in termini di categorie essenzialmente diverse da quelle adulte che rappresenta uno status gnoseologica privilegiato, un «momento di unità stuporosa più profonda con il reale» perché – secondo le parole di Elémire Zolla – «è nell'esperienza dell'infanzia che nasce la conoscenza senza dualità, la filosofia spinta al di là delle parole» (Lo stupore infantile). Il riferimento più diretto presente in Dylan Dog ad un metodo d'indagine alternativo a quello razionale e ad una apertura verso il mondo onirico e fantastico è probabilmente quello al movimento artistico del surrealismo, citato in più di un'occasione in tavole e copertine della serie, come quella dell'albo Golconda!, in cui il rimando piuttosto esplicito è a Magritte, o come nelle tavole de La clessidra di pietra in cui un personaggio entra nel quadro di Dalì La persistenza della memoria.

mercoledì 17 agosto 2011

il barboncino di schopenhauer

«La pietà per gli animali è talmente legata alla bontà del carattere che si può a colpo sicuro sostenere che un uomo crudele verso gli animali non può essere un uomo buono».

Così scriveva Schopenhauer, filosofo che amava molto i cani, condannava la caccia, la corrida e la vivisezione e sosteneva le teorie vegetariane.
Brahma, il barboncino del filosofo, - al quale egli dava nell'intimità il nome di Atma (l'anima del mondo) - ha avuto nella sua vita un posto non indifferente, al punto che il suo testamento conteneva una menzione speciale per l'avvenire dell'animale.
Il filosofo tedesco proponeva un'etica dell’abnegazione, consistente nell’attingere al nirvana (estinzione), una pace definitiva fatta di rassegnazione, negazione individuale, ascesi che porta dal desiderio al riposo e dalla noia all’indifferenza; l’ideale era quello del santo o del buddista, nei quali «la volontà si stacca ormai dalla vita. L’uomo perviene ormai allo stato di rinuncia volontaria, alla rassegnazione, alla vera tranquillità, all’assenza completa di volere».


È per questi due motivi che mi piace immaginare Schopenhauer come Shaka di Virgo personaggio del manga e anime Saint Seiya (I Cavalieri dello Zodiaco) ispirato al mondo del buddismo – con in braccio un tenero barboncino bianco.

venerdì 15 luglio 2011

come si costruisce un diplopode

Il reale è razionale, come voleva Hegel, oppure, come sosteneva Schopenhauer, è la manifestazione di una cieca e assurda volontà?
Vediamo se ad aiutarci a scegliere possono essere le lamentele di Ermete, costruttore di tutto ciò che esiste su incarico di Lui.

Guardate per esempio, una delle sue scatole di montaggio. - Mostrò una scatolina piena di pezzi microscopici, e viti grandi come una capocchia di spillo.
- Ora vi leggo le istruzioni su come si costruisce un diplopode (il nome è già un programma!): diplopodi o millepiedi: corpo distinto in capo e tronco, quest'ultimo diviso in torace e addome: torace di quattro segmenti, 1 privo di zampe, 2-4 con un paio di zampe. E già a montare questo uno si rovina la vista. Ma non è finita: addome di doppi segmenti diplosomiti in  numero compreso fra nove e oltre cento, ravvicinati, ciascuno con due paia di zampe. Capito?: "da nove a oltre cento", come se fosse la stessa cosa! Qua basta perdere una zampina, una sola, e l'assetto va a farsi benedire, non mi tiene più la strada, è un disastro. E credete che siano segnate le zampe destre e le sinistre? Macché, uno deve controllarle una per una. Ma udite, udite: orifizio genitale medioventrale nel terzo segmento: e se sbaglio segmento, cosa succede, resta vergine? E poi: respirazione mediante trachee, roba da ridere, infilargliele una a una in bocca!
E poi questa è la Classe, ma ci sono da fare anche gli Ordini: non basta un modello unico di diplopode, c'è il coupé, la berlina, la spider. Glomeridesmida, Oniscomorpha, Polydesmida, Chirdesmida, Juliformia e Colobognatha. Guardi il polydesmida, poveraccio: tronco di 19-22 segmenti, ghiandole repugnatorie presenti, occhi assenti. Cieco e con cinquanta zampe, come farà a non inciampare? Ma a cosa servono tutti questi piedi, guardi qua questo protoragno, già con otto è incasinato, si figuri con mille. Questo è sadismo, o no? Perché creare un millepiedi, per farlo finire nelle barzellette? Ma io non posso discutere, sono solo un operaio, e dai che attacco le zampe e dai che monto ghiandole repugnatorie e dai che non devo confondermi tra segmento anale e capo globulare, se no oltretutto gli danno anche della faccia da culo. Come può una mente superiore pensare in modo così perverso? Qua non c'è pianificazione, non c'è marketing - disse Ermete sconsolato - verrà fuori un gran casino.

(Stefano Benni, Elianto)

diplopodi

giovedì 30 giugno 2011

corso di filosofia in sei ore e un quarto (1di2)

«Non si tratta di chiedersi se bisogna o non bisogna fare della filosofia. Facciamo della filosofia, perché non è possibile sottrarsi. È fatale. La nostra coscienza si pone dei problemi. Bisogna tentare di risolverli. Alla filosofia non è possibile sottrarsi».
Così afferma Witold Gombrowicz alla fine della prima lezione del suo Corso di filosofia in sei ore e un quarto.
 

