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mercoledì 21 ottobre 2020

filosofia come allenamento

La palestra di Platone è l'ultimo, straordinario testo del filosofo Simone Regazzoni.
La philosofia, amore per il sapere, è anche se non soprattutto philoponia, amore per la fatica, è essere disposti a faticare per cambiare se stessi, per elevarsi.
Ma non essendo l'uomo una mente disincarnata, puro pensiero, res cogitans separata dal proprio corpo vivente, la filosofia non può permettersi di assumere una postura asservita al dominio della sola parola e della razionalità, deve invece ripensarsi come cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita che coinvolge il plesso di mente-e-corpo, come invito ad abbandonare la propria dipendenza da uno stile di vita comodo e cogliere invece l'occasione per allenarsi come un dio (Sloterdijk).
Così è la filosofia in origine, con Platone, filosofo lottatore che pensa nei luoghi in cui si lotta, pensa il proprio discorso nei termini propri della lotta e quando articola in chiave politica la propria filosofia pone l'allenamento in palestra e la lotta come elementi fondamentali per la formazione di maestri e allievi.
Così può e deve tornare a essere, considerando il corpo vivente come spazio di lotta, potenza, benessere, conflitto, pensiero, elevazione, auto-creazione, gioia. La sfida è atletica, estetica, cognitiva, etica e politica insieme, e consiste nella cura di sé (Foucault) come allenamento e combattimento permanente, al fine di essere in grado di fronteggiare, con coraggio, gli eventi, di accedere a un'altra intensità di esistenza (Badiou).
Certo non c'è nessun combattimento senza aggressività e senza il rischio di fare o di farsi male, ma è proprio questo male che si impara a maneggiare, gestire, contenere, pensare: non c'è etica degna di questo nome, se non ci si allena all'uso della forza che ogni vivente possiede in sé, se non ci si prende cura della pulsione di morte, con la pulsione a combattere o di aggressività che ogni soggetto porta con sé. Come anche Montaigne scrive sull'educazione dei fanciulli, è necessario avvezzarli al sudore e al freddo, al vento, al sole e ai rischi affinché essi possano fare ogni cosa, e non desistano dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma per mancanza di volontà.
Attraverso la fatica, e facendo prova dell'essere-esausto, facendo prova del limite, ci si supera per divenire altro da sé: l'elevazione non è un mero potenziamento di sé, accrescimento di sé, ma un divenire in sé altro da sé, un miglioramento, perfezionamento, potenziamento vitale, un divenire-animale (Deleuze) che è accesso alla pienezza della potenza del proprio corpo vivente. Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé. Il soggetto, in questo senso, si costituisce nell'allenamento, l'allenamento è il processo attraverso cui il soggetto costituisce continuamente se stesso al di là di sé: l'allenamento è una pratica di soggettivazione continua che produce un potenziamento vitale. Si è in lotta continua con se stessi per andare al di là di sé. Attraverso allenamento e ripetizione si arriva allo stile, forma incarnata e adatta alla propria singolarità, forma della propria forza e della propria vita, elevazione, intensità, godimento, gioia.
Questo body-building con cui si costruisce il proprio corpo, è anche un lavoro sulla vita ed è contemporaneamente un brain-building, data la neuroplasticità del cervello sulla cui materialità e sui cui processi di pensiero agiscono i movimenti del nostro corpo. Allenarsi è un processo di trasformazione radicale che coinvolge la totalità dell'essere umano, è un trasformarsi, elevarsi, perfezionarsi per essere migliori rispetto a ciò che si è, è una lotta contro la vita mediocre e una tensione verso l'eccellenza.



lunedì 31 ottobre 2016

letture di ottobre

Ogni tanto ritorno a Dave Eggers, questa volta con il bel Conoscerete la nostra velocità, struggente e ironico, geniale e irriverente. Un po' piatto ed eccessivamente cronachistico il romanzo su Alessandro Magno di Klaus Mann.
Arriva al 6° volume e continua a essere appassionante e graficamente esaltante la Saga fumettistica di Brian K. Vaughan, di cui - letto in prospettiva cinematografica - ho molto gradito anche l'avventura del Dottor Strange Il giuramento.
Per la saggistica, interessanti alcuni contributi della fenomenologia curata da Matteo Pellone di un mito (post)moderno quale James Bond, così come il saggio di Giuseppe Panella sulla scrittura di Curzio Malaparte L'estetica dello choc. Sempre piacevoli e ricchi anche i brevi saggi di Alain Badiou, come quest'ultimo appello alla corruzione della gioventù e invita a La vera vita.
Continuando le letture nietzschiane, il bel confronto tra Nietzsche e Foucault sui temi della corporeità e del potere svolto da Stefano Berni nell'ottica di una critica radicale della modernità, la biografia intellettuale di Friedrich Nietzsche scritta da Lou Andreas-Salomé, il noioso Atlante della sua vita e del suo pensiero curato da Giorgio Penzo, il mal scritto - come tutti i libri di Salvatore Natoli, secondo me e al di là dell'interesse dell'argomento - Nietzsche e il teatro della filosofia, il percorso su Il nichilismo di Franco Volpi.

sabato 30 aprile 2016

letture di aprile

Continuano le letture di Igort con i noir Alligatore. Dimmi che non vuoi morire, realizzato con Massimo Carlotto, e 5 è il numero perfetto, la dimenticata guerra del Caucaso dei Quaderni russi; poi, agli antipodi tra di loro, ci sono lo straordinario Kobane Calling di Zerocalcare e il pretestuoso e vuoto La bambina filosofica. No future di Vanna Vinci.

L'esperienza di lettura del primo volume - La morte del padre - dei sei che costituiscono La mia battaglia, dello scandinavo Karl Ove Knausgård, non mi ha dato validi motivi per avvertire il bisogno di continuare con gli altri libri.

