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mercoledì 30 aprile 2025

(altri) libri letti questo mese - aprile 2025

Per tutti i libri di cui non ho parlato in specifici post, c'è spazio qui in questa sintesi delle (altre) letture del mese. In ordine crescente di gradimento.

Uomini che fanno la guerra, si incazzano, diventano furiosi, litigano, sono gelosi, minacciosi, e usano la forza in modo esplicito, picchiando, violentando. Ma sono anche violenti in modo piú moderno, quindi occultato, passivo: sono lamentosi e recriminatori, e finiscono per soffocare le donne in altro modo. Sono i personaggi dei romanzi presentati da Francesco Piccolo nel saggio Son qui: m'ammazzi, racconto e indagine appunto su tredici personaggi maschili della letteratura italiana, che, secondo l'autore, sono entrati nelle nostre vite e hanno segnato in maniera indelebile il nostro immaginario, contribuendo a legittimare il mito della maschilità e la cultura virile. Ovvero, le opere chiave della nostra letteratura hanno in qualche modo contribuito a consolidare una certa idea di maschio, e in esse ci sono le tracce di uomini potenti, arroganti, violenti, egoisti e famelici. A partire dalle fondamenta, dalla settima novella dell'ottava giornata del Decameron, in cui Boccaccio mette in scena la spietata vendetta del giovane scolaro Rinieri, che sbeffeggiato e rifiutato da una avvenente vedova la punisce facendo in modo che non possa piú vantare la propria avvenenza - la morale: se si ferisce il maschio non è pena affatto ingiusta essere sfregiate a vita. E poi le peripezie matrimoniali di Zeno di cui scrive Svevo, uno Zeno Cosini arrogante e fragile al tempo stesso, irrazionale che si finge ponderato, ma soprattutto, come ogni uomo che si rispetti, tarlato dal desiderio, che una volta piantato in testa non schioda piú e fa compiere i gesti piú sciocchi e sconsiderati. E poi ancora, l'innominato di Manzoni, il Principe di Salina di Tomasi di Lampedusa, 'Ntoni di Verga, l'Antonio di Brancati, il Milton di Fenoglio e altri maschi, tutti sempre uguali a se stessi, vigliacchi e furiosi, gelosi e violenti, al centro di romanzi che hanno costruito il canone della letteratura italiana. Perché chi siamo ha a che fare con la famiglia, l'educazione, il mondo dove si cresce, ma anche con i libri che si sono letti.
Un po' troppo semplicistica e generalizzante, però, la tesi che questi racconti semplicemente corrispondano a quello che siamo.

Due morti apparentemente inspiegabili, una seteria in cui niente è come sembra, una donna alla ricerca della verità, rappresentano il punto di partenza de La fabbrica dei destini invisibili di Cécile Baudin. Le sirene delle seterie scandiscono la vita dell’Ain, una delle tante regioni che hanno cambiato volto dopo la Rivoluzione industriale. Eppure, fuori dei ritmi regimentati della fabbrica - che grazie alle nuove leggi sul lavoro garantisce salari migliori e orari più umani -, ci sono ancora centinaia di donne che vengono sfruttate nelle soffitte delle case, dove si fila sino a tarda ora alla luce incerta di una candela. È proprio per difendere i diritti di queste giovani invisibili se Claude Tardy è diventata ispettrice del lavoro. Una professione nuova e ancora tutta maschile, al punto che, per poterla svolgere, spesso Claude è costretta a indossare vestiti da uomo. Come la fredda sera di dicembre del 1893 in cui viene chiamata a indagare sulla morte sospetta di un operaio, trovato impiccato agli stessi fili metallici su cui si spezzava la schiena durante il giorno. E la faccenda si complica tre mesi dopo, quando dalle acque di un lago emerge il cadavere di un altro operaio. Due morti che non avrebbero nulla in comune, se non fosse che le vittime si somigliano come gocce d’acqua e sembrano in qualche modo legate a un convitto di religiose, dove le giovani operaie delle seterie sono ospitate fino al giorno del matrimonio. Ed è qui che la strada di Claude incrocia quella di suor Placide, che da mesi aspetta notizie di una ragazza scomparsa all’improvviso. A poco a poco, le due donne si rendono conto che le loro ricerche sono collegate e che solo unendo le forze potranno fare luce su una brutale realtà sommersa che coinvolge uomini potenti e pericolosi. Una realtà che in troppi hanno sempre finto di non vedere, per paura o per avidità.