Uno dei filosofi trattati dall'autore polacco è Schopenhauer, di cui si apprezza la teoria sull'arte: «L'arte, secondo Schopenhauer, ci mostra il gioco della natura e delle forze, ossia la volontà di vivere. Egli si chiede perché la facciata di una cattedrale ci incanta mentre un semplice muro non suscita in noi interesse alcuno. È perché la volontà di vivere della materia, risponde, si esprime nella pesantezza e nella resistenza. Un muro non mette in evidenza il gioco di queste forze, perché ogni sua particella resiste e pesa al tempo stesso, mentre la facciata della cattedrale mostra le forze in azione, in quanto le colonne resistono al peso dei capitelli. È qui chiara la lotta tra la pesantezza e la resistenza della materia».


Gombrowicz si sente molto vicino al filosofo tedesco: afferma che per lui è un mistero che libri interessanti come quelli di Schopenhauer e i suoi non trovino lettori; ma anche che un genio non può aver successo, perché anticipa i tempi, ed è dunque incomprensibile e non serve a nessuno, e così Schopenhauer e lui si consolano.

lunedì 20 giugno 2011

thomas mann e la filosofia moderna

Doppiamente interessante la raccolta di brevi Saggi di Thomas Mann su Schopenhauer, Nietzsche e Freud.
Dal punto di vista filosofico gli scritti dell'autore tedesco sono puntuali, precisi e fondati, oltre che interessanti - soprattutto quello su Schopenhauer.
Dal punto di vista letterario, invece, è interessante leggere come Mann riconosca e sveli quale influenza ha avuto sulla sua opera narrativa quella filosofia "irrazionalistica" che si oppone ad ogni abuso razionalistico, idealistico, ad un sereno e superficiale illuminismo, senza cadere in un oscurantismo reazionario, ma valorizzando gli aspetti più profondi (volontà, istinto, inconscio) dell'essere umano.

«"Chi si interessa della vita" ho scritto nella Montagna incantata "si interessa necessariamente anche della morte". In queste parole è ben visibile l'orma di Schopenhauer, profondamente impressa e persistente in tutta la mia vita. Schopenhaueriane sarebbero state anche le seguenti parole se avessi aggiunto: "Chi si interessa della morte, cerca in essa la vita". Ma questo pensiero io l'avevo già espresso, anche se in maniera meno epigrammatica, giovanissimo ancora, nel mio romanzo giovanile [I Buddenbrook], quando, dovendo far morire il protagonista, gli concessi di leggere quel grandioso capitolo sulla morte [de Il Mondo come volontà e rappresentazione], sotto la cui fresca impressione mi trovavo allora io stesso»

giovedì 28 aprile 2011

un anime per tutti e per nessuno (1di2)

Evangelion ha una complessità drammatica che implica una stratificazione concentrica di possibili interpretazioni e comprende un’altrettanto intricata serie di riferimenti ipertestuali e interdisciplinari, ha una fabula e un intreccio che si fanno talmente ingarbugliati e densi, da renderlo un’opera bifronte, essoterica ed esoterica come lo Zarathustra di Nietzsche, che il suo autore sottotitolò un libro per tutti e per nessuno.
Già da subito, lo scontro tra l’angelo Sachiel e l’Eva 01 guidato dal protagonista della serie Shinji, potrebbe essere letto, parzialmente ma legittimamente, come una riflessione sul tema dell’altro. Chi è l’altro? Cosa comporta venire in contatto con l’altro? Cosa cerca nell’altro? In Evangelion sembrerebbe un topos centrale, tanto da ritornare quasi in ogni episodio e venire esplicitato nel terzo da uno scambio tra due personaggi in cui, parlando di Shinji, si dice che il ragazzo sta vivendo il dilemma del porcospino, secondo cui tanto più due esseri si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno l’uno con l’altro: «Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione» (Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena). Allegoricamente potrebbe succedere proprio questo nello scontro: l’Eva 01 si avvicina all’Angelo, all’altro, ne supera la barriera emotiva, l’AT-Field – Absolute Terror Field, lo scudo protettivo generato da Eva e Angeli, e anche la barriera dell’animo, il confine dell’individualità umana, è termine preso a prestito dalle teorie psichiatriche relative all’autismo e allo stato di terrore assoluto in condizioni di violazione grave del dominio dell’io –, e viene in contatto con il nucleo, con l’essenza intima dell’altro. La cosa però è molto, molto dolorosa. Addirittura letale per uno dei due. A restare in piedi sarà il più adatto a vivere. Gli Angeli, i “mostri”, i nemici, gli altri, non sono che diverse possibilità di esistenza, ma il più adatto a vivere non significa il più forte, non è una questione darwiniana, è semmai una questione di volontà, al limite del nietzschiano. Il più adatto alla vita è colui il quale vuole vivere. Shinji non sa perché vive e non sa se vuole vivere, perché la vita fa male. Vivere significa entrare in contatto con gli altri, e allora la felicità è fare quello che agli altri fa piacere, fare quello che dicono gli altri per piacere agli altri ed essere accettati appagando il proprio bisogno di consolazione.
Affrontando l’angelo Leliel, l’Eva 01 viene inghiottito nel Mare di Dirac (la zona dei numeri immaginari, un modello teorico del vuoto visto come un mare infinito di particelle di energia negativa). Shinji rimane ore all’interno del nulla e si trova a fare i conti con la sua vita ma soprattutto con se stesso: «Ciascun individuo ha dentro se stesso un altro se stesso; ogni individuo è in effetti costituito da due diversi se stessi. Il se stesso che è soggetto osservante e il se stesso che è oggetto osservato. Ogni oggetto d’osservazione ha però natura molteplice ed esistono quindi molteplici Shinji Ikari. Ognuno di essi è un diverso Shinji Ikari, ma sono tutti il vero Shinji Ikari. Tu hai paura degli Shinji Ikari contenuti nelle altre persone».

(da Jadel Andreetto, Neon Genesis Evangelion (Un anime per tutti e per nessuno), in Pop Filosofia)

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