Finiti un po' di saggi: l'Astrologia per intellettuali di Marco Pesatori, l'idea di progresso e le arti meccaniche nella filosofia del Seicento raccontate da Paolo Rossi in I filosofi e le macchine, i sette principi del genio che Michael J. Gelb illustra in Pensare come Leonardo, ma soprattutto lo scritto di Paul Veyne sul pensiero e l'uomo che è stato Foucault.

venerdì 7 agosto 2015

letture di luglio - extended

Troppo poco mi sono dedicato a scrivere sui testi letti durante lo scorso mese di luglio. Perciò provo a recuperare un po' qui, tornando almeno su un paio di saggi di filosofia per i quali è giusto spendere qualche parola in più.

In Canone inverso Tommaso Ariemma propone una teoria generale dell'arte, dalla narrativa europea alla Dickens alla produzione popolare nipponica e alla nuova serialità statunitense, che si rivela un ibrido capace di mettere insieme la fruizione tipicamente cinematografica che punta all'effetto simultaneo sui sensi, sul pathos corporeo prodotto da immagini e suoni, e che immobilizza, e la richiesta allo spettatore di attivarsi in un lavoro di archivio e di investigazione, di rintracciamento e di condivisione, di rielaborazione e co-creazione.

Con il suo ultimo La porta stretta Umberto Curi prova a tracciare un itinerario filosofico su come si diventa maggiorenni. Chiamando in causa Kant e il suo coraggio di pensare con la propria testa, di camminare con le proprie gambe, senza girelli, anche a costo di qualche caduta, di disubbedire e denunciare le tante forme di governamentalità che plasmano e condizionano la vita umana (come "traduce" Foucault il motto illuminista); Platone e il suo attacco mortale al padre, la sua filosofia come duro combattimento a tutto campo, battaglia senza quartiere; e altri personaggi filosofico-letterari da Edipo ad Amleto, dai fratelli Karamazov allo scrivano Bartleby, Curi riconosce come la fuoriuscita dalla minorità sia quel terreno di scontro in cui si è costantemente chiamati a mettere alla prova le proprie capacità e il proprio valore, una guerra inconcludibile.


venerdì 14 novembre 2014

letture di novembre (I)

Prima parte del mese dedicata a brevi letture di saggistica filosofica.
Il saggio di Umberto Curi su La forza dello sguardo indaga l'intreccio tra visione e potere, e la sua costitutiva e ineliminabile ambivalenza, che sembra caratterizzare lo sviluppo della storia culturale dell'Occidente, in cui la volontà di conoscenza e il desiderio di appropriazione sembrano saldarsi nella riproposizione di immagini della "rapacità dell'occhio che tutto vuole vedere-conoscere, che tutto vorrebbe rinserrare nel proprio orizzonte" e della figura dell'onniveggente-invisibile.
Il percorso di Curi si apre con Freud e la sua analisi psicoanalitica della vista quale fondamento del perturbante e si chiude con Foucault e l'organizzazione degli spazi, la sorveglianza nella società disciplinare, la dittatura orwelliana dello sguardo panotiico dei dispositivi del Grande Fratello, ma è tutto lo sviluppo centrale a costituire la parte più interessante del saggio, sviluppo il cui tragitto si svolge tutto all'interno del mito e della filosofia antichi: dallo sguardo potente della terribile Medusa al potere dell'invisibilità dell'anello di Gige, dalla tragedia di Edipo e il mito di Narciso al racconto di Platone della caverna in cui l'educazione filosofica emerge quale lotta e combattimento, afflizione e costrizione verso la luce (e con ritorno finale nelle ombre), allenamento dell'occhio e dello sguardo.

Giuliano Torrengo offre una piacevolissima e competente (dal funto di vista scientifico e fantascientifico, filosofico e letterario) guida a I viaggi nel tempo. Dopo aver presentato le diverse teorie sul tempo che si contrappongono nel dibattito odierno (visione dinamica o statica del tempo, nelle loro varie formulazioni moderate e più radicali), valutando quali di esse rappresentano uno sfondo metafisico più favorevole alla posizione dei viaggi nel tempo e quali, invece, sembrano inconciliabili con essi, l'autore chiarisce l'idea della quadridimensionalità dello spaziotempo, le implicazioni della relatività speciale sul concetto di simultaneità e quindi di presente e quelle della relatività generale sulla curvatura gravitazionale dello spazio quadridimensionale. Poi vengono illustrati macchine e tunnel spaziotemporali, costruiti o ottenuti sfruttando le caratteristiche di particolari oggetti cosmici. Infine si affrontano i paradossi del viaggio nel tempo (catene causali circolari, autorapimenti, oggetti provenienti dal nulla, tentativi di cambiamento del passato), mostrando come sia scorretta l'idea che viaggiare nel tempo è impossibile perché ne nascerebbero delle vere e proprie contraddizioni. Il tutto in maniera piana ma non superficiale, da buona guida, efficacie anche nell'uso di esempi e di riferimenti a prodotti dell'immaginario fantascientifico popolare.

