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lunedì 15 aprile 2019

sessistenza

Kant apre un’epoca in cui la Ragione deve essa stessa considerarsi come Trieb, pulsione, spinta, tensione e desiderio verso un “incondizionato” che finisce per rivelare di non consistere in nient’altro che nella propria spinta. Chiamata “volontà” da Schopenhauer e poi da Nietzsche, spunterà come “pulsione” in Freud - non senza essere passata per la “forza lavoro” di Marx e per il “salto” di Kierkegaard. Sicuramente anche per le “differenze parallele” di Deleuze e Derrida - differenziazione e differaenza che hanno almeno in comune la messa in gioco di una tensione, di una pulsione e di una pulsazione.
Nella posterità kantiana la pulsione diviene l’atto del soggetto, della natura e/o dello spirito. Questa storia è, in definitiva, la storia della destinazione dell’uomo o addirittura della vita in assenza tanto di Dio quanto degli dèi. La destinazione: non il destino, secondo la nozione fissa di una predestinazione, ma il fatum, la parola che annuncia e dà il tono di un invio, di un indirizzo che invia all’esistenza senza per questo determinarla come un processo prestabilito: la possibilità di un azzardo contrario, di una deviazione. C’è sempre nel destino ciò che Derrida chiama una destinerranza. Spinta destinerrante, indeterminatezza della pulsione. Spinge, e tuttavia non spinge verso alcuno scopo. L’”essere-gettato” di Heidegger. L’ek-sistenza consiste in un’eiezione o in un esilio. L’ek-sistente non è gettato fuori da un luogo né da una volontà estranea: il suo essere consiste interamente in questo essere-gettato. Fuori da niente e per niente né per nessuno. Una nuova esperienza d’essere. C’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto, la sua espulsione ad essere. Quel che in Heidegger non smette di essere gettato - inviato, indirizzato, spedito verso la sua più propria assenza di scopo, verso la sua esposizione a tutto e a niente.
È proprio nel treiben che possiamo formulare la nostra ragion d’essere: la ragion d’essere senza ragione, l’esistere in quanto tale. La pulsione dice insomma la vita che ha luogo soltanto uscendo dal niente e per niente, uscendo per uscire. La pulsione kantiana della ragione, il desiderio dell’incondizionato non è altro che la spinta che ritorna su se stessa e si conosce come eccedenza costitutiva - il natale, il nascente, il nascere che si spinge verso la propria incondizionalità. Vale a dire verso la sua assolutezza: slegato da tutto, non potendo essere legato a niente, non potendo essere (n’être) che nascita (naître). Eccesso, trascendenza, trasgressione e nascita non costituiscono niente di posteriore a una condizione data, a una misura stabilita, a un’immanenza, a una legge o a un ordine: l’origine è la levata o il levarsi che nulla precede. Quest’origine non si inscrive in un punto, si produce dentro e come sua propria tensione, nel suo battito, nella sua pulsazione. Non ha un’identità, differisce da se stessa, si differisce, s’invola e s’invia. L’”essere” come invio a un fuori è sicuramente almeno un aspetto di ciò che Heidegger ha voluto designare come essere donato (o donante) e di ciò che Derrida ha voluto connotare come la differaenza della e nell’origine. Nient’altro che il nascere della natura nella sua levata, nel suo invio, nella sua gettata e nella sua venuta. Il nascere (naître) in quanto non essere (n’être) nient’altro che la sua propria alterazione.
Il desiderio si rinnova e si annienta con lo stesso movimento. Si consuma e rinasce. Viene dal niente e non cerca niente: è l’essere teso dalla sua propria alterazione e il consumarsi di qualsiasi posizione dell’essere, di qualsiasi presenza a vantaggio di un invio. Né nel proprio godimento né nella propria discendenza il desiderio raggiunge altro se non la sua propria fiammata, il suo proprio divoramento, il suo esaurimento, la sua estenuazione. Un eccesso, un’eccedenza o trascendenza. Una spinta d’essere che non ha alcun senso (né ragione, né causa, né fine) che di essere spinta - di essere in quanto spinta e di essere spinta dal suo proprio eccesso.

(Jean-Luc Nancy, Sessistenza)

venerdì 30 settembre 2016

letture di settembre

Veramente poche pagine lette questo mese.