Gifts. Doni, primo volume di Annals of the Western Shore di Ursula K. Le Guin. Nelle aspre e selvagge Altelande, vivono uomini che possiedono un dono, dono che è tramandato attraverso le generazioni, per via ereditaria, fin da quando se ne ha memoria. Sono doni meravigliosi, che permettono di evocare animali e mutare paesaggi, ma che possono essere anche terribili perché possono ottenebrare le menti o infliggere malattie. Orrec appartiene alla famiglia dei Caspromant, tanto famosa quanto temuta per il dono del disfacimento: un potere distruttivo, in grado di annientare qualsiasi cosa o persona, con la sola imposizione dello sguardo. All'età di tredici anni, però, il giovane ancora stenta a manifestarlo, ragion per cui il padre Canoc è molto turbato e c'è grande preoccupazione nel regno. Finché un giorno, all'improvviso, Orrec devasta un'intera collina senza volerlo, e prende l'amara decisione di bendarsi per sempre, per il timore di causare danni a ciò che ama di più, come la dolce Gry, compagna d'infanzia e forse sua futura sposa, anche lei dotata di un potente e magnifico dono. Ribellandosi ai loro destini, i due giovani affronteranno insieme le sfide della vita, per andare alla ricerca di loro stessi e del loro posto nel mondo.
Su potere, dovere e responsabilità: Per lui, il privilegio era un obbligo; comandare era servire; e il potere, il dono stesso, comportava una pesante perdita di libertà personale.

Un bell'affresco famigliare di desideri, solitudini e macerie senza fine, e al tempo stesso ritratto della contemporaneità, è Il giorno dell'ape di Paul Murray. La famiglia Barnes è nei guai: la concessionaria di Dickie, il padre, sta per fallire, ma lui, invece di affrontare la situazione, trascorre le giornate costruendo un bunker a prova di apocalisse; la moglie, Imelda, nel frattempo, si è messa a vendere i gioielli su eBay; la figlia maggiore, l'adolescente Cass, ex prima della classe, sembra voler sabotare la sua carriera scolastica; e PJ, il figlio dodicenne, sta allestendo un piano per scappare di casa. Che cosa è andato storto per i Barnes, al punto da mandare tutto in rovina? La coralità della narrazione, la somma dei punti di vista diversi che portano avanti - e indietro - la storia, forse permetterà di ricostruire e rintracciare il preciso inizio di tutto.

L'arte della gioia è un libro postumo di Goliarda Sapienza: giaceva da vent'anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato da molti editori, venne stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998. Ma soltanto quando uscì in Francia ricevette il giusto riconoscimento. Nel romanzo tutto ruota intorno alla figura di Modesta, una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana in cui si fondono carnalità e intelletto. Modesta nasce in una casa povera ma fin dall'inizio è consapevole di essere destinata a una vita che va oltre i confini del suo villaggio. Ancora ragazzina è mandata in un convento e successivamente in una casa di nobili dove, grazie al suo talento e alla sua intelligenza, riesce a convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza smettere di sedurre uomini e donne di ogni tipo. Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale, Modesta è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco pur di godere del vero piacere, sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui vive. Opera certamente scandalosa, erotica e politica, romanzo d'avventura e di formazione.
È il pieno possesso delle emozioni e la conoscenza suprema di ogni attimo prezioso che la vita ti concede in premio se hai polso fermo e coraggio. Ora so il senso profondo della libertà e della gioia, della tua arte mi sono impossessata, e solo gioia essa sarà da oggi per me.

Libro a sorpresa del mese, un testo a lungo cercato e tornato disponibile solo un anno fa, la raccolta di saggi dopo Heidegger scritti da Peter Sloterdijk negli anni Novanta e usciti con il titolo di Non siamo ancora stati salvati, replica appunto alla tesi heideggeriana - sostenuta nella sua ultima intervista rilasciata alla stampa - per cui «solo un dio ci può salvare». In questa serie di testi il filosofo tedesco risponde in modo ironico che non solo non siamo stati ancora salvati, ma che non lo saremo. L’essere umano non è altro che quel particolare animale che crea forme di addomesticamento reciproco, chiamate “culture”, rispetto alle quali non c’è alcun “fuori” a cui chiedere una qualche forma di salvezza. Nessun dio può infrangere il nostro destino di animali sapiens. Questa è la tesi feroce e disincantata che l’autore sostiene nel più provocatorio dei saggi contenuti nel volume, Regole per il parco umano. Clonazione, scoperte geografiche e coscienza delle macchine, umanismo e pessimismo, mostri e metafisica sono solo alcuni dei temi che attraversano i dieci saggi che compongono questo straordinario affresco di filosofia e storia della cultura contemporanea.
Leggere Sloterdijk è sempre straniante, illuminante, perturbante, gratificante, faticoso, estenuante, splendido, arricchente, ascetico.

mercoledì 21 ottobre 2020

filosofia come allenamento

La palestra di Platone è l'ultimo, straordinario testo del filosofo Simone Regazzoni.
La philosofia, amore per il sapere, è anche se non soprattutto philoponia, amore per la fatica, è essere disposti a faticare per cambiare se stessi, per elevarsi.
Ma non essendo l'uomo una mente disincarnata, puro pensiero, res cogitans separata dal proprio corpo vivente, la filosofia non può permettersi di assumere una postura asservita al dominio della sola parola e della razionalità, deve invece ripensarsi come cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita che coinvolge il plesso di mente-e-corpo, come invito ad abbandonare la propria dipendenza da uno stile di vita comodo e cogliere invece l'occasione per allenarsi come un dio (Sloterdijk).
Così è la filosofia in origine, con Platone, filosofo lottatore che pensa nei luoghi in cui si lotta, pensa il proprio discorso nei termini propri della lotta e quando articola in chiave politica la propria filosofia pone l'allenamento in palestra e la lotta come elementi fondamentali per la formazione di maestri e allievi.
Così può e deve tornare a essere, considerando il corpo vivente come spazio di lotta, potenza, benessere, conflitto, pensiero, elevazione, auto-creazione, gioia. La sfida è atletica, estetica, cognitiva, etica e politica insieme, e consiste nella cura di sé (Foucault) come allenamento e combattimento permanente, al fine di essere in grado di fronteggiare, con coraggio, gli eventi, di accedere a un'altra intensità di esistenza (Badiou).
Certo non c'è nessun combattimento senza aggressività e senza il rischio di fare o di farsi male, ma è proprio questo male che si impara a maneggiare, gestire, contenere, pensare: non c'è etica degna di questo nome, se non ci si allena all'uso della forza che ogni vivente possiede in sé, se non ci si prende cura della pulsione di morte, con la pulsione a combattere o di aggressività che ogni soggetto porta con sé. Come anche Montaigne scrive sull'educazione dei fanciulli, è necessario avvezzarli al sudore e al freddo, al vento, al sole e ai rischi affinché essi possano fare ogni cosa, e non desistano dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma per mancanza di volontà.
Attraverso la fatica, e facendo prova dell'essere-esausto, facendo prova del limite, ci si supera per divenire altro da sé: l'elevazione non è un mero potenziamento di sé, accrescimento di sé, ma un divenire in sé altro da sé, un miglioramento, perfezionamento, potenziamento vitale, un divenire-animale (Deleuze) che è accesso alla pienezza della potenza del proprio corpo vivente. Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé. Il soggetto, in questo senso, si costituisce nell'allenamento, l'allenamento è il processo attraverso cui il soggetto costituisce continuamente se stesso al di là di sé: l'allenamento è una pratica di soggettivazione continua che produce un potenziamento vitale. Si è in lotta continua con se stessi per andare al di là di sé. Attraverso allenamento e ripetizione si arriva allo stile, forma incarnata e adatta alla propria singolarità, forma della propria forza e della propria vita, elevazione, intensità, godimento, gioia.
Questo body-building con cui si costruisce il proprio corpo, è anche un lavoro sulla vita ed è contemporaneamente un brain-building, data la neuroplasticità del cervello sulla cui materialità e sui cui processi di pensiero agiscono i movimenti del nostro corpo. Allenarsi è un processo di trasformazione radicale che coinvolge la totalità dell'essere umano, è un trasformarsi, elevarsi, perfezionarsi per essere migliori rispetto a ciò che si è, è una lotta contro la vita mediocre e una tensione verso l'eccellenza.



domenica 31 luglio 2016

letture di luglio

Come il precedente e come i seguenti, mese le cui letture - e riletture - girano fortemente intorno e vicino a Nietzsche: Sproni di Jacques DerridaDivenire molteplice di Gilles Deleuze, Nietzsche e l'eterno ritorno di Karl LöwithLa filosofia di Nietzsche di Eugen FinkCaratteri filosofici di Peter Sloterdijk, L'essenza della filosofia di Wilhelm Dilthey, Cultura e critica di Jurgen Habermas,  Filosofia contro Accademia di Fernando Savater, Krisis Pensiero negativo e razionalizzazione di Massimo CacciariIl doppio cervello di Nietzsche di Roberto Dionigi, Nietzsche e l'Aurora della misura di Benedetta Giovanola, L'inattuale, idea pedagogica di Giovanni Maria Bertin, Ermeneutica e genealogia di Salvatore Natoli, Lettere e note su Nietzsche di Paul Valéry.

Unici romanzi, La moglie perfetta di Roberto CostantiniI figli della mezzanotte di Salman Rushdie.

giovedì 3 marzo 2016

niente resterà intatto

Nella sua non convenzionale introduzione, Niente resterà intatto, Tommaso Ariemma si interroga e ci interroga, medita e ci fa fare esercizio di meditazione con lui, su che cos'è la filosofia. Non è un disquisire pedante e vuoto sui massimi sistemi ma un affrontare quesiti fondamentali che cambiano la vita, un affrontare il mostruoso, tanto più "in un tempo in cui l'apocalisse dell'uomo è qualcosa di quotidiano" (Sloterdijk). La filosofia è affrontare il mostro che non si può mettere alla porta, di cui non si può negare l'esistenza, che ci divora, ci assorbe e limita il nostro orizzonte e rivendicare, invece, che c'è dell'altro: filosofare è, dunque, assumere dei rischi. La filosofia è diventare colossi, resistere e restare impedendo al mostro di ridurci a niente, riconoscendo il mostro come mera parte e non totalità.
La filosofia è, ancora, eleganza, che intelligenza di pensare e scegliere: non fare o dire qualcosa purchessia, tanto per capriccio, ma fare e dire, tra le molte cose che potrebbero essere fatte e dette, quella che richiede di essere realizzata, così che "eleganza è il nome che si dovrebbe dare a ciò che chiamiamo etica" (Ortega y Gasset).
Pure, la filosofia è forgiare principi, non tanto come guida o riferimento quanto soprattutto come inizi e inneschi: filosofare è cominciare a pensare e vivere diversamente, ecco perché la filosofia corrompe. 
E la filosofia è, anche, fragilità, che è il contrario di docilità perché non si può mai sapere cosa può e dove si disporrà l'infranto, di cosa sia capace: non tenere duro, divenire sordi e indifferenti, bensì essere fragili in modo che nessun ordine possa ricomporci o farci restare al nostro posto. 
Affrontato con eleganza e fragilità dalla filosofia, niente resterà intatto.

martedì 30 giugno 2015

letture di giugno (II)

Il classico di Vladimir Nabokov, Lolita, è un romanzo scritto straordinariamente bene, con un personaggio protagonista e narratore allucinato e lucidissimo, inquietante, perturbante e vicinissimo, passionale e razionale, indimenticabile.

L'ultimo di Stephen King, Revival, è un romanzo - tra il Frankenstein di Mary Shelley e il Necronomicon di H.P. Lovercraft - gradevole e senza grandi pretese di uno dei più grandi affabulatori contemporanei.

Interessante il percorso tracciato da Alberto Castoldi tra letteratura e arte sul tema del Bianco: colore ambiguo, divino e spettrale; colore del dramma della creatività, pulsionalità e potenzialità, che coniuga la sublimazione estetica e la mostruosità intesa come negazione e assenza, tema della lotta per il possesso della pagina o della tela, da conquistare attivamente ma, insieme, dalla fascinazione vampirizzante; colore che è spazio di percorsi ed esplorazioni ma in cui, anche, perdersi e naufragare, deposito di idee sacro e terrificante; colore ostile, violento, pericoloso, minaccioso, perturbante, mistico, pieno e vuoto.

Immersione nella filosofia antica con l'Aristotele de La metafisica ("Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza") e della forse non autentica ma certamente plausibile Lettera ad Alessandro sul governo del mondo ("Non scrivo queste parole all'uomