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lunedì 14 luglio 2025

fascismo liberale

Il volume Trump e il fascismo liberale raccoglie e riunisce una serie di scritti di Slavoj Žižek composti tra il giugno 2024 e l'aprile 2025 e dedicati alla figura di Donald Trump e al concetto di fascismo liberale. Quello che sembra essere descritta e analizzata è l'emersione di un progetto politico che punta a ridefinire l'ordine geopolitico mondiale secondo una nuova logica di potenza, scavalcando le mediazioni diplomatiche e le forme multilaterali. Trump non sarebbe allora un imprevedibile outsider - come magari nel 2016 - ma il sintomo maturo di una trasformazione strutturale dell'ordine politico occidentale: dagli attacchi alla stampa al rifiuto di ogni mediazione istituzionale, fino alla normalizzazione di pratiche apertamente autoritarie, il femonemo trumpiano non appare dunque come eccezione ma come forma estrema di ciò che è già diventato norma. Trump non è allora una frattura rispetto all'ordine liberale, ne è piuttosto la radicalizzazione grottesca: libertà come obbedienza volontaria, eccesso come autenticità, violenza come diritto. Perché liberalismo e fascismo funzionano assieme, sono le due facce della stessa medaglia, e l'autoritarismo di Trump è anche il sogno di consentire al mercato di funzionare liberamente nella sua forma più distruttiva, nel più brutale perseguimento del profitto e nel discredito per ogni moderazione etica.

Trump è un leader iperpresente, la cui autorità si fonda sulla volontà, e che disprezza apertamente la cultura, ed è proprio questo teatro ribelle, antisistema, a costituire per molti il punto principale d'identificazione. Ecco perché gli insulti seriali di Trump e le sue menzogne plateali, per non parlare del fatto che sia un criminale condannato, funzionano a suo favore: il suo trionfo ideologico sta nel fatto che i suoi seguaci vivono la propria obbedienza come una forma di resistenza sovversiva. Si può sostenere un leader fascista in ascesa con un atteggiamento di totale obbedienza e sentendosi allo stesso tempo radicali.
Trump non prova nemmeno a mascherare le contraddizioni o i continui cambiamenti di posizione: giorno dopo giorno, dice di getto ciò che gli passa per la mente come risultato della sua pienamente consapevole assunzione del ruolo di Maestro al di là della legge e della logica, un maestro che afferma il proprio potere cambiando continuamente ciò che sostiene. L'opacità assoluta di questi atti rende la sua autorità assoluta.
Lo stile della performance pubblica
di Trump - dire qualunque cosa gli passi per la testa, insultare, infrangere ogni regola di buona educazione - non ha nulla di liberatorio, ma serve solo a rafforzare l'oppressione e la mistificazione sociale: le vere questioni politiche, economiche e ideologiche sono più invisibili che mai. Il problema non è che Trump sia un clown, il problema è che dietro le sue provocazioni c'è un programma, c'è un metodo nella sua follia. Le sue oscenità sono parte di una strategia populista per vendere questo programma fatto di tagli alle tasse per i ricchi, meno sanità e protezioni per i lavoratori ecc
Trump promette libertà, deregolamentazione, più, ovviamente, l'assenza di libertà per chiunque critichi la sua politica, stabilendo ciò che si può definire totalitarismo liberale. Proprio perché il limite istituzionale della nostra libertà è la forma stessa della nostra libertà, conta come questo limite è strutturato, qual è la forma concreta di questo limite. L'inganno di chi detiene il potere consiste nel presentare la propria forma di questo limite come la forma della libertà in quanto tale, così che ogni lotta contro di loro appaia come una lotta contro la società libera in quanto tale. Trump presenta la sua forma di libertà come la forma della libertà in quanto tale, così che qualsiasi critica possa essere rappresentata come un attacco alla libertà stessa, ed egli avrebbe pertanto pieno diritto di difenderla da questi attacchi con ogni mezzo necessario, inclusi il licenziamento dei dissidenti, la loro esclusione dallo spazio pubblico o persino il loro arresto. La libertà trumpiana richiede così un intervento statale ancora più forte di quello invocato dalla cancel culture - di cui i trumpiani sono grandi oppositori -, finendo per fare esattamente la stessa cosa, in modo molto più brutale.

Il regno di Trump non rischia di portare a eventi catastrofici, ma - peggio - il rischio è che la vita continui passando però attraverso una serie di misure che minerà il patto sociale liberal-democratico trasformando il tessuto profondo che tiene insieme ciò che Hegel chiamava Sittlichkeit e Lacan il "Grande Altro": l'insieme non scritto di costumi e regole riguardanti cortesia, verità, solidarietà sociale, diritti delle donne ecc. Questo nuovo mondo apparirà come la normalità, e in questo senso il regno di Trump potrebbe davvero segnare la fine del mondo, di ciò che di più prezioso la nostra civiltà aveva costruito - e questo nuovo mondo sarà multipolare, nel senso che un pugno di Stati forti definiranno ciascuno la propria sfera di influenza e limiteranno la sovranità dei vicini più piccoli: una realtà che ricorda in modo inquietante 1984 di George OrwellIl discorso trumpiano rappresenta dunque una minaccia per la sostanza stessa della nostra vita sociale, contribuendo direttamente alla disintegrazione sociale. La mancanza di buone maniere esclude semplicemente l'altro dalla comunicazione.

Che fare? Secondo il filosofo sloveno, per quanto riguarda l'Europa, essa dovrà (ri)definirsi chiaramente - e qui già sorgono problemi con gli Stati e le forze populiste contrarie all'Europa unita e alla sua eredità emancipatrice. Di questa ridefinizione fanno parte anche l'autonomia militare e la riformulazione della sua politica economica in direzione di un maggior coordinamento e della pianificazione su ampia scala.
Per quanto riguarda la sinistra, il populismo trumpiano è una reazione allo Stato sociale liberal-democratico che si è avviato verso la propria autodistruzione (oltre che verso l'impotenza) nel momento in cui ha concentrato la propria attenzione sulle politiche identitarie: la pseudo-lotta di classe trumpiana è il ritorno del rimosso della sinistra liberal incentrata sulle identità. Il compito è dunque raccogliere gli obiettivi generali dalla sinistra, senza il suo spirito censorio e rancoroso, e dal populismo trumpiano, invece, la volontà irriverente di cambiamento, perché comunque solo attraverso un diverso investimento passionale può emergere qualcosa di nuovo.

giovedì 13 febbraio 2025

napoleone e l’arte dei dittatori moderni

Il secondo dei due testi che prendo e propongo per approfondire il tema del potere politico e della sua legittimità è il primo capitolo del saggio Il bello, il buono e il cattivo di Demetrio Paparoni, testo che indaga come la politica abbia condizionato l’arte negli ultimi cento anni.

