Chi dorme cena. Chi dorme, in effetti, si alimenta. Chi dorme non si nutre di qualcosa che gli viene da fuori. Come gli animali che vanno in letargo, il dormiente si nutre delle proprie riserve, assimila se stesso. Non sono più che di me stesso, caduto in me stesso e mescolato a una notte – la notte che anzitutto faccio discendere da me stesso in me stesso, la notte delle palpebre abbassate – in cui tutto, ma più di tutto me stesso, mi diventa indistinto: tutto diventa nient'altro che me stesso, tutto si riassorbe in me senza che io possa più distinguermi da qualcosa d'altro; non mi distinguo più propriamente dal mondo né dagli altri, non posso più considerare niente come un oggetto, una percezione o un pensiero, senza che anche questa cosa si faccia sentire come me stesso. Si produce una simultaneità del proprio e dell'improprio tale da farne cadere la distinzione. Il sonno è il grande presente, la compresenza di tutti i compossibili, e anche incompatibili. Io coincido col mondo. "Io" cado, "io" non sono più, o piuttosto, "io" non "è" più se non nella cancellazione della sua stessa distinzione. Ai miei propri occhi, che non guardano più niente, che sono rivolti verso se stessi e il punto cieco in loro, "io" non "mi" distinguo più. Tra i mille figli di Ipnos – dio del sonno, figlio della Notte e fratello gemello di Thanatos, la Morte –, Morfeo si identifica per la sua abilità nel rivestire la forma. Tale è Morfeo, tale la virtù del suo bacio. Anamorfosi della vera forma. Morfeo trasforma in forma la pura materia del sonno. Dà forma e ali all'informe e alla caduta.
Caduto dalle supposte altezze della coscienza vigile, della sorveglianza e del controllo, della proiezione e della differenziazione, ecco un sé reso al suo moto più intimo: quello del ritorno in sé. "Io" non fa un sé, perché "io" non fa ritorno: io, al contrario, fugge, sia rivolgendosi al mondo sia ritirandosi da esso. Io casco dal sonno e, al tempo stesso, mi cancello in quanto "io". Io casco in me e me cade in sé. Il dormire richiede il dissolvimento della domanda e dell'inquietudine che la anima, il "chi sono io?". Il dormiente è proprio in sé, tanto in sé quanto può esserlo la cosa kantiana, ossia l'essere-ci, l'essere posto, la posizione stessa indipendente da ogni apparenza e da ogni apparire. Mormorato dall'inconscio, "io sono" diventa inintelligibile, una sorta di brontolio o di sospiro che sfugge da labbra dischiuse appena. Una emissione preverbale che deposita sul cuscino una traccia appena visibile, come se un po' di saliva fosse filtrata dalla bocca addormentata. Colui o colei la cui bocca mormora una tale attestazione di esistenza non è più "io", indifferente a ogni specie di ipseità, lui o lei è in sé nel senso della cosa in sé come Kant l'ha resa celebre: la cosa stessa, ma sottratta a ogni rapporto con un soggetto della sua percezione o con un agente della sua manipolazione; la cosa, isolata da ogni manifestazione, da ogni fenomenalità, la cosa addormentata, in riposo, al riparo dai saperi, dalle tecniche e da ogni tipo di arte, esente da giudizi o prospettive; la cosa non misurata, non misurabile, la cosa concentrata nella sua cosità indeterminata e inapparente.
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