Glamorama, ultimo romanzo che mi mancava di Bret Easton Ellis

Per la saggistica filosofica, lo scritto sull'insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio Otobiographies di Jacques DerridaLa creazione del mondo di Jean-Luc Nancy, Il nodo di Gordio che raccoglie i due testi di un dialogo indiretto tra Ernst Jünger e Carl Schmitt su Oriente e Occidente nella storia del mondo.

Ancora un volume, L'attacco dei mostri di neve mutanti, con le strisce di Calvin & Hobbes realizzate da Bill Watterson.

domenica 31 gennaio 2016

letture di gennaio

Visto il trasferimento toscano torno a Vasco Pratolini con il suo Cronache di poveri amanti: epica umile e pettegolezzi di quartiere, violenza fascista e lavoro manuale, amore e maturità, povertà e festa, gioia e lotta. 

Su suggerimento di Dreca ho letto il primo testo di una trilogia dell'autore marocchino Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia. Il tema dell'identità e del genere incarnato in una creatura incostante e mutevole come la sabbia: Ahmed o Zahra, un uomo dal seno femminile o una donna con la barba mal rasata, l'illusione e la violenza che giustifica e privilegia qualsiasi cosa o una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione, un destino forgiato da una volontà altrui o l'avventura del proprio corpo. Una vita come pelle screpolata a forza di subire mute e di farsi maschere su maschere. 

Con I lauri senza fronde Edouard Dujardin ci immerge nel flusso di coscienza di un giovane studente parigino invaghito di un'attricetta che ne spreme le ristrette finanze: il monologo interiore - prima di Joyce - di una serata di passeggiate, incontri, memorie, progetti, speranze, delusioni. 

Un po' di classici della filosofia e di saggistica: ritorno a Giorgio Colli, a lungo frequentato ai tempi dell'università, con il postumo Apollineo e dionisiacoIndizi sul corpo di Jean-Luc Nancy - che mi ha portato anche a Aristotele con L'anima -, Avances di Jacques Derrida, autore sul quale ho letto anche il non riuscito tentativo di Francesco Garritano di mettere in luce il progetto pedagogico del postmoderno a partire da La formazione come questione in Jacques Derrida.

Qualcosa sull'esistenzialismo, in vista di un corso di approfondimento per potenziare l'offerta formativa scolastica: Esistenzialismo e filosofia contemporanea di Pietro Prini, Esistenzialismo di Eugenio De Caro, L'esistenzialismo di Paul Foulquié, L'esistenzialismo di Guido De Reggiero.

Altra saggistica, molto deludente, il Lacan zen di Leonardo Vittorio Arena e I sei nomi della bellezza con cui Crispin Sartwell traduce in mera chiacchiera il suo tentativo di analizzare le diverse esperienze estetiche nel mondo.

Dall'evento destinato a stravolgere l'universo fumettistico della Marvel, Secret Wars, il volume che raccoglie le vicende fantasy scritte da Jason Aaron e soprattutto magnificamente illustrate da Mike Del Mundo: Weirdworld
E di questo tutto nuovo e differente universo supereroico che emerge, si concludono i primi archi narrativi delle nuove testate: il Reboot dell'invincibile Iron Man scritto da Brian Michael Bendis è divertente e ironico, ricco di azione ed eccessivo, sfacciato e anche gradasso, e soprattutto graficamente esaltante grazie ai disegni di David Marquez; gli straordinari X-Men scritti da Jeff Lemire - con Tempesta come leader e il gradito ritorno del vecchio Logan - si presentano come un gruppo in grado di prendere a calci quanti si oppongono al loro progetto di costruire un Paradiso-X per chi da sempre è temuto e odiato dall'umanità; infine, il Deadpool di Gerry Duggan deve imparare a vivere con il suo nuovo status di eroe più grande e popolare del mondo, di avengers e icona massmediatica, non più un mercenario ma un Milionario chiacchierone; non particolarmente brillanti lo Scontro temporale in cui Charles Soule getta gli incredibili Inumani guidati dai reali Freccia Nera e Medusa, né lo stupefacente Ant-Man di Nick Spencer che si ritrova tra le difficoltà di essere insieme un padre e un eroe e i supereroici Team-Up che tutti amano.

Di Cocktailsofia di Giovanni Giaccone ho già scritto, di Gianluca Cuozzo con Utopie e realtà e dei due saggi di Giovanni Macchia sulla letteratura francese - Baudelaire e la poetica della malinconia e Le rovine di Parigi -, invece, a breve.

sabato 6 agosto 2011

cascare dal sonno (4di4)

È possibile che il mondo oggi sia senza sonno né veglia, che dorma in piedi, che vegli assopito, sonnambolico e sonnolento, mondo privo di ritmo. Gli uccelli migratori nella notte sono disorientati dall'intenso alone di luce che le grandi città proiettano in cielo: sono pronti ad addormentarsi non importa dove, credendosi arrivati in terre assolate. Mondo banco di merci, non uguale ma, al contrario, ineguale al punto da rendere il sonno stesso devastato dall'ineguaglianza. Dormienti sfiniti, sempre in allerta, più che caduti gettati nel sonno, precipitati in esso da un abbrutimento per brevi momenti interrotti da colpi in testa, colpi alla porta, urla o colpi di fucili. Più che addormentati, dormienti abbattuti, vinti di notte come lo sono di giorno. Notti spogliate della loro stessa notte, strappate dall'oscurità e dall'ombra. Sonni che non sono più che parodie, caricature di sonni. Come dormire in un mondo senza ninnananna, senza un quieto ritornello, senza capacità d'oblio, senza inconscio, anche perché Eros e Thanatos circolano dappertutto senza vergogna, vigili sardonici muniti di frusta e manganello? Come dormire in un mondo ipnotizzato?

(da Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno


venerdì 5 agosto 2011

cascare dal sonno (3di4)


Ora, questa uguaglianza a sé si ridistribuisce a sua volta secondo la distinzione ritmica tra l'ineguaglianza del giorno e l'uguaglianza della notte. Il giorno è di per sé l'ineguale, il singolare; il giorno è sempre un altro giorno, domani è un altro giorno. Tutte le notti sono uguali; la notte riporta ostinatamente l'indifferenza nel differente, ritrova il mondo precedente, il magma, il caos, la khora, l'uguaglianza che riposa in sé; la notte depone le posizioni, disarma i sistemi di attivazione, scioglie i nodi delle reti. Il sonno diventa la notte stessa, ed esso stesso diventa il ritorno al mondo immemoriale, al mondo al di qua del mondo, al mondo degli dèi oscuri che non pronunciano alcuna parola creatrice.
La notte identifica il fuori e il dentro, l'occhio vi vede il sotto delle cose, il risvolto delle palpebre, lo strato invisibile dei contrari, dei basamenti, delle cripte, delle pelli rivoltate. Il sonno è divino, e ciò che vi si rivela di più propriamente divino è la sospensione della parola creatrice. Non viene pronunciato più alcun "che ciò sia!", non ci sono più comandamenti per far venire all'essere. C'è un'obbedienza silenziosa alla differenza dell'essere. Quello che il dormiente vede è proprio la cosa eclissata, il cuore perfettamente oscuro dell'eclisse dell'essere. Tutti i pensieri, che siano dell'occhio o dell'orecchio, del naso, della bocca o della pelle, dei nervi, delle viscere, delle catene neuronali, dei muscoli e dei tendini, delle volontà o delle immaginazioni, dei desideri o delle sofferenze, tutti i pensieri vengono a giocarsi liberamente, indistintamente distinti. Così, a volte, sopraggiunge il sogno, ossia forse qualcosa della notte che passa nel giorno. L'esile filo del sogno trattiene le antenne prigioniere come fa un ragno con quelle di un insetto nella sua tela. Così la tela dipinta e mossa debolmente su questi palchi da giocolieri di strada si tramuta in una ragnatela di filamenti argentei sui quali trema una goccia di rugiada o una lacrima, la cui caduta imminente lacererà la tela e farà precipitare il ragno con le zampe che si conficcano nel fondo degli occhi addormentati, fino a colpire la retina sulla quale ben presto si poserà la scintillazione, all'improvviso riconosciuta, del risveglio. All'alba l'animale viene a succhiare il nettare dei fiori notturni.
Il tempo del dubbio, se sogno o son desto, è il tempo proprio della coscienza che sa solo dubitare se fa notte attorno a lei o se il giorno si è levato, così che può garantirsi di una cosa sola, ossia che nel più profondo del suo essere o del suo stato c'è la notte più profonda, la notte nera di cui essa stessa è la potente sonnambula. È lecito dire, come vorrebbe Freud, che il sonno abbassa le difese? Non bisogna piuttosto tenere in considerazione il notevole allargamento del nostro mondo che arriva fino alla notte di un fuori dal mondo in seno al quale abbiamo fluttuato, simili a cosmonauti?