Nel Seicento, con l’assolutismo di Luigi XIV, e nel Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione, la Francia si affermava come una grande potenza dominante in Europa, sia sul piano politico e militare, sia su quello culturale. Ma a imprimere la svolta che avrebbe incoronato Parigi capitale mondiale dell’arte moderna fu Napoleone. Consapevole del fatto che le conquiste militari portano espansione e potere ma non consenso, Napoleone aveva intuito che la Francia avrebbe ottenuto l’egemonia politica sul mondo solo se avesse acquisito anche quella culturale. Assunse così un ruolo attivo nella gestione dei teatri parigini, entrando nel merito delle scelte dei programmi e degli attori; promosse l’architettura e la realizzazione di grandi monumenti; esercitò una forte influenza sugli artisti francesi dell’epoca; favorì gli spettacoli musicali. Ma il suo vero colpo di genio fu la straordinaria raccolta di opere d’arte antica che, perlopiù requisite nel corso delle campagne militari in Europa, soprattutto nei Paesi Bassi e in Italia , fecero del Louvre uno dei più importanti musei del mondo. 

Fu Napoleone a dare una svolta al Louvre. Credette così tanto nella capacità della cultura di far grande una nazione che, oltre ad accumulare opere prestigiose, impose al Louvre l’apertura giornaliera al pubblico, ne affidò la direzione generale a Vivant Denon, amico di Jacques-Louis David e artista anch’egli, inventando così la moderna figura del conservatore di museo (Bonaparte conferì al pittore neoclassico Andrea Appiani, che gli avrebbe dedicato diversi ritratti, lo stesso ruolo per la Pinacoteca di Brera).

Convinto per altro verso che gli abiti con cui ci si presenta in pubblico denotano il proprio status, dunque il proprio potere, Napoleone intuì che anche la moda avrebbe potuto giocare un ruolo nell’accrescere la reputazione della Francia. Apprezzava e sosteneva pubblicamente la rivista di cronaca mondana e di moda Journal des Dames et des Modes, che, attraverso acqueforti dettagliatissime, propose nei suoi inserti abiti che per originalità e gusto delinearono uno stile che avrebbe fatto proseliti nel mondo, contribuendo all’affermazione di una scuola della moda francese che impose al mondo modelli di vita e di comportamento.

In quanto capo militare dotato di poteri straordinari, Napoleone si può considerare un dittatore. Fu indubbiamente un leader carismatico, sostenuto dal consenso del popolo che gli riconobbe la capacità di modernizzare la nazione. Napoleone fu dunque insieme dittatore e principe illuminato. Per rafforzare il suo potere diede grande importanza alla propria immagine, come testimoniano i tanti ritratti a lui dedicati. Nell’iconografia che lo riguarda, gli abiti e le pose lo rendono un personaggio subito riconoscibile. Facendo propria la strategia della Chiesa, che aveva affidato all’arte il grande racconto delle Sacre Scritture per parlare a chiunque, agli ignoranti come ai colti, rivoluzionò inoltre l’idea della propaganda politica, dando incarico ai migliori pittori e scultori del tempo di glorificare la sua figura attraverso opere intese come veri e propri manifesti pubblici. La capacità di Napoleone di creare nuovi modelli di comunicazione fu tale che l’arte che lo celebrò avrebbe rappresentato, ancora a distanza di un secolo, un modello per i principali dittatori del Novecento, sia sul piano stilistico, sia su quello formale. 

L’arte propagandistica sovietica e quella nazista hanno trovato nel Neoclassicismo, in virtù delle sue caratteristiche formali, stilistiche e di contenuto, il modello ideale per rappresentare il consenso popolare di cui godevano i propri leader. Non è un caso che il maresciallo bolscevico Georgij Žukov, identificato nell’immaginario collettivo popolare russo come il Napoleone dell’Unione Sovietica, sia stato raffigurato su un cavallo impennato sulle zampe posteriori. La posa evoca il Napoleone che varca le Alpi di Jacques-Louis David. Allo stesso modo, non è un caso che un altro ritratto dedicato sempre al maresciallo Georgij Žukov faccia il verso, in particolare nella postura e negli ornamenti onorifici, al ritratto di Napoleone realizzato da Andrea Appiani.

Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante. L’arte deve pertanto muoversi nella stessa direzione della politica. Questo implica che il suo linguaggio non può essere autonomo, libero di offrire una visione individuale. All’interno di una concezione univoca della storia, nella visione dei dittatori, tutte le forme di espressione creativa debbono mirare a costruire un sistema linguistico monolitico, in linea con i temi della politica. In base a questa logica, i regimi totalitari arrivano a eliminare fisicamente artisti e pensatori i cui ideali non coincidono con quelli della classe dirigente.

Nell’era napoleonica invece l’artista, pur aderendo a una concezione di opera d’arte totale, non fu costretto a muoversi in un contesto regolato da ordini, divieti e provvedimenti. Dal canto suo, Napoleone non accettava che artisti e intellettuali manifestassero pubblicamente dissenso nei suoi confronti. Non trasformò però la censura in repressione fisica, ma impose ai dissidenti l’allontanamento dai confini nazionali. Nonostante questo, nella Francia di Napoleone gli artisti furono liberi di scegliere i temi da affrontare.

Nel 1934, l’Unione Sovietica di Stalin mise nero su bianco che il realismo socialista “esige dall’artista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario”, precisando che “la veridicità e la concretezza storica della descrizione artistica della realtà devono coesistere con lo scopo del cambiamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Nella Germania di Hitler, le restrizioni furono altrettanto drastiche. Joseph Goebbels, ministro per la Propaganda, stigmatizzava come “arte degenerata” qualunque espressione artistica non rispondesse ai canoni dettati dal regime, costringeva all’esilio centinaia di artisti, organizzava roghi di libri non graditi. Nel discorso in cui elogiò il rogo di libri del 10 maggio 1933, Goebbels affermò che “il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri”, che era giusto “gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”. Nulla di simili avvenne nella Francia di Napoleone che, oltre a favorire le raccolte di sculture e dipinti, incoraggiò le collezioni di libri antichi, arazzi, stoffe, porcellane e qualunque altro tipo di manufatto testimoniasse sensibilità e impegno intellettuale.


Con la sua politica culturale, Napoleone creò i presupposti perché la Francia approdasse al Novecento come una straordinaria fucina di creatività.  Napoleone fu il primo dittatore moderno, sostenuto da un forte consenso popolare. Nessuno prima di lui aveva progettato un uso così determinato e diffuso su larga scala dell’arte figurativa propagandistica e autocelebrativa.

venerdì 7 febbraio 2025

napoleone e il bonapartismo

Nella classe quarta in cui insegno storia ho appena finito di spiegare l'età napoleonica e, prima di passare alla Restaurazione, mi fermo un po' con le ragazze e i ragazzi a riflettere sul potere politico e la sua legittimità. Come direbbe Max Weber, affinché lo Stato sussista, i dominati devono sottomettersi all'autorità di chi detiene il potere, e vi sono tre "giustificazioni interne", vale a dire tre tipi di legittimità di un potere: attraverso il costume, l'autorità tradizionale, ad esempio il potere esercitato dal patriarca o dal principe di stampo antico; attraverso la legalità, "in forza della disposizione all'obbedienza nell'adempimento di doveri conformi a una regola"; attraverso l'autorità carismatica, il carisma personale del "capo", ad esempio del condottiero in guerra o del demagogo nel parlamento. In qualche modo Napoleone sembra incarnare perfettamente tutte e tre queste giustificazioni e legittimità di potere.

Prendo e propongo allora due testi per approfondire. Il primo è il capitolo dedicato a Napoleone da Alberto Mario Banti nella raccolta I volti del potere.

Parigi, 2 dicembre 1804 Parigi. Chiesa di Notre-Dame. È mattina e tutto è pronto per l’incoronazione di Napoleone a Imperatore dei francesi. Ne è passato del tempo dal 18 brumaio 1799. Il potere di Napoleone è molto solido. Talmente solido che gli sembra sia giunto il momento di dargli la più clamorosa delle sanzioni ufficiali, combinando genialmente tradizione e innovazione. E così, il 18 maggio 1804 viene pubblicato un nuovo testo costituzionale che proclama Napoleone e i suoi discendenti titolari della dignità imperiale. Anche questa modifica viene sottoposta a plebiscito confermativo: i voti favorevoli sono oltre 3.000.000, i contrari 2.569, e di nuovo moltissimi sono coloro che non vanno a votare. Ma questa volta a Napoleone il plebiscito non basta. In forma singolarmente ibrida, l’esercizio della volontà popolare viene affiancato dalla messa in scena di un rito antico, quello dell’incoronazione dell’imperatore. Il ricorso al cerimoniale tardomedievale fa parte di una strategia che intende sottolineare il carattere dichiaratamente neomonarchico del potere riconosciuto a Napoleone. Però Napoleone non è un monarca per diritto ereditario. Lui ne è perfettamente consapevole e se ne vanta perfino, tanto che nel 1805 fa scrivere: “Le ricerche genealogiche sulla famiglia Bonaparte sono una fanciullagine. È facilissimo rispondere alla domanda ‘donde trae origine questa famiglia?’: dal 18 brumaio. Si può essere forse tanto importuni e mancare talmente di rispetto all’imperatore da annettere qualche importanza ai suoi antenati? Soldato, cittadino, sovrano, egli deve tutto alla propria spada e all’amore del popolo”. Non è un sovrano per diritto divino. E allora è necessario che nella cerimonia di incoronazione siano introdotte alcune varianti capaci di esprimere, in modo spettacolare, le peculiarità della nuova potestà imperiale. Quali sono?

Le corone imperiali non vengono poste dal papa sulle teste della coppia imperiale inginocchiata davanti a lui. Al momento giusto è invece Napoleone che si alza in piedi, prende la corona nelle sue mani, si volta verso il pubblico e, dando le spalle al papa, incorona se stesso; dopodiché pone la corona anche sulla testa di sua moglie inginocchiata davanti a lui.

Bonaparte incorona se stesso e la sua consorte dentro una chiesa sotto gli occhi di un annichilito e impotente pontefice, ma secondo un antico rito sacralizzante: è una rappresentazione che in una forma altamente sintetica esprime un modo di intendere la politica che unisce tradizione e innovazione. Napoleone è un sovrano che vuole conservare l’aura sacralizzante che da secoli è propria del potere, minimizzando però il ruolo di mediazione svolto dal vicario di Cristo; la vera legittimazione, il senso vero della sacralità che gli deriva da quel rito, Napoleone pensa di doverla solo a se stesso e alla forza che gli è stata data da atti molto terreni, come le vittorie militari, i colpi di Stato, i plebisciti: e così interiorizza l’aura sacrale che tradizionalmente appartiene alla figura del sovrano, facendola derivare principalmente da se stesso, come a voler sottolineare che tale aura è una funzione delle sue gesta più che l’effetto della mediazione papale e della benevolenza divina.


Il mito del grande dittatore, del condottiero capace di guidare masse di uomini al macello e alla gloria, non smette di brillare; e, ciò che è di più, è un mito che assume paradossali valenze “democratiche”.

Il dittatore bonapartista non è più il sovrano di antico regime. È un uomo uscito dall’oscurità del popolo, capace di farsi da sé, di imporsi per le sue doti magnetiche e carismatiche. È anche un “vero uomo”, dominatore di donne. È un leader che trova nell’esercizio della violenza bellica la massima espressione della sua mascolinità. Soprattutto, è un capo che vuole incessantemente ostentare il consenso popolare che sostiene la sua autorità: non importa se quel consenso è - in misura maggiore o minore - estorto con la repressione del dissenso o con la costante esibizione della forza militare: questo consenso è ciò che fa della dittatura bonapartista una sorta di dittatura “voluta” o “benedetta” dal popolo, e quindi ne fa qualcosa che potrebbe essere definito una “dittatura democratica”.

Ecco, questi sono i tratti di una figura e di un sistema politico che nascono con Napoleone, e che dopo la sua morte non smettono di esercitare il loro potere di fascinazione. In definitiva, la vera importanza storica di Napoleone consiste proprio nel fatto che con lui nasce la figura del dittatore contemporaneo, un “dittatore democratico” che, se non è propriamente “voluto” dal popolo, pretende sempre di parlare e di agire “in nome del popolo”: e, com’è piuttosto evidente, si tratta di una figura politica che sotto varie e diverse incarnazioni non ha mai smesso di abitare i sogni e gli incubi dell’Occidente e dell’America Latina, dai primi dell’Ottocento fino ai giorni nostri.

sabato 31 dicembre 2016

letture di dicembre + top 5 del 2016

Solo un po' di saggistica per questo mese.

I saggi di teoria politica di Carl Schmitt raccolti in Le categorie del "politico", due testi di Roberto Esposito - Immunitas e Bios -, il saggio sulla Tortura di Donatella Di Cesare, i contributi per La scuola ai tempi del digitale raccolti e curati da Vittorio MidoroFrancis Bacon e l'ossessione di Michelangelo, di Luigi Ficacci.

Con la ripromessa, il buon proposito, di leggere più narrativa per l'anno nuovo, segnalo anche la top 5 dei libri letti nel 2016:

1. Murakami Haruki, L'uccello che girava le viti del mondo - Finalmente portata a conclusione anche la lettura dell'ultimo grande romanzo di Murakami Haruki che mi mancava, e il suo surrealismo kafkiano in cui tutto è insieme assolutamente improbabile e perfettamente coerente ha sempre il suo fascino.

2. Dave Eggers, I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?  - Un testo di interrogatori filosofici su i miti d'oggi, la legge e la giustizia, l'educazione e la natura, le istituzioni e la libertà.

3. Richard Flanagan, La strada stretta verso il profondo Nord - La bella storia di un uomo, un medico e soldato fatto prigioniero durante la seconda guerra mondiale, che si rifiuta di smettere di aiutare la gente a vivere: non è un buon chirurgo, né una bella persona, ma non smette di fare ciò che può e deve.

4. Julia Kristeva, I samuraiUna sorta di sequel de I mandarini di Simone de Beauvoir: la generazione degli intellettuali francesi tra gli anni Sessanta e Ottanta non sono tanto detentori del sapere e del potere culturale entusiasti del loro impegno quanto piuttosto guerrieri che considerano la vita come un'arte marziale, la scrittura come un atto di piacere e di guerra insieme: poesia, gioco di sciabole o calligrafia, ogni arte è un'arte marziale in cui ci si mette a morte per rifarsi un nuovo corpo, una nuova forma. Bellissimo romanzo, e romanzo d'amore: "Sono insieme perché sono separati. Chiamano amore questa mutua adesione alla propria rispettiva indipendenza. Questo li ringiovanisce, sembrano adolescenti: addirittura bambini. Che cosa vogliono? Essere soli insieme. Giocare da soli insieme, e a volte passarsi la palla, tanto per dimostrare che in quella solitudine non c'è dolore".

5. J.K. Rowling/Robert Galbraith, La via del male - Si conferma ottima la lettura delle indagini di Cormoran Strike, il nuovo splendido personaggio - e notevole anche la caratterizzazione degli altri protagonisti, comprimari e comparse di questa serie di thriller - di J.K. Rowling (o Robert Galbraith che dir si voglia), che anche con La via del male si è dimostrata veramente e sorprendentemente capace di reinventarsi e trovare nuove strade di scrittura, evitando di rimanere prigioniera di quel capolavoro che è stata la saga di Harry Potter.

domenica 31 maggio 2015

letture di maggio (III)

La trilogia di Fabio Montale, di Jean-Claude Izzo, comincia davvero con un Casino totale, un puro noir complesso e dalla trama intrecciata, che il poliziotto italo-francese protagonista delle vicende - e il lettore insieme a lui - fatica fino alla fine per sbrogliare: amore e odio, vendetta e giustizia, amicizia e razzismo, tradimento e fedeltà, la vita è troppo complessa per essere oggetto di un'investigazione poliziesca, è un completo caos privo di ordine, ma può un semplice bacio dare un senso al tutto? 
Sembrerebbe di no, il casino continua, totale, anche nel secondo volume, la vita è rabbia, odio, da sputarci sopra con disgusto e stanchezza, e l'unica strategia per affrontarla forse è il Chourmo, la ciurma, la lealtà e la solidarietà degli altri costretti a remare nella tua stessa galera, a faticare per stare a galla e tirare avanti come te. 
E così nel terzo capitolo, all'assurdo si può rispondere solo con l'amore, l'unica replica all'amarezza che la verità sempre comporta è la dolcezza struggente della musica, di una canzone jazz come Solea.

Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler è un sempre valido e attuale memorandum della banalità del male, dell'orrore e dell'assurdità della burocrazia e dell'amministrazione impersonale e irresponsabile, del cinismo dei mezzi giustificato dall'assolutezza dei fini, della politica ridotta a partitismo.


Dopo La storia di un pazzo, un altro ottimo thriller di John KatzenbachIl carnefice. Una mortifera ombra dal passato, da un passato che l'umanità dice di non aver dimenticato ma da cui forse non ha ancora imparato veramente qualcosa; un gruppo di sopravvissuti al più grande crimine della storia messi nuovamente a rischio da tale ombra che vuole farsi dimenticare, sparire; un anziano detective in pensione senza più uno scopo nella vita, che ritrova un senso solo nel rispondere a un appello d'aiuto; un giovane detective  che si è lasciato alle spalle la fantasiosa illusione di essere Holmes o Poirot, né crede di essere un vendicatore della società, ma si vede come un semplice contabile dei morti; una speranzosa sostituto procuratore al suo primo vero caso.

Le avventure di Gordon Pym, di Edgar Allan Poe, sono avventura sui mari, estetica antartica, mistero e orrore del bianco.

Per le serie librarie - o libri seriali, proseguono ottimamente Le avventure di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle.

Per la saggistica, Arte e socialismo di William Morris, Il maestro o il supplemento infinito di Jacques Derrida.

martedì 12 maggio 2015

arte e socialismo

Divenuto socialista pur senza comprendere completamente - per sua stessa ammissione - le dottrine economico-filosofiche di Marx, l'artista e scrittore inglese William Morris nei quattro brevi scritti raccolti in Arte e socialismo presenta un'asserzione chiara e semplice: "è giusto e necessario che tutti gli uomini abbiano un lavoro che valga la pena di essere svolto", uscendo dalle logiche capitalistiche della moda e del lusso che impongono la produzione brutta e sciatta di merci fatte per divenir presto rifiuto, prodotte per essere consumate e passar via; un lavoro onorevole e adatto "che sia piacevole da fare", che consenta di trarre piacere dal lavoro stesso, dalla stessa attività produttiva, sfruttando le invenzioni meccaniche non per far profitto ma per occuparsi di eseguire i compiti fastidiosi e non intelligenti così da lasciare l'uomo libero di innalzare le proprie abilità manuali e mentali e tornare a produrre la bellezza; un lavoro che "se svolto a queste condizioni non sarebbe né troppo faticoso né troppo noioso", lasciando il tempo libero necessario al riposo, al pensiero, all'immaginazione, al sogno; un lavoro che garantisca, così, non solo un salario, ma il rispetto di sé che deriva dall'opportunità di fare un lavoro che sia utile ai nostri simili, che meriti dei ringraziamenti. 
La dignità del lavoro, valore poco considerato in parte per residui di pregiudizi medievali e in parte per la ricerca del profitto e della ricchezza che è il solo scopo del sistema capitalistico; il benessere, e non la semplice ricchezza con la sua inseparabile compagna povertà; l'arte e la bellezza che derivano dall'utilizzo dell'energia umana in modo piacevole, da un lavoro libero e creativo, e che così sono necessarie alla vita, diritti inalienabili, ragione di ogni felicità e scopo dell'esistenza. Questi i tratti dell'utopia immaginata da Morris.

giovedì 6 novembre 2014

cronache del mondo rimosso

Gli articoli di Slavoj Žižek raccolti in Distanza di sicurezza sono una cronaca del mondo contemporaneo e dei tempi interessanti in cui viviamo oggi. Sono cronache di guerra, una guerra in cui sembrano essersi affermate la violenta logica paranoica del controllo totale su ogni minaccia futura e dell'attacco preventivo contro tali minacce (una logica alla Minority Report di Philip K. Dick), l'esportazione della libertà, la democrazia armata e la giustizia infinita (non però nel senso reale di Jacques Derrida per il quale nessuno è mai politicamente incolpevole e bisogna sempre riferirsi a se stessi, includere se stessi nel discorso della responsabilità). Sono cronache di un mondo in cui il fondamentale diritto umano è diventato quello di non essere molestati, in cui l'apertura verso l'Altro e l'alterità del tollerante atteggiamento liberale nasconde la paura ossessiva di essere infastiditi dal veramente Altro, un Altro intrusivo da cui si desidera essere tenuti a distanza di sicurezza.Sono cronache di un mondo in cui, fallite tutte le soluzioni pragmatiche standard, l'invenzione utopica di un nuovo spazio sembra essere l'unica scelta realistica, nell'urgenza di tempi che richiedono un evento fuori dai parametri del possibile.
In tali cronache, trovano spazio anche riflessioni apparentemente meno legate all'oggi, come l'accostamento operato da Jacques Lacan tra Kant e Sade, sulla base dell'interpretazione per cui il nocciolo della rivoluzione etica kantiana sarebbe l'idea che l'eccesso assoluto è quello della legge stessa, la cui ingiunzione è la trasgressione ultima di una vita stupida fatta di piaceri modesti, rispetto alla quale il pervertito sadiano insegnerebbe che persino la più eccessiva sregolatezza criminale non può avvicinarsi all'eccesso infinitamente violento, alla rottura traumatica, della legge morale. Sade costringerebbe così Kant a confrontarsi con l'inaudita radicalità della sua stessa posizione: il soggetto di Sade è puro, al di là del principio del piacere, di sogni, passioni, emozioni, nella sfida alla libertà umana a compiere un atto contro natura, come il soggetto di Kant deve mostrare di essere capace di un atto autonomo, non condizionato dalla catena causale naturale e psicologica.
O, ancora, una riflessione sui thriller di Patricia Highsmith, sul suo Mr. Ripley psicotico ma non folle, anzi razionale e piuttosto civile, angelico perché non integrato nell'ordine simbolico umano e quindi esistente in un universo che precede la legge e il peccato, ma, proprio per questo, quale prezzo da pagare, anche incapace di intensa passione: un mostro freddo etico e immorale.

lunedì 6 gennaio 2014

letture di gennaio (I)

Finiti in rapida successione i tre brevi saggi iniziati a leggere negli ultimi giorni del 2013, allettato dal mal di schiena.
Interessanti i dialoghi con Habermas e Derrida di Giovanna Borradori sulla Filosofia del terrore, riflessioni sul traumatico evento dell'11 settembre, del 9/11, che - secondo Derrida - rimane terribile e ferita "infinita" perché non si sa che cosa sia, perché destabilizza lo stesso "sistema di interpretazione, l'assiomatica, la logica, la retorica, i concetti e le valutazioni che si crede permettano di comprendere e di spiegare" la realtà, visto che - dalla fine della Guerra fredda - l'apparato concettuale, semantico, ermeneutico che avrebbe dovuto neutralizzare il trauma e così attenuarlo attraverso l'elaborazione del lutto, dipende con tutto quello che possiamo chiamare l'ordine mondiale in larga parte dalla stessa solidità degli Stati Uniti. La ferita è "infinita" anche perché mantenuta aperta sull'avvenire, segno premonitore "di ciò che potrebbe ancora accadere e che sarà peggio di tutto ciò che è successo", male assoluto e minaccia assoluta che è un terrificante rimettere in gioco niente di meno che l'esistenza del mondo.

Lo straordinario artista Pablo Echaurren omaggia il gruppo musicale, o meglio la happy family, dei Ramones con il suo imperativo Chiamatemi Pablo Ramone, non una cronaca o storia dei Fast Four (da non confondere con i Fab Four) ma con un personalissimo e idiosincratico tributo pagato alla propria passione musicale (che cerca, però, anche di concettualizzarsi e richiamarsi, così, a motivazioni universali e necessarie e non solo soggettive) e, insieme, un elogio della mazza da baseball, come recita il sottotitolo, del fare arte contro l'accademia: "quando sento Tommy o Marky stantuffare e picchiare come magli sulla batteria e sui miei più intimi frattagli con quella cadenza poderosa-cavernosa che pare scaturire da tamburi in vera cotenna d'elefante, mi chiedo come sia stato possibile che l'intero universo non abbia ancora recepito e di conseguenza non abbia ancora tributato la propria eterna riconoscenza a loro, ai Ramones. Per l'opera prestata e quella pestata. Con una mazza da baseball".

Purtroppo un po' deludente la lettura di Mostri, draghi e vampiri, analisi proposta da Emma Palese sul passaggio dal mostro come simbolo del meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze. Attraverso un processo di polarizzazione, il mostro gradualmente perde il proprio significato più primitivo e universale - il drago, guardiano di un tesoro o di un luogo sacro, simbolo del transito dall'uomo vecchio a quello nuovo, di slancio vitale ed energia che divora e rigenera insieme - e da tutto si fa parte, il cui grande corpo è razionalisticamente ridotto al diverso, al piccolo perverso - adottando una visione funzionale e organicistica/organica/organizzata del corpo -, finendo nel vaso dell'embiologo. Infine, ora che gli strumenti della tecnica permettono di agire sulla propria fisicità, tutti possono diventare mostri, cyborg - "emblema della perfettibilità umana e del desiderio di superamento di se stessi, ma presenta anche un triste schiacciamento da parte del potere, che si sostanzia nell'intuizione foucaltiana secondo cui i corpi si governano attraverso i loro desideri", perché l'uomo, essere dai desideri illimitati, è perciò stesso altamente vulnerabile - e vampiri - dal mancato appagamento, vittime e consumatori di se stessi, della propria fame e brama che rinasce e si moltiplica tormentandoli.

venerdì 4 ottobre 2013

la filosofia della guerra al terrorismo

Con Stato di legittima difesa, Simone Regazzoni prova a pensare la politica di Obama e la guerra al terrorismo al di là di ogni sterile panico libertario e di ogni critica alla guerra mossa da astratte posizioni pacifiste, riconoscendo al Presidente statunitense la capacità di "agire politicamente misurandosi con il reale del momento storico presente", di "rispondere a ciò che accade" anche a costo di dover "rompere con un certo orizzonte di sapere, di norme e di valori" decostruendo l'abituale discorso progressista e reinventando la democrazia. Questa reinvenzione passa attraverso l'elaborazione di un nuovo paradigma politico, giuridico e militare che l'autore chiama, appunto, stato di legittima difesa e che la cui articolazione comprende la dichiarazione di uno stato di emergenza, il rafforzamento del potere esecutivo, l'uso della forza letale (nella forma privilegiata dell'omicidio mirato, eventualmente anche preventivo) contro un nemico assoluto (Carl Schmitt) che deve essere annientato in una guerra apparentemente permanente.
A meno di non giudicare il terrorismo una strategia di lotta legittima, argomenta Regazzoni, non è possibile attribuire al terrorista la qualifica di combattente per la libertà (freedom fighter); gli spetta, piuttosto, quella di nemico combattente (enemy combatant) o combattente illegittimo (unlawful combatant) o ancora nemico combattente non privilegiato (unprivileged enemy belligerant), designando in ogni caso il suo statuto come al di là del civile e del militare. È necessario, invece, abbandonare una certa cultura delle scusanti e delle giustificazioni tipica degli anni Sessanti e Settanta e riconoscere il terrorista quale "minaccia assoluta" e "male assoluto", quale "nemico trascendentale della democrazia", perché "incorpora in sé lo spettro del weapons of mass destruction", dell'arma terrificante che viene dall'avvenire, lo spettro del peggio a venire (Jacques Derrida), perché "minaccia la democrazia in quanto spazio di apertura all'Altro". Per annientare un tale nemico assoluto occorre "una guerra legittima di difesa ossessionata dallo spettro della distruzione totale a venire" (ossessione e forse una certa paranoia che non sono mali ma spinte immunitarie della democrazia); guerra che possiede la qualità ideale di essere perpetua, di non poter essere vinta e perciò di non dover essere mai terminata (Peter Sloterdijk), così da decostruire l'opposizione tra guerra e pace.
La forza letale-vitale di legittima difesa che tale guerra dispiega dispone di non convenzionali ma necessarie e appropriate strategie quali la prevenzione contro minacce imminenti e future (pre-emption e prevention), l'attacco anticipato (strike first, anticipatory attack), la pianificazione su larga scala e lungo periodo delle operazioni di omicidio mirato (targeted killing, kill list).
Ora che la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt appare come nuovamente invertita (Slavoj Žižek), Obama per Regazzoni è quindi "il nome di questa forza letale-vitale di legittima difesa della democrazia, di questa forza della democrazia che dà il meglio di sé facendo appello al proprio rimosso" (cioè l'uso della forza letale, una forza crudele e disumana ma al contempo giusta), di questa forza che non è "un fenomeno transitorio legato a una situazione di emergenza ma l'invenzione di un nuovo paradigma della democrazia".
Il rimosso che ritorna con Obama è anche quello della giustizia come vendetta, riparazione di un torto, momento catartico: torna quello "spettro che ossessiona il potere americano" che è la pulsione eroica che minaccerebbe la democrazia. Questa riattualizzazione "di una certa forma di violenza - al contempo assolutamente crudele e giusta - incarnata nella figura del giustiziere", porta Regazzoni a trattare nell'ultimo capitolo del suo saggio la trilogia che Christopher Nolan ha dedicato a Batman, il Cavaliere Oscuro (Dark Knight), saga cinematografica assillata proprio dallo spettro del peggio a venire, dell'imminenza "di un avvenire peggiore di tutto quello che è già accaduto". 
Le pellicole di Nolan rappresentano il montaggio e messa in scena della risposta attraverso una forza di legittima difesa a tale infestante spettro (dell'annientamento di Gotham attraverso armi di distruzione di massa), incorporato nel trauma dell'omicidio dei genitori del piccolo Bruce Wayne, e al contempo dei "rischi autoimmunitari di questo dispositivo eccezionale di difesa che rischia sempre di sopprimere ciò che vorrebbe salvare". Il corpo del Cavaliere Oscuro si presta quale trasfigurazione cinematografica di questo lavoro sul dark side della politica, di questa "pulsione eroica incriptata al cuore della democrazia" che non va esorcizzata come fascista (pur rimanendo "il fascismo una delle sue pericolose declinazioni possibili") ma pensata "in termini politici come forza, al di là della legge, di difesa della democrazia nel contesto di un nuovo tipo di guerra", come supplemento di forza insieme fuorilegge e al servizio della legge, che la sospende e conserva a un tempo, che la minaccia e protegge, come "una giustizia - al di là della legge - che coincide con la salvezza, con la salvezza della democrazia".
Il saggio di Regazzoni ha l'audacia di pensare tutto ciò, di non limitarsi a criticare la guerra. Regazzoni ha l'indubbio merito di non essere un pensatore pusillanime, di non cercare nel politicamente corretto l’alibi perfetto per nascondere l'assenza di coraggio necessario a farsi carico di pensare un fenomeno come la guerra al terrorismo nella sua dimensione perturbante.



martedì 23 luglio 2013

resistenza

Se l’apertura all'avvenire è da considerare l’assioma, l’imperativo, diciamo, categorico della democrazia, ciò che la mette in movimento e la collega a giustizia, dignità innegoziabile e irriducibile a qualsiasi calcolo economico o di diritto degli spettri dell’alterità, è però certo che talvolta possa essere preferibile che qualcosa non accada, possa addirittura essere necessario e giusto impegnarsi per impedire che questo o quello capitino, arrivino; queste occasioni di opposizione a ciò che avviene sono motivate dal ritenere che ciò di cui si preferisce il non arrivo sia qualcosa che possa sbarrare l’orizzonte ad ogni altro futuro a venire, porre un limite per la venuta di altro, per l’avvenire stesso. 
Sono dunque insieme necessarie l’esposta e incondizionata apertura all’avvenire, all’evento, e la vigilanza su tale apertura, affinché rimanga appunto aperta, affinché non arrivi qualcosa a volerla sanare, chiudere definitivamente impedendo ad altro di avvenire, arrivare.


giovedì 25 aprile 2013

resistenza

«Sì [la decostruzione è la resistenza] significa non cedere al potere occupante, a qualunque egemonia. Ho sempre sognato la resistenza, voglio dire la Resistenza francese. Fin da quando ero bambino, troppo giovane per farla, ho sognato la Resistenza, mi identificavo con gli eroi di tutti i film di resistenza: clandestinità, bombe sulle rotaie, cattura di ufficiali tedeschi».
(Jacques Derrida, Papier Machine

«Naturalmente i miei fantasmi eroici vanno spesso – credo che valga per molti francesi della mia generazione – verso il periodo della Resistenza, che non ho conosciuto: allora non ero né abbastanza vecchio, né in Francia. Giovanissimo, e sino a un periodo piuttosto recente, mi facevo scorrere nella immaginazione il film di uno che, la notte, piazza delle bombe sulla ferrovia: far saltare la struttura del nemico, installare un ordigno a scoppio ritardato, e poi assistere all’esplosione o almeno sentirla da lontano. Vedo benissimo che si potrebbe illustrare questa fantasmatica compulsiva con delle operazioni decostruttive che consistano nell’installare discretamente, con un meccanismo a scoppio ritardato, degli ordigni che di colpo rendano inutilizzabile una via di transito, dove il nemico, ormai, non potrà più passare tranquillamente, senza badarci. Anche l’amico, del resto, dovrà vivere e pensare altrimenti, sapere dove si avanza, con più vigilanza».
(Jacques Derrida, «Il gusto del segreto»)

lunedì 28 gennaio 2013

lenin è (non) morto

Provando a interpretare il sogno che Trotskij stesso annota nel suo diario relativo a un incontro e dialogo con Lenin, da tempo morto, Slavoj Žižek, in uno scritto contenuto in Politica della vergogna, riconosce che possono esistere due diversi modi di leggerlo.
Un prima possibile lettura è quella per cui «Lenin morto che non sa di essere morto rappresenta il nostro ostinato rifiuto di rinunciare ai grandiosi progetti utopistici e di accettare le limitazioni della nostra situazione: Lenin era mortale e fece errori come chiunque altro, perciò è giunto per noi il momento di lasciarlo morire, di mettere a riposo questo osceno fantasma che ossessiona il nostro immaginario politico, e di affrontare i problemi in modo pragmatico e non ideologico».
Ma c'è un anche un altro senso in cui «Lenin è ancora vivo: è vivo in quanto incarna ciò che Alain Badiou chiama, in modo sfacciatamente platonico, l'"Idea eterna" dell'emancipazione universale, l'immortale lotta per la giustizia che nessuna disfatta e nessuna catastrofe riescono a uccidere».
Come Hegel poté definire la Rivoluzione francese "una splendida aurora" (Lezioni sulla filosofia della storia) senza che ciò gli impedisse una fredda analisi di come quell'esplosione rivoluzionaria di libertà dovesse necessariamente trasformarsi in un terrore autodistruttivo, così Žižek vuole fare con la Rivoluzione d'ottobre, non ritornare a Lenin ma ripetere Lenin. «Ripetere Lenin è accettare il fatto che "Lenin è morto", che la sua soluzione particolare è fallita, e anche in modo mostruoso, ma che c'era in essa una scintilla d'utopia degna di essere salvata. Ripete Lenin significa che si deve distinguere tra quanto Lenin ha effettivamente fatto e il campo di possibilità che ha aperto, la tensione tra ciò che fece concretamente e un'altra dimensione. Significa ripetere non ciò che Lenin HA FATTO, ma ciò che NON È RIUSCITO A FARE, le sue possibilità PERDUTE».  


giovedì 24 gennaio 2013

educazione o cortesia?

Se il desiderio di sottomettere le persone a un ideale etico considerato come universale è una tentazione morale di cui sbarazzarsi, è una criminosa e brutale imposizione della propria prospettiva agli altri, questo dignitoso rifiuto delle utopie però, ci ricorda Slavoj Žižek in uno dei suoi scritti contenuto in Politica della vergogna, culmina nell'impasse del "politicamente corretto", «in un soffocante moralismo, in un'esplosione di norme legali e morali, in un processo infinito di legalizzazione/moralizzazione chiamato "lotta contro tutte le forme di discriminazione"».
La paradossalità di tale condizione la mostra, secondo Žižek, la possibilità di trovare in una stessa persona la coincidenza degli opposti per cui questa vigili contro l'imposizione dei valori eurocentrici ad altre culture e, nello stesso tempo, argomenti che romanzi classici come Tom Sawyer o Huckleberry Finn di Mark Twain dovrebbero essere esclusi dalle biblioteche scolastiche perché insensibili al razzismo per il modo in cui l loro interno ritraggono neri e nativi americani – altri esempi recenti di tale paradossalità sono rappresentati dalla volontà del Dipartimento di educazione della città di New York di eliminare e bandire dai testi scolastici alcuni termini e riferimenti ritenuti "sensibili" quali "dinosauro" (potrebbe contrariare i creazionisti?), "compleanno" (offende i testimoni di Geova?), "Halloween" (può suggerire il paganesimo?), "divorzio" (può evocare sentimenti di disagio?), "peperoni" (cibi che alcune religioni o culture non possono concedersi?); o ancora, dall'interruzione della produzione e vendita delle bambole che raffigurano i personaggi dell'ultimo film di Quentin Tarantino, Django, perché offensive degli afroamericani rappresentati come schiavi (non è forse esistita la schiavitù negli Stati Uniti?).
«Cosa c'è di sbagliato nei tentativi "politicamente corretti" di moralizzare o addirittura penalizzare direttamente modi di comportamento (come ferire gli altri con volgari oscenità verbali ecc.) che dovrebbero fondamentalmente riguardare l'educazione»? Il fatto è che essi minano questa stessa buona educazione, perché penalizzando la maleducazione si perde la "sostanza etica", la buona educazione è qualcosa di sostanziale, esperito, e non può essere una forma imposta o istituita da leggi ed esplicite regole normative. Come lo stesso Žižek evidenzia anche in Vivere alla fine dei tempi, la cortesia supplisce alla mancanza o al collasso della sostanza etica, e quanto più manca il "profondo" contesto etico sostanziale, tanto più abbiamo bisogno di una cortesia "superficiale".

 

lunedì 21 maggio 2012

critica come passione durevole

Il libro vorrebbe essere una professione di libertà, e più precisamente una rivendicazione della propria consapevole scelta di insubordinazione ragionata, di rifiuto di partecipare alla propria stessa alienazione all'interno della gabbi d'acciaio globale, seguendo l'invito di Horkheimer a evitare la "pacificazione personale del filosofo in un mondo disumano" (Teoria tradizionale e teoria critica).
Occorre subito chiarire che l'orizzonte in cui ci muoviamo è costituito dal rifiuto incondizionato del proprio mondo storico e dalla complementare tensione verso un futuro diverso e migliore, seguendo le suggestioni della blochiana "ontologia-del-non-ancora". A differenza della fede, che rende inattivi e induce alla docile accettazione del "mondo-così-com'è", il principio di speranza è antiadattivo e rivolto alla prassi: spezzando la mistica della necessità e facendo balenare l'idea di un futuro alternativo, esso, con il suo "ottimismo militante", risveglia dal torpore e spinge a un'azione orientata a far sì che il futuro intenzionato trovi cittadinanza tra le pieghe del reale. Il principio di speranza ci ricorda che l'"essere-secondo-possibilità" è la stoffa di cui è intessuto il reale e che, di conseguenza, si dà sempre l'opportunità di "essere-diversamente-da-come-si-è", di riprogrammare la sintassi del mondo quand'anche esso, come oggi accade, venga proclamato intrasformabile.
Nel contesto dell'odierna alienazione globale, non esiste alcuna etica possibile se non di opposizione e di resistenza, un'etica cioè che, ispirata al monito di Adorno circa la falsità dell'intero, dia luogo a un consapevole rifiuto della totalità in cui si è proiettati. In questa strategia foucaultiana di "indocilità ragionata" (Illuminismo e critica), di consapevole disobbedienza all'ordine del mondo e di rivendicata libertà di "dire-di-no", sono nostri preziosi alleati tanto il Marcuse del "Grande Rifiuto" quanto il più prosaico scrivano Bartleby e il suo ostinato I would prefer not to. Si tratta di maturare una coscienza infelice rispetto all'esistente che permetta di "innalzarsi sopra la propria particolarità" empirica e di "dar luogo a una passione durevole", critica e antiadattiva, che induca all'adesione alla propria potenziale universalità emancipata, invocando - secondo la prospettiva di Bloch - "ciò che non c'è ancora, cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale" (Spirito dell'utopia).

(Diego Fusaro, Minima mercatalia)

giovedì 12 aprile 2012

benvenuti in tempi interessanti

More about Benvenuti in tempi interessanti!Finito il secondo volume della saga I canti di Hyperion, passo in libreria lo stesso giorno per comprare i seguenti due e, girando nel reparto filosofia, mi imbatto tra le novità nel nuovo libro di Slavoj Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, di cui decifro subito il riferimento del titolo alla maledizione cinese contro qualcuno che si odia davvero (e a cui, quindi, si augura di vivere in un periodo di irrequietezza, guerre e lotte) proprio perché l'avevo giusto letta il giorno stesso nel finale della saga fantascientifica di Dan Simmons.
Dopo l'apocalittico Vivere alla fine dei tempi, il "filosofo più pericoloso d'Occidente" ci invita a riflettere sull'era postpolitica dell'economia naturalizzata, che si crede ormai libera da ogni forma di ideologia perché la scienza economica ci mostra ormai i fatti e perché la forma istituzionale dello Stato è ormai un dato ovvio, scontato, garantito, assodato, insomma, naturale – «la cornice democratica dello Stato (borghese) rimane la vacca sacra che anche le forme più radicali di "anticapitalismo etico" non osano mettere in discussione». Ma in realtà «non c'è nulla di "naturale" nella presente crisi» e «il sistema economico globale esistente si basa su una serie di decisioni politiche».
Per affrontare i tempi interessanti che la crisi ci propone e in cui ci sarà da divertirsi, resta invece valida, secondo Žižek, l'intuizione chiave di Marx, secondo cui «la questione della libertà non deve essere situata in primo luogo nella sfera politica vera e propria» perché «il cambiamento di cui abbiamo bisogno non è una riforma politica, ma una trasformazione dei rapporti sociali», il che comporta che la soluzione non possa derivare da elezioni democratiche o da qualche altra misura politica in senso stretto, bensì dalla lotta di classe rivoluzionaria. L'autore concorda con Badiou nel sostenere che il nome del nemico supremo odierno non è tanto capitalismo, o impero, o sfruttamento, ma piuttosto democrazia, intesa come l'accettata e diffusa illusione «che siano i meccanismi democratici a fornire la sola cornice di ogni possibile cambiamento, il che impedisce qualsiasi trasformazione radicale dei rapporti capitalistici».
Non una semplice opposizione alla democrazia parlamentare è però l'invito di Žižek per questi tempi interessanti, ma qualcosa che si muove a un livello radicalmente altro, un impegno non limitato al solo atto di voto, ma che comporti anche «una fedeltà continua a una Causa, un paziente e collettivo "atto d'amore"». Questa Causa l'autore, riprendendo ancora Badiou, la chiama comunismo, inteso come idea regolatrice che è possibile immaginare come la continuativa e «lunga tradizione del millenarismo radicale e delle rivolte egualitarie», come un'eterna idea dello «spirito egualitario mantenuto vivo nell'arco di migliaia di anni in rivolte e sogni utopici, nei movimenti radicali da Spartaco a Thomas Müntzer, incluso all'interno delle grandi religioni», come «un progetto emancipativo condiviso» che ha dato alimento «alla democrazia dell'antica Grecia, alla rivoluzione francese e a quella russa».
Con un collettivo atto d'amore impegnarsi e lottare per «prendere in modo eroico qualsiasi potere sia accessibile e, controcorrente, fare quello che si può»; una scommessa senza alcuna garanzia esterna, un correre «il rischio di compiere passi nell'abisso del Nuovo in situazioni completamente inaudite».

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