Inoltre, di quel femonemo di Slavoj Žižekle cronache del mondo rimosso Distanza di sicurezza e la filosofia dell'Evento; la Piccola filosofia dello Zombie di Maxime Coulombe.

domenica 21 settembre 2014

letture di settembre (II)

Primo ma non ultimo romanzo di Don Winslow da me letto, Il potere del cane non è solo la storia della guerra al narcotraffico ma anche lo straordinario intrecciarsi delle vite e delle vicende di personaggi indimenticabili, dai protagonisti ai comprimari: Art Keller, polizioto che ha votato la sua vita alla crociata contro il traffico di droga; la famiglia Barrera che gestisce il cartello dei narcos messicani, il vecchio boss, Tio, lo "zio", e i suoi nipoti Adan e Raul, l'argento e il piombo, la mente finanziaria e il braccio armato; la prostituta d'alto bordo Nora Hayden; Padre Parada, sacerdote cresciuto tra il popolo e teologo della liberazione; il killer per caso e nonostante tutto Sean Callan e il freddo e crudele esecutore Fabian "El Tiburon" Martinez, Lo Squalo.
"Com'è che si dice: 'Mi ammazzeranno, ma mica mi mangiano'? Non è vero: possono fare tutte e due le cose, ma ciò non significa che tu debba calarti le braghe. Non devi lasciarti mettere al tappeto, devi costringerli a farlo. Si romperanno tutte le ossa delle mani per cercare di buttarti giù, ma tu devi fargli sapere che hai lottato, devi fare in modo che si ricordino di te ogni volta che si guardano allo specchio". E non ci si può che ricordare di tutti questi individui che hanno lottato, a volte vincendo o più spesso perdendo, con la violenza, la crudeltà, il male, il dolore, la morte, la necessità, il potere del cane.
Per le abituali letture filosofiche, abbiamo il piacevole (soprattutto da leggersi in due ad alta voce, magari anche in spiaggia) Un'estate con Montaigne, che raccoglie gli interessanti "tagli" scelti e commentati da Antoine Compagnon per una trasmissione radiofonica sui Saggi del filosofo francese; e la raccolta di scritti e interventi di politica e impegno civili di Michel Foucault che coprono il periodo 1975-84, riuniti nel volume La strategia dell'accerchiamento.

venerdì 11 luglio 2014

body building, chirurgia estetica e filosofia

Nel suo Il corpo preso con filosofia Tommaso Ariemma affronta le contraddizioni che un serio discorso filosofico sul corpo nella nostra epoca necessariamente comporta. Se nella modernità anche il corpo è diventato liquido - celebre espressione del sociologo Bauman - esso è sì, da una parte, più docile alle forme, malleabile, trasformabile, ma può anche, paradossalmente, svelare resistenze e risorse temibili, paradosso dell'esperienza contemporanea che l'autore struttura secondo la logica della contraddizione per cui noi "cerchiamo di afferrare ciò che necessariamente ci sfugge e, al tempo stesso, cerchiamo di evitare ciò a cui non possiamo sottrarci". Paradosso del corpo di cui una efficace immagine è il body building. 
Ma cosa ha a che fare il body building con la filosofia? Non solo la filosofia - da Platone "dalle spalle larghe" in poi - "sarebbe una sorta di body building del pensiero, qualcosa di eccessivo, di non richiesto, portato avanti con il più estremo rigore", una filosofia come atletismo e sollevamento dei pensieri che, secondo Peter Sloterdijk, rimanda all'amore "per la fama gloriosa attribuita ai vincitori nelle gare" e a quello "per la fatica, l'onore, lo sforzo" (Devi cambiare la tua vita); non solo lo stile di vita del body building è pericolo e minaccioso, non violento bensì provocatorio, come può esserlo un pensiero che mette in dubbio il modo di vivere e la scala di valori comuni; ma il body building fa dono alla filosofia di due fondamentali paradossi, quello del limite e quello della fragilità.
Il body building mostrerebbe che "non c'è alcun superamento di limiti che non provenga da maggiori limitazioni. Il continuo superamento operato dal culturista del proprio tono muscolare sarebbe frutto di sempre maggiori restrizioni: diete, intensità dell'allenamento, determinazione. Più ci si vuole liberare dal proprio corpo, e più il corpo ci inchioda, ci vincola". Inoltre, poiché nel body building la costruzione del corpo si ottiene attraverso una sua continua traumatizzazione, "più ricerca un corpo statuario e più il culturista si trova a fronteggiare differenti fragilità, più si ricerca la durezza, e più la fragilità si insinua". Se per costruire un corpo muscoloso "bisogna lavorare lavorare su ogni parte, decostruire per costruire", la filosofia decostruzionista di Jacques Derrida è estenuante come gli allenamenti del culturista. 
Nel nostro tempo questo controllo del proprio corpo che il body building mette in scena riguarda sempre più anche il controllo della sua immagine sociale, del suo "archivio fotografico", del suo facebook. Ma "nel momento in cui il nostro corpo diviene qualcosa da vedere e da far vedere, il suo controllo totale si rivela impossibile. Anche perché 'prendere corpo' è un'impresa che dura una vita, persa ogni volta che sperimentiamo la sua verità: prendiamo davvero corpo, quando il corpo è preso da un altro". Come scrive Michel Foucault "sotto le dita dell'altro che ti percorrono, tutte le parti invisibili del tuo corpo si mettono a esistere. Contro le labbra dell'altro le tue diventano sensibili" (Il corpo, luogo di utopia); e anche Daniel Pennac afferma che "il nostro corpo è anche il corpo degli altri" (Storia di un corpo). Così, "il mio corpo è il 'mio' che non possiedo, il 'qui' che non raggiungo, il familiare più estraneo". E dopo il body building è la chirurgia estetica che esplicita la realtà costruttiva e paradossale del corpo, come il corpo sia un fare corpo, come "l'uomo non ha semplicemente un corpo, ma prende corpo, fa corpo". 

lunedì 6 gennaio 2014

letture di gennaio (I)

Finiti in rapida successione i tre brevi saggi iniziati a leggere negli ultimi giorni del 2013, allettato dal mal di schiena.
Interessanti i dialoghi con Habermas e Derrida di Giovanna Borradori sulla Filosofia del terrore, riflessioni sul traumatico evento dell'11 settembre, del 9/11, che - secondo Derrida - rimane terribile e ferita "infinita" perché non si sa che cosa sia, perché destabilizza lo stesso "sistema di interpretazione, l'assiomatica, la logica, la retorica, i concetti e le valutazioni che si crede permettano di comprendere e di spiegare" la realtà, visto che - dalla fine della Guerra fredda - l'apparato concettuale, semantico, ermeneutico che avrebbe dovuto neutralizzare il trauma e così attenuarlo attraverso l'elaborazione del lutto, dipende con tutto quello che possiamo chiamare l'ordine mondiale in larga parte dalla stessa solidità degli Stati Uniti. La ferita è "infinita" anche perché mantenuta aperta sull'avvenire, segno premonitore "di ciò che potrebbe ancora accadere e che sarà peggio di tutto ciò che è successo", male assoluto e minaccia assoluta che è un terrificante rimettere in gioco niente di meno che l'esistenza del mondo.

Lo straordinario artista Pablo Echaurren omaggia il gruppo musicale, o meglio la happy family, dei Ramones con il suo imperativo Chiamatemi Pablo Ramone, non una cronaca o storia dei Fast Four (da non confondere con i Fab Four) ma con un personalissimo e idiosincratico tributo pagato alla propria passione musicale (che cerca, però, anche di concettualizzarsi e richiamarsi, così, a motivazioni universali e necessarie e non solo soggettive) e, insieme, un elogio della mazza da baseball, come recita il sottotitolo, del fare arte contro l'accademia: "quando sento Tommy o Marky stantuffare e picchiare come magli sulla batteria e sui miei più intimi frattagli con quella cadenza poderosa-cavernosa che pare scaturire da tamburi in vera cotenna d'elefante, mi chiedo come sia stato possibile che l'intero universo non abbia ancora recepito e di conseguenza non abbia ancora tributato la propria eterna riconoscenza a loro, ai Ramones. Per l'opera prestata e quella pestata. Con una mazza da baseball".

Purtroppo un po' deludente la lettura di Mostri, draghi e vampiri, analisi proposta da Emma Palese sul passaggio dal mostro come simbolo del meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze. Attraverso un processo di polarizzazione, il mostro gradualmente perde il proprio significato più primitivo e universale - il drago, guardiano di un tesoro o di un luogo sacro, simbolo del transito dall'uomo vecchio a quello nuovo, di slancio vitale ed energia che divora e rigenera insieme - e da tutto si fa parte, il cui grande corpo è razionalisticamente ridotto al diverso, al piccolo perverso - adottando una visione funzionale e organicistica/organica/organizzata del corpo -, finendo nel vaso dell'embiologo. Infine, ora che gli strumenti della tecnica permettono di agire sulla propria fisicità, tutti possono diventare mostri, cyborg - "emblema della perfettibilità umana e del desiderio di superamento di se stessi, ma presenta anche un triste schiacciamento da parte del potere, che si sostanzia nell'intuizione foucaltiana secondo cui i corpi si governano attraverso i loro desideri", perché l'uomo, essere dai desideri illimitati, è perciò stesso altamente vulnerabile - e vampiri - dal mancato appagamento, vittime e consumatori di se stessi, della propria fame e brama che rinasce e si moltiplica tormentandoli.

sabato 12 ottobre 2013

letture di ottobre (I)

Ancora il corso su moderno e postmoderno, e la tappa di questa parte riguarda Horkheimer, Adorno e Foucault.
Di Michel Foucault mi è toccata una doppia razione. Prima, la lettura di Che cos'è l'illuminismo?, un breve articolo in cui il filosofo francese rileva l'importanza dell'omonimo scritto di Kant nel suo essere - con il suo riflettere sul proprio presente, sulla pura attualità, sul momento singolare in cui si scrive e a causa del quale si scrive, sull'oggi quale motivo per un compito filosofico particolare - l'abbozzo di ciò che si può chiamare l'atteggiamento moderno, consistente nell'assumere se stessi come oggetto di un'elaborazione complessa e ostica, in un'indagare archeologico e genealogico le contingenze che ci hanno fatto essere quello che siamo e la possibilità di non esserlo, farlo o pensarlo più, rilanciando un indefinito lavoro di libertà. Allo stesso tempo, l'articolo di Kant è la giustificazione della più vasta e complessa elaborazione filosofica sviluppata nelle tre Critiche: esse hanno il compito di definire le condizioni di possibilità in cui l'uso della ragione è legittimo per determinare ciò che si può conoscere, che si deve fare, che è permesso sperare, nel momento in cui la ragione, con l'illuminismo, è divenuta "maggiorenne". Seconda, quella di Storia della follia nell'età classica, nella sua parte iniziale sul "grande internamento": la tracciatura di una linea di separazione ben marcata tra ragione e follia che passa per l'istituzione delle grandi case di internamento per poveri, disoccupati, corrigendi e insensati - a un tempo luoghi di assistenza e repressione, beneficio e punizione, ma legati a nessuna idea medica quanto piuttosto a un'istanza di ordine e a un esercizio di riforma e coercizione morale (stupefacente sintesi di obbligo morale e legge civile, morale impartita per via d'assegnazione amministrativa)  -, assecondando l'idea borghese secondo cui la virtù è un affare di Stato e la repubblica del bene va imposta con la forza a tutti quelli sospettati di appartenere al male. Insomma, prigioni dell'ordine morale fondate sull'idea che se si è riusciti a sottomettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l'uomo che si è fuorviato.

Per Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, invece, la lettura è stata quella di Dialettica dell'illuminismo. "La terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura" che irradia da una ragione che ha divorziato dalla verità per l'operatività e il procedimento efficace, che ha rinunciato al significato e sostituito il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità. Per i due filosofi della Scuola di Francoforte "l'illuminismo è totalitario", impone un dominio integrale, patriarcale e livellatore (dell'astratto e dell'industria) che segna il trionfo dell'uguaglianza repressiva, il dispiegarsi dell'uguaglianza giuridica in ingiustizia inflitta, dispiegarsi che è una degenerazione che ha luogo quando "la giustizia si perde nel diritto". L'umanità moderna e illuminata ha dovuto sottoporsi a una serie di spaventosi trattamenti perché nascesse e si consolidasse "il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo". Il risultato, però, è stato quello di un pensiero reificato e trasformato in un processo automatico, dell'accantonamento dell'esigenza classica di "pensare il pensiero", quest'ultimo ridotto, invece, in cosa e strumento, limitato a compiti organizzativi e amministrativi degni di ottusi e ingenui direttori generali.

lunedì 21 maggio 2012

critica come passione durevole

Il libro vorrebbe essere una professione di libertà, e più precisamente una rivendicazione della propria consapevole scelta di insubordinazione ragionata, di rifiuto di partecipare alla propria stessa alienazione all'interno della gabbi d'acciaio globale, seguendo l'invito di Horkheimer a evitare la "pacificazione personale del filosofo in un mondo disumano" (Teoria tradizionale e teoria critica).
Occorre subito chiarire che l'orizzonte in cui ci muoviamo è costituito dal rifiuto incondizionato del proprio mondo storico e dalla complementare tensione verso un futuro diverso e migliore, seguendo le suggestioni della blochiana "ontologia-del-non-ancora". A differenza della fede, che rende inattivi e induce alla docile accettazione del "mondo-così-com'è", il principio di speranza è antiadattivo e rivolto alla prassi: spezzando la mistica della necessità e facendo balenare l'idea di un futuro alternativo, esso, con il suo "ottimismo militante", risveglia dal torpore e spinge a un'azione orientata a far sì che il futuro intenzionato trovi cittadinanza tra le pieghe del reale. Il principio di speranza ci ricorda che l'"essere-secondo-possibilità" è la stoffa di cui è intessuto il reale e che, di conseguenza, si dà sempre l'opportunità di "essere-diversamente-da-come-si-è", di riprogrammare la sintassi del mondo quand'anche esso, come oggi accade, venga proclamato intrasformabile.
Nel contesto dell'odierna alienazione globale, non esiste alcuna etica possibile se non di opposizione e di resistenza, un'etica cioè che, ispirata al monito di Adorno circa la falsità dell'intero, dia luogo a un consapevole rifiuto della totalità in cui si è proiettati. In questa strategia foucaultiana di "indocilità ragionata" (Illuminismo e critica), di consapevole disobbedienza all'ordine del mondo e di rivendicata libertà di "dire-di-no", sono nostri preziosi alleati tanto il Marcuse del "Grande Rifiuto" quanto il più prosaico scrivano Bartleby e il suo ostinato I would prefer not to. Si tratta di maturare una coscienza infelice rispetto all'esistente che permetta di "innalzarsi sopra la propria particolarità" empirica e di "dar luogo a una passione durevole", critica e antiadattiva, che induca all'adesione alla propria potenziale universalità emancipata, invocando - secondo la prospettiva di Bloch - "ciò che non c'è ancora, cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale" (Spirito dell'utopia).

(Diego Fusaro, Minima mercatalia)

giovedì 2 giugno 2011

l'ubuismo del potere

Cosa voleva dire Badiou quando disse che uno dei nostri problemi oggi è che c’è troppa libertà? Forse un esempio estremo di quello a cui voleva arrivare lo possiamo vedere nella vacuità morale ritratta nel documentario Freemen: When Killers Make Movies, girato in Indonesia nel 2007. il film racconta di un caso di oscenità che raggiunge proporzioni estreme: un film, girato da Anwar Congo e i suoi amici, che sono oggi uomini politici rispettati, ma che erano un tempo gangster e leader di squadroni della morte che giocarono un ruolo chiave nell’uccisione nel 1966 di circa 2,5 milioni di presunti simpatizzanti comunisti. Freemen tratta di «assassini che hanno vinto, e del tipo di società che hanno costruito». Dopo la loro vittoria, i loro crimini non vennero relegati allo status di «sporchi segreti», il crimine fondatore le cui tracce devono essere cancellate; al contrario, gli assassini millantano apertamente i dettagli dei loro massacri. Nell’ottobre del 2007, la televisione statale indonesiana produsse un talk show che esaltava Anwar e i suoi amici; nel mezzo dello show, dopo che Anwar dice che i loro omicidi erano ispirati da film di gangster, la raggiante presentatrice si volta verso la telecamera e dice: «Stupefacente! Un grande applauso per Anwar Congo!». Quando chiede a Anwar se teme la vendetta dei parenti delle vittime, lui risponde: «Non possono. Appena alzano la testa li annientiamo!». Il pubblico in studio esplode in applausi esuberanti.
Il punto sono gli effetti dissestanti della globalizzazione capitalistica che, minando l’«efficacia simbolica» delle strutture etiche tradizionali, crea un tale vuoto morale. Qui uno sguardo all’Italia di Berlusconi può essere istruttivo. Siamo certamente ben distanti dai freemen dell’Indonesia, ma i primi passi in questa direzione sono stati compiuti: l’ostentazione pubblica di oscenità private, le confessioni indecenti in show televisivi, il miscuglio senza vergogna di politica e interessi affaristici privati, tutto questo crea poco a poco un pericoloso vuoto morale. Il 4 settembre 2009 Niccolò Ghedini, l’avvocato di Berlusconi, disse che Berlusconi «è pronto ad andare in tribunale a spiegare che non solo non è un gran porco, ma non è nemmeno impotente». Dà i brividi immaginare come esattamente Berlusconi potrebbe «spiegare» la sua potenza sessuale.
L’attuale «ubuismo» del potere – il termine fu coniato da Foucault, che si riferiva a Ubu roi di Alfred Jarry, per caratterizzare la sovranità oscena/stravagante di un potere decadente – sta in forte contrasto con i «totalitarismi» del ventesimo secolo, che insistevano sull’intoccabile dignità di coloro che stavano al vertice del potere. Nell’odierna politica «ubuizzata» l’impossibile diventa possibile, e questo tipo di autoderisione avviene sempre, mentre il potere continua a funzionare senza intoppi. Il compito è di ripristinare la cortesia: la cortesia supplisce alla mancanza o al collasso della sostanza dei costumi, la cortesia sta per la consuetudine dopo la caduta del grande Altro, assume il ruolo principale quando i soggetti incontrano una mancanza di etica sostanziale. Quanto più manca il «profondo» contesto etico sostanziale, tanto più abbiamo bisogno di una cortesia «superficiale».

Nell’Italia di Berlusconi, dove un autoproclamato clown gode di popolarità, alcune forme di violenza dovranno chiaramente essere riabilitate.

(da Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi)


martedì 5 aprile 2011

il gioco dei mondi: eterotropie e critica della normalità

«Vogliamo davvero far sì che l’esistenza si avvilisca in un esercizio da contabili e da matematici chiusi nel loro studio? Innanzitutto non si deve spogliare l’esistenza del suo carattere polimorfo: lo esige il buon gusto, signori miei, il gusto del rispetto di fronte a tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! Un’interpretazione “scientifica” del mondo, come l’intendete voi, potrebbe esser pur sempre una delle più sciocche, cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo, una delle più povere di senso» (Friedrich Nietzsche).

Con le parole di Michel Foucault, «la filosofia è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). La storia di Harry Potter inizia proprio con la rottura di un certo regime dell’esistenza supposto normale, con la messa in questione radicale della credenza secondo cui esisterebbe un solo mondo, il presunto mondo normale in cui orgogliosamente vive, e di cui è la triste espressione, la famiglia Dursley: «Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante» (Harry Potter e la pietra filosofale). Fin dall’inizio, dunque, la portata etico-politica dei romanzi della Rowling emerge come la necessità di decostruire l’idea dell’esistenza di un solo mondo e di imparare a esistere in più di un mondo. Non a caso la questione del male, incarnata dal Signore Oscuro, Lord Voldemort, si presenta come l’incubo dai precisi tratti nazisti di un unico mondo come totalità purificata da ogni alterità, un mondo di maghi purosangue.
Il mondo magico e il mondo normale (o babbano) sono due mondi distinti simultaneamente presenti, ripiegati l’uno nell’altro. Questa dimensione di ripiegatura è ben evidente nel caso dell’abitazione della famiglia Black al numero dodici di Grimmauld Place, che si trova ripiegata tra il numero undici e il numero tredici: «Una porta malconcia affiorò dal nulla. Era come se una casa in più si fosse gonfiata, spingendo da parte quelle ai lati» (Harry Potter e l’ordine della fenice). Si pensi, oltre che alla casa dei Black, a Diagon Alley che si apre “dietro” il Paiolo Magico situato in Charing Cross Road a Londra, e al binario nove e tre quarti che si trova “tra” il binario nove e il binario dieci di King’s Cross Station. Il mondo magico è uno spazio altro che abita nelle pieghe del mondo normale, al contempo fuori degli spazi in cui si trova incluso. L’altro mondo magico ha tratti in comune con quelle che Foucault chiamava eterotrofie, e più precisamente con quelle che chiamava eterotrofie di crisi: spazi riservati agli individui che vivono in uno stato di crisi nei confronti della società e dell’ambiente umano circostante, come ad esempio gli adolescenti.
Secondo Foucault le eterotopie di crisi stanno scomparendo a favore delle eterotopie di deviazione, spazi «in cui vengono collocati gli individui che hanno un comportamento deviante rispetto alla media o alla norma richiesta» (Eterotopia). L’eterotopia del mondo magico si presenta come la contestazione in atto, e l’effettiva decostruzione, non solo dell’unicità del mondo presunto normale, e del suo modello di razionalità tecnico-scientifica, ma anche dell’idea di eterotopie di deviazione quali spazi di reclusione dei soggetti che non si adeguano alla presunta normalità del mondo. La sua forza di rottura è quella propria del fantastico: «Tutto il fantastico – come scrive Caillois – è rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile in seno all’inalterabile legalità quotidiana» (Nel cuore del fantastico), è l’incondizionata affermazione di un diritto all’esistenza di un mondo altro.
Il messaggio che ci arriva dai testi della Rowling è l’opposto di un invito a rifugiarsi nel sogno e nelle illusioni: è un invito, piuttosto, a non rassegnarsi a vivere imprigionati in un solo mondo – nel presunto mondo normale. Come all’interno del romanzo Harry Potter e la pietra filosofale le lettere rivelano a Harry la verità di un altro mondo in cui esistere – imparando nuovi linguaggi, acquisendo nuovi saperi, entrando in nuove reti di relazioni –, allo stesso modo la letteratura, e nel caso specifico la saga di Harry Potter, ci rivela un mondo: apre per noi la verità di un mondo in cui esistere. Ogni romanzo della saga è come una specie di lettera spedita dall’altro mondo, che ci chiede di rispondere: vale a dire di accogliere e farci carico della verità di quel mondo che rovescia l’ordinario. È quanto ha affermato Heidegger: «L’arte è il porsi in opera della verità», e «il porsi in opera della verità apre il prodigioso, rovescia l’ordinario e ciò che è mantenuto come tale». Nell’opera così intesa «ci colpisce l’urto del prodigioso, respingendo ciò che fino allora appariva normale» (L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti).

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

lunedì 28 marzo 2011

i lampi di possibili tempeste

More about Harry Potter e la filosofia«La critica sentenziosa mi fa addormentare – diceva Foucault –; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). Sono i lampi di queste tempeste ciò che la filosofia dovrebbe provare a scatenare in un inedito confronto con il proprio tempo. La cultura di massa o cultura pop, con le sue storie e i suoi mondi, è oggi un campo imprescindibile per l’esercizio dell’antico e nobile amore della sapienza. Un esercizio qui inteso come riscrittura filosofica del testo pop e montaggio del testo filosofico con il testo pop. 
Certo, nell’Occidente antimagico vi sarà sempre qualche Babbano pronto a dichiarare che un romanzo di maghi, fantasmi, manici di scopa volanti, draghi, è diseducativo per la ragione, oltre che per i giovani lettori di cui rischierebbe di distorcere l’indole, e tante grazie. Ma questa, in fondo, è solo una vecchia storia, buona per spiriti tristi e risentiti che non sanno come giustificare la propria pigrizia intellettuale. E di questa storia, francamente, mi importa poco o nulla. La saga di Harry Potter è vera e reale perché apre un mondo. È quanto ci ha insegnato Heidegger: un’opera d’arte è la messa in opera di una verità in quanto è capace di aprire un mondo, di mettere in atto un mondo. È da qui, e non dai balbettii di certa critica letteraria, che occorre partire per comprendere la portata del romanzo-mondo creato dalla Rowling. La saga di Harry Potter è, a tutti gli effetti, un’opera d’arte della cultura pop di grande complessità e bellezza, e una risorsa straordinaria e potentissima per l’esercizio della filosofia. Una filosofia per bambine e bambini, streghe, maghi e Babbani. E per quanti sanno prestare ascolto alle parole di un grande poeta, René Char, che scriveva: «Sviluppate la vostra legittima stranezza».

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

mercoledì 16 marzo 2011

follia e nichilismo

Kefka, il nemico in Final Fantasy VI, è uno dei personaggi più filosoficamente densi nel mondo dei video giochi. Secondo Michel Foucault, in Storia della follia nell'età classica, durante il Medioevo le comuni caratteristiche della follia erano spesso viste come segni di una velata saggezza: c’era una nozione più positiva di follia. Foucault è convinto che una trasformazione da velata saggezza a follia sia iniziata con le visioni cristiane dell’apocalisse. Le allusioni bibliche all’incapacità umana di comprendere le ragioni di Dio hanno condotto a ritenere che quelli che si fossero avvicinati troppo a questa comprensione sarebbero stati condotti alla follia. Verso il XVII secolo, i folli erano temuti perché si supponeva che fossero stati ridotti all’insanità per essersi imbattuti in segreti nascosti sull’universo e su un’apocalisse prossima a venire. Se prendiamo in considerazione questo, allora il processo di fusione di Kefka con la Magicite potrebbe avergli donato una rivelazione di oscuri segreti e visioni dell’apocalisse. La paura di ciò che accadrebbe se gli dei della magia dovessero ritornare dà origine alla nozione di follia nel gioco, nella stessa maniera in cui la paura per l’apocalisse cristiana ha creato l’etichetta di follia alla fine del Medioevo. Kefka è rapidamente etichettato come folle perché quelli intorno a lui temono le conoscenze di cui potrebbe essere in possesso.
Prima che la storia si concluda Kefka accumula un potere divino e scopre che non c’è un significato ultimo dietro l’esistenza del mondo. Così si organizza per distruggerlo. Quando raggiunge l’apice del potere razionale disponibile sia per gli uomini sia per gli dei, all’improvviso scopre che non esiste alcuna giustificazione per la vita.
Etichettare Kefka come folle è in realtà solo un tentativo di ignorare quello che potrebbe essere un valido punto di vista. Kefka, raggiunto l’obiettivo di un potere e una conoscenza definitivi, va incontro ad un’interessante metamorfosi: non più in vestito da giullare, egli ha invece assunto un’angelica forma alata e il suo atteggiamento è quello di un distaccato stoicismo. Kefka afferma che non c’è alcun significato nel mondo, nessuna ragione che giustifica l’esistenza. Gli Eroi del gioco provano ad argomentare contro Kefka e spiegargli ciò che dà alle loro proprie vite un senso, ma Kefka non è diventato irrazionale o illogico, piuttosto arazionale, non contrario alla ragione ma al di là del dominio di essa. Gli Eroi che provano a convincere Kefka che l’esistenza ha una giustificazione, invocano desideri ipotetici di cui ormai Kefka è sprovvisto.
Mentre la vita può mancare di uno scopo oggettivo, ognuno di noi è venuto al mondo con la capacità di decidere cos’è significativo per noi. La comprensione di Kefka può fare un po’ di luce sulla connessione tra il famoso detto di Nietzsche “Dio è morto”, l’intima insensatezza della morale e dell’esistenza, e il nietzschiano concetto di Oltreuomo (Übermensch). Il rapporto di Kefka con il resto dell’umanità non è caratterizzato da animosità: dopo la sua ascensione a uno stato di divinità, egli non pronuncia una sola parola d’odio contro i protagonisti del gioco. L’umanità prega per ottenere compassione, ma questa è qualcosa di cui Kefka manca, semplicemente perché è una virtù creata da quelli cui manca il potere, una virtù razionalmente non necessaria alla superiorità, allo stato di divinità, ad una morale aristocratica e nobile.
Kefka è allora un Oltreuomo? Il personaggio di Nietzsche che proclama la morte di Dio, dichiara di essere giunto troppo presto e che il mondo non è ancora pronto per affrontare le conseguenze di un’esistenza nuova e senza Dio. Questa mancanza di preparazione è la vera preoccupazione che Kefka incarna: che senza Dio non c’è scopo o significato per l’esistenza. La nostra paura è che un mondo nel quale Dio sia stato scacciato o rimpiazzato dalla sola ragione sia un mondo in cui l’unico esito possibile sia il desiderio nichilistico di distruzione di ogni cosa. Nietzsche vuole più di quanto Kefka possa offrire all’umanità. Il vero Oltreuomo è capace non solo di scacciare Dio e la vecchia morale, ma di superare anche il nichilismo: questo uomo del futuro redime non solo dall’ideale che ha regnato fino ad ora, ma anche da ciò che potrebbe crescere dopo di esso, la grande nausea, la volontà di nulla, il nichilismo… è un anticristo e un antinichilista.
La lotta contro Kefka conduce i protagonisti faccia a faccia con l’influenza negativa della magia – della religione, del controllo, dell’autorità – e li costringe ad imparare a vivere senza di essa. È la battaglia più grande: la battaglia di trovare un senso quando non ne è dato nessuno.

(da Kylie Prymus, Kefka, Nietzsche, Foucault: madness and nihilism in Final Fantasy VI, in Final Fantasy and Philosophy)

 

domenica 27 febbraio 2011

big brother is watching you

Il Grande Fratello produce ed è il prodotto di uno spazio pubblico in cui la violenza del gruppo si esercita sulla base di somiglianze e apparenze: maggiore o minore conformità a un modello di riferimento, maggiore o minore pertinenza a uno spazio sociale legittimo, lo spazio prediletto dal pubblico. Esercitando un controllo sulle comunicazioni che hanno luogo nell’appartamento, il processo del Grande Fratello riflette e ridefinisce le linee di legittimità pubblica. È un meccanismo di costruzione del politico, un processo di ridefinizione, attraverso il dibattito e l’esclusione, dei parametri di riconoscimento pubblico.
Il Grande Fratello ci invita a osservare i criteri in base ai quali si esercita e si deve esercitare la violenza del gruppo. Si tratta di una violenza pubblica perché è esercitata in pubblico e per il pubblico: è una violenza visibile e da vedere. L’attributo della pubblicità, così inteso, accomuna il Grande Fratello alla violenza ugualmente legale e pubblica della gogna e del supplizio.
Il pubblico-audience guarda all’appartamento per decidere, ma soprattutto per imparare, quali siano i comportamenti giusti, le virtù pubbliche, i modelli legittimati e vincenti. E le virtù pubbliche emergono da comportamenti privati, modi di essere a prima vista insignificanti, idiosincrasie personali e vizietti, i casi strani della vita, le più diverse vicende personali, eccezionali e curiose, o comuni e banali. Questo privato è sottoposto ad attenta osservazione e discussione pubblica: “sottrarre la vita privata allo sguardo pubblico”, scrive Bauman ne La solitudine del cittadino globale, “non è più nell’interesse del pubblico”.
Le miserie private degli ospiti dell’appartamento vengono sottoposte al tribunale di una ragione pubblica che su di esse discute e delibera. L’audience ricorda lo sguardo “attivo” del potere sul pubblico tipico del sorvegliante, del medico, del maestro, piuttosto che lo sguardo “passivo” del pubblico sul potere, tipico della sovranità. Osservando ciò che accade nella casa privata del Grande Fratello, l’audience apprende gli standard del governo della cosa pubblica, riconosce i criteri normativi di normalità, produce gli esempi di vita buona, o al contrario di vita infame, individua le patologie sociali.
Quindi, a ben vedere, non c’è una moltitudine che, raccolta in una piazza mediatica, osserva la gogna, non c’è il sovrano che le si mostri glorioso, terribile e magnifico; nel Grande Fratello non c’è sovrano. C’è invece un grande esperimento di psicologia dei gruppi, basato sulla spettacolarizzazione della vita quotidiana, che invita a controllare, riflettere, discutere sui modelli di vita buona, degna di essere vissuta, vigenti nel gruppo, e sui criteri normativi, desiderabili o biasimevoli, di normalità nel gruppo. Attraverso il Grande Fratello, la “società di controllo” riflette su se stessa.
Si noti che, a differenza del Grande Fratello del libro di Orwell 1984 – il Grande Fratello totalitario –, il nuovo Grande Fratello televisivo non vuole produrre l’”uomo nuovo”, non produce identità forti e riconoscibili, coerenti, con un progetto di vita inscritto nella loro normalità: lo studente, il soldato, l’operaio… Da Foucault sappiamo che, nella società moderna, queste identità chiare e riconoscibili erano il prodotto di istituzioni come la scuola, l’ospedale, l’esercito, la prigione, la fabbrica, tipiche di ciò che egli chiamava “sistema disciplinare” (Sorvegliare e punire). Oggi, alle pratiche disciplinari si è affiancato un nuovo sistema di controllo. Nella società di controllo, come nel Grande Fratello televisivo, l’identità tende a farsi evanescente perché deve modularsi in base agli spazi che attraversa, ai codici che la scandiscono: per avere successo bisogna sembrare spontanei, apparire autentici, “fingere di non fingere”, stabilendo con il pubblico un contatto personale. La sfera pubblica è ora “il mezzo comune di una appropriazione divenuta privata: si entra così nei misti pubblico-privato che costituiscono il mondo moderno. Il legame diventa personale” (Deleuze e Guattari, Millepiani). Il contatto personale garantisce un controllo efficace e continuo: ognuno controlla se stesso e gli altri, tutti controllano tutti.

(da Giulio Itzcovich, Grande Fratello. Le due morti di Jade Goody, in Pop Filosofia)

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