(da Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno


giovedì 4 agosto 2011

cascare dal sonno (2di4)

«Il sonno è lo stato d'immersione dell'anima nella sua unità priva di differenze, la veglia al contrario è la stato in cui l'anima è impegnata nell'opposizione a questa semplice unità» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche). Il sé dormiente trova o tocca la sua esistenza autonoma più veritiera, assoluta: ab-solutum, ciò che è sciolto da tutto, ciò di cui ogni legame, ogni rapporto, ogni connessione o composizione è escluso; ciò che essenzialmente si slega, si distacca e si libera. La presenza del dormiente è la presenza di un'assenza, la cosa in sé è cosa di non-cosa. Massa tuttavia massiccia, ammassata, avviluppata, rannicchiata attorno a quel sé che esiste e persiste in una inesistenza.
Dormire insieme, coucher ensemble, apre niente di meno che la possibilità di penetrare nel più intimo dell'altro. Il sonno felice, languido, in cui gli amanti sprofondano insieme prolunga il loro spasmo amoroso in una lunga sospensione. «La separazione, virgola, tra il turbamento e l'io, al risveglio, equivale a scollare (distacco dal collo e della colla), e la decollazione a una idealizzazione sublimante che ri-vela quanto si stacca. L'indecisione, l'oscillazione, la vibrazione tremante in cui si annuncia l'idealità è chiamata sempre tremito, fremito ecc. "Questa specie di tremito esaltava la mia felicità perché faceva sì che il nostro scopare così tremante sembrava staccarsi , idealizzarsi. Non aveva smesso di rimanere sveglio e, durante la stretta, non si era emozionato, perché nel rumore, nonostante i suoi riflessi rapidi, aveva provato una pena leggera a svincolarsi dal turbamento, e io, che ero incollato a lui, avevo scoperto tale dolore leggero, lo scollamento da una colla sottile" (Jean Genet, Miracolo della rosa)» (Jacques Derrida, Glas). Dormire insieme significa condividere un'inerzia, un'uguale forza che mantiene i due corpi insieme, che vagano come due piccole barche che si allontanano verso lo stesso mare aperto, verso lo stesso orizzonte sempre nuovamente nascosto nelle brume. 

(da Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno


mercoledì 3 agosto 2011

cascare dal sonno (1di4)

Chi dorme cena. Chi dorme, in effetti, si alimenta. Chi dorme non si nutre di qualcosa che gli viene da fuori. Come gli animali che vanno in letargo, il dormiente si nutre delle proprie riserve, assimila se stesso. Non sono più che di me stesso, caduto in me stesso e mescolato a una notte – la notte che anzitutto faccio discendere da me stesso in me stesso, la notte delle palpebre abbassate – in cui tutto, ma più di tutto me stesso, mi diventa indistinto: tutto diventa nient'altro che me stesso, tutto si riassorbe in me senza che io possa più distinguermi da qualcosa d'altro; non mi distinguo più propriamente dal mondo né dagli altri, non posso più considerare niente come un oggetto, una percezione o un pensiero, senza che anche questa cosa si faccia sentire come me stesso. Si produce una simultaneità del proprio e dell'improprio tale da farne cadere la distinzione. Il sonno è il grande presente, la compresenza di tutti i compossibili, e anche incompatibili. Io coincido col mondo. "Io" cado, "io" non sono più, o piuttosto, "io" non "è" più se non nella cancellazione della sua stessa distinzione. Ai miei propri occhi, che non guardano più niente, che sono rivolti verso se stessi e il punto cieco in loro, "io" non "mi" distinguo più. Tra i mille figli di Ipnos – dio del sonno, figlio della Notte e fratello gemello di Thanatos, la Morte –, Morfeo si identifica per la sua abilità nel rivestire la forma. Tale è Morfeo, tale la virtù del suo bacio. Anamorfosi della vera forma. Morfeo trasforma in forma la pura materia del sonno. Dà forma e ali all'informe e alla caduta.
Caduto dalle supposte altezze della coscienza vigile, della sorveglianza e del controllo, della proiezione e della differenziazione, ecco un sé reso al suo moto più intimo: quello del ritorno in sé. "Io" non fa un sé, perché "io" non fa ritorno: io, al contrario, fugge, sia rivolgendosi al mondo sia ritirandosi da esso. Io casco dal sonno e, al tempo stesso, mi cancello in quanto "io". Io casco in me e me cade in sé. Il dormire richiede il dissolvimento della domanda e dell'inquietudine che la anima, il "chi sono io?". Il dormiente è proprio in sé, tanto in sé quanto può esserlo la cosa kantiana, ossia l'essere-ci, l'essere posto, la posizione stessa indipendente da ogni apparenza e da ogni apparire. Mormorato dall'inconscio, "io sono" diventa inintelligibile, una sorta di brontolio o di sospiro che sfugge da labbra dischiuse appena. Una emissione preverbale che deposita sul cuscino una traccia appena visibile, come se un po' di saliva fosse filtrata dalla bocca addormentata. Colui o colei la cui bocca mormora una tale attestazione di esistenza non è più "io", indifferente a ogni specie di ipseità, lui o lei è in sé nel senso della cosa in sé come Kant l'ha resa celebre: la cosa stessa, ma sottratta a ogni rapporto con un soggetto della sua percezione o con un agente della sua manipolazione; la cosa, isolata da ogni manifestazione, da ogni fenomenalità, la cosa addormentata, in riposo, al riparo dai saperi, dalle tecniche e da ogni tipo di arte, esente da giudizi o prospettive; la cosa non misurata, non misurabile, la cosa concentrata nella sua cosità indeterminata e inapparente. 
(da Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno

giovedì 28 luglio 2011

il giusto e l'ingiusto

"È un'ingiustizia, però!", ripeteva Calimero, come ci ricorda Jean-Luc Nancy all'inizio della sua piccola conferenza – perché rivolta ai bambini – Il giusto e l'ingiusto, nella quale indaga, appunto, l'idea del giusto. 
Subito, ci dice il filosofo francese, «se l'idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. La legge non è necessariamente giusta. Questo», però, «non vuol dire che ciascuno di noi possa decidere che non seguirà la legge perché non la ritiene giusta. Dunque, abbiamo l'idea di una giustizia al di là delle leggi, forse addirittura di una giustizia per la quale non vi può essere legge, una giustizia che non può essere racchiusa in una legge, una giustizia superiore a qualunque legge».
Il modello che subito viene in mente è quello del giustiziere – da Schwarzenegger e Van Damme ai videogiochi come Street Fighter e i supereroi dei comics –, che «si fa giustizia da sé, al di là della legge» perché «la legge è impotente», che pone la sua forza al servizio di una giusta causa per «dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, ciò che gli spetta».
Ma «cosa, effettivamente, è dovuto a ciascuno?». Secondo Nancy dietro il termine "ciascuno" convivono due principi: uno di uguaglianza ("ciascuno" come tutti gli altri) e uno di differenza o singolarità ("ciascuno" come proprio di ogni persona «in quanto egli è un essere singolare, in quanto egli è unico»). «Uguaglianza e singolarità sono inseparabili nell'idea di giustizia e, al tempo stesso, possono entrare, se non in contraddizione, forse, quanto meno in conflitto. Questo ci insegna una prima cosa importantissima: il giusto e l'ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri» e «non può mai esservi giustizia per uno solo. Ecco perché farsi giustizia da sé non ha alcun senso. Tuttavia è certamente vero che ciascuno di noi, nella propria singolarità, ha diritto a un riconoscimento assolutamente personale».
Riconosce, però, Nancy che «non riusciremo mai a dire interamente, integralmente, esattamente cosa è dovuto a ciascuno in particolare», perciò «la giustizia è inevitabilmente senza esattezza o senza aggiustamento». L'unica cosa possibile e necessaria è che «ciascuno sia riconosciuto nella sua singolarità», l'unica cosa che è dovuta a ciascuno «è quello che chiamiamo amore. Amare qualcuno vuol dire che lo si considera per quello che è, singolarmente». Per essere giusto ognuno «deve sforzarsi di pensare meglio che può in una direzione che, in fondo, soltanto l'amore può indicargli», deve «essere capace di comprendere che ciascuno ha diritto a un riconoscimento. Questo riconoscimento deve essere infinito, non può avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare interamente, impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre». Essere giusto è «dare a ciascuno ciò che non si sa neanche di dovergli», è considerarlo dotato di un «diritto a un rispetto assoluto».
«Dovete pensarlo da soli, mai nessuno verrà a dirvi: "Ecco cos'è la giustizia assoluta". Se qualcuno potesse dirlo, forse noi non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge. Cosa è veramente giusto, al tempo stesso per tutti e per ciascuno individualmente, non è dato in anticipo: bisogna cercarlo, inventarlo, trovarlo, ogni volta di nuovo. Ce ne vuole sempre di più, non ci si può mai dire che è abbastanza giusto così. Non è mai abbastanza giusto. Pensare questo è già cominciare a essere giusti».

martedì 19 luglio 2011

piccola conferenza su dio

More about In cielo e sulla terraDio indica la possibilità che ci sia, per noi, sia collettivamente sia singolarmente, individualmente, un rapporto con questo dappertutto e da nessuna parte. Dio, il divino, il celeste indicherebbero, quindi, il fatto che io sono in rapporto, non con qualcosa, ma con il fatto che non mi bastano i rapporti che intrattengo con tutte le cose nel mondo o con tutti gli esseri nel mondo. E che, quindi, c'è qualcos'altro, qualcosa che chiamerei qui "apertura" e che fa in modo che io sia, che noi siamo, in quanto uomini, aperti a più che a essere nel mondo, a più che a prendere cose, maneggiare cose, mangiare cose, spostarci nel mondo, inviare sonde su Marte, guardare le galassie al telescopio e così via.
Importa capire l'impossibilità di richiudere questa apertura, l'impossibilità di essere un uomo così come si è una pietra, un albero, forse anche un animale. Pascal dice: «L'uomo passa infinitamente l'uomo». Perché non è sufficiente chiamare questa dimensione di apertura e di oltrepassamento con nomi astratti? Perché dobbiamo poterci rivolgere, riferire a questa dimensione, per esserle fedeli. Niente a che vedere con ciò che si chiama il credere. Essere fedeli a ciò che qui ho chiamato l'apertura, senza la quale noi non saremmo forse nemmeno uomini, ma solo cose fra le cose, all'interno di un mondo chiuso.

Dove comincia il cielo? Questa domanda potrebbe portarci altrove, alla pittura, ai cieli della pittura. Provate a guardare alcuni paesaggi dipinti da grandi pittori, come il fiammingo Ruysdael o l'inglese Constable. A che scopo? Proprio per mostrare il rapporto fra un gran cielo, spesso, pieno di nubi, e la terra. È come se tutto il quadro fosse fatto solo per mostrare questa apertura dei due, e quindi la linea che li divide.
 



mercoledì 20 aprile 2011

il coraggio dell'atto etico (1di2): ciò che è giusto e ciò che è facile

Il Torneo Tremaghi si è concluso nel modo peggiore. Cedric Diggory è morto nel corso dell’ultima prova, assassinato da Lord Voldemort risorto in tutta la sua potenza. A Hogwarts, nella Sala Grande listata a lutto, le giovani streghe e i giovani maghi sono pronti ad ascoltare il discorso del loro preside, Albus Silente. Sono parole pacate e precise, di una forza misurata ma dirompente, e rendono omaggio alla memoria del giovane Cedric. Un omaggio che, senza enfasi né retorica, prende la forma tragica e bellissima della formula perfetta dell’etica. Formula tragica perché attraversata dallo spettro incancellabile della morte. Bellissima e perfetta perché – in consonanza con l’idea di etica come pratica della libertà espressa nella saga di Harry Potter – non comanda né ammonisce, non dice che cosa si debba fare, ma richiama ciascuna e ciascuno alla propria singolare responsabilità come capacità di produrre, in una data situazione, un atto etico. Cioè un atto ispirato all’idea di giustizia.
È questa la modalità di insegnare senza ammaestrare di Albus Silente: dare ai propri studenti tutti i mezzi perché possano affrontare le situazioni difficili ma lasciare al contempo loro anche la possibilità di affrontare liberamente, e da soli, tali situazioni. Anche a rischio dell’errore o del peggio. Di questo rischio fa esperienza Harry durante il primo anno trascorso a Hogwarts, quando si trova a dover affrontare da solo Voldemort. Silente avrebbe anche potuto fermarlo, avrebbe potuto dirgli che cosa fare, dargli consigli su come fronteggiare il pericolo o, al limite, intervenire in suo soccorso. Ma non fa nulla di tutto ciò: «Invece di fermarci, ci ha insegnato tanto da darci una mano» (Harry Potter e la pietra filosofale). Se l’etica è l’imparare a vivere soli, da sé, tra la vita e la morte, il diritto a un certo rischio non può mai essere cancellato: «Silente mi ha sempre fatto scoprire le cose da solo. Voleva che sperimentassi le mie forze, che corressi rischi» (Harry Potter e i doni della morte). L’atto etico non è un qualche particolare e potentissimo incantesimo in grado di risolvere i problemi o i dilemmi che si pongono al soggetto, ma l’atto di una decisione che trasforma lo stato delle cose senza l’ausilio di nessuna magia.
Ecco le parole che Silente rivolge ai propri studenti in occasione della morte di Cedric: «Ricordatevi di Cedric. Quando e se per voi dovesse venire il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordate cos’è accaduto a un ragazzo che era buono, e gentile, e coraggioso, per aver attraversato il cammino di Voldemort. Ricordatevi di Cedric Diggory» (Harry Potter e il calice di fuoco). Il preside di Hogwarts evita accuratamente di fare la morale, non predica, non invoca leggi o valori sommi, gesti esemplari, regole infallibili cui attenersi, o un qualche nobile insegnamento che la scuola avrebbe impartito alle giovani streghe e ai giovani maghi e che sarebbe venuto il momento di mettere in pratica. Lo spettro dell’amico morto, e la morte tout court, gioca un ruolo chiave in questa scelta etica. La formula perfetta dell’etica è la composizione di questi tre elementi: ciò che è giusto, ciò che è facile e lo spettro della morte. Quasi che facile fosse sinonimo di ingiusto – cosa che è tutt’altro che scontata – perché l’etica richiede al soggetto di saper rompere con ciò che è facile per produrre una decisione che abbia la forza di creare, tra la vita e la morte, giustizia. Sicuramente esistono scelte giuste che sono anche facili –  e non sono scelte senza valore nell’ambito della quotidiana convivenza –, ma tali scelte non possono essere definite propriamente etiche. Queste scelte si muovono in quelle che Heidegger chiamava «la medietà di ciò che si conviene», che determina «ciò che è possibile o lecito tentare», che «sorveglia ogni eccezione» e soddisfa così la tendenza a «prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili» (Essere e tempo).
L’etica è qualcosa di più, e di altro, rispetto al comportamento socialmente accettabile, conformistico, attento a obbedire alle regole e alle leggi. L’etica è il coraggio di ciò che è giusto, il coraggio di fare ciò che è giusto e che si alimenta in ciò che è giusto, il coraggio di sospendere l’orizzonte di ogni regola al momento di decidere per ciò che è giusto. «Se l’idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. Sentiamo che ciò rinvia a qualcosa di più della legge, a qualcosa di diverso dalla legge», per usare una formula di Jean-Luc Nancy (Il giusto e l’ingiusto).
Ciò che è giusto richiede coraggio perché rompe con il normale corso delle cose, con l’orizzonte delle abitudini e del comportamento socialmente accettabile. L’atto etico eccede il semplice dovere morale – ad esempio la scelta di combattere, di entrare in clandestinità, di organizzare la resistenza contro Voldemort e i Mangiamorte, rinunciando, così, a una vita normale e rischiando la vita stessa –, potrebbe sembrare un atto supererogatorio (dal latino supererogare, “pagare più del necessario”). L’idea di etica che emerge dalla saga di Harry Potter, nel suo legame con l’idea di giustizia al di là della legge, eccede i limiti che Rawls traccia tra morale per le persone comuni e morale supererogatoria per santi ed eroi (Una teoria della giustizia): non c’è etica né possibilità di giustizia, non c’è atto etico degno di questo nome se non là dove un soggetto si spinge al di là dei limiti del semplice dovere. Non c’è nulla di etico, infatti, nel fare semplicemente ciò che si deve fare.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

martedì 29 marzo 2011

che cos'è un'isola?

Nel corso del suo seminario (2002) dedicato alla lettura incrociata di Robinson Crusoe e Martin Heidegger, Jacques Derrida si chiede: «Che cos’è un isola? Non c’è mondo, ci sono solo isole». Come se un pensiero dell’isola ci portasse a ripensare il mondo, a mettere in discussione l’idea che c’è un mondo, là fuori: un mondo unico, vero, stabile, di cui facciamo esperienza.
In Lost l’isola è essa stessa un personaggio e ti sta sempre in agguato dietro le spalle. Può anche essere vista come una metafora di Dio – o, più radicalmente, come Dio essa stessa, sulla scia dell’idea elaborata dalla filosofia di Spinoza secondo cui Dio e Natura si identificano, e ogni cosa esistente non è altro che un modo, una manifestazione di Dio. Solo alla fine scopriremo che cosa o chi è, in verità, l’isola. Uno spazio simile al Lost World di Jurassic Park o all’isola incantata di Prospero nella Tempesta di Shakespeare. Una nuova Atlantide. Un artefatto tecnologico di origine umana o extraterrestre. Il terreno per un insolito gioco di ruolo. Un Valis (acronimo di Vaste Active Living Intelligent System – Vasto Sistema di Intelligenza Viva e Attiva), come quello creato da Philip K. Dick. Una forma singolarissima di essere vivente simile all’isola di Krakoa che compare per la prima volta nell’universo della Marvel Comics in Giant-Size X-Men #1.
Ma è come se ogni domanda incontrata nell’orbita di Lost fosse doppia. Come se portasse con sé l’enigma di una questione filosofica più essenziale che va al di là delle risposte che la serie stessa, con il suo procedere, dà.
L’isola si gioca attorno a un doppio movimento: separazione e origine. Separazione dal continente, per le isole continentali. Origine dal fondo del mare, per le isole oceaniche. «Le isole continentali» scrive Deleuze «sono isole accidentali, derivate: sono separate da un continente, nate da una disarticolazione, da un’erosione, da una frattura, sopravvivono all’inabissamento di ciò che le tratteneva. Le isole oceaniche sono delle isole originarie, essenziali: alcune emergono lentamente, altre invece spariscono e poi riappaiono» (L’isola deserta e altri scritti). Lo sparire è costitutivo delle isole quanto il loro apparire, è parte della loro instabile natura, come mostra bene Jean-Luc Nancy: «Di quando in quando un’altra specie di onda si immobilizza in superficie, ed è un’isola scaturita da un altro sollevamento, da un altro corrugamento delle profondità. Di quando in quando, allo stesso modo, un’isola sparisce sotto il mare, ripresa da un altro movimento del fondo» (La nascita dei seni – l’isola viene posta in relazione, da Nancy, con il seno, a sua volta in relazione con l’essere, visto che il francese sein, “seno”, è omografo del tedesco Sein, “Essere”. Poche righe dopo, Nancy evoca queste parole di Lacan tratte dal Seminario VIII: «L’estremità del seno è anch’essa in una posizione di isolamento su uno sfondo, ed è perciò in una posizione di esclusione rispetto a quel rapporto profondo con la madre che è quello del nutrimento. Pensate a quelle isole di cui vedete la pianta sulle carte marittime: non è rappresentato in nessun modo ciò che c’è sull’isola, ma solamente il contorno. Ebbene, è la stessa cosa per gli oggetti del desiderio in tutta la loro generalità»).
Il doppio movimento che anima le isole contamina anche i soggetti che alle isole si rapportano, nella forma di una separazione dal mondo e di un nuovo inizio. «Lo slancio che spinge l’uomo verso le isole riprende il doppio movimento che produce le isole stesse. Sognare le isole, non importa se con angoscia o con gioia, significa sognare di separarsi, di essere già separati, lontano dai continenti, di essere soli e perduti – ovvero significa sognare di ripartire da zero, di ricreare, di ricominciare», precisa Deleuze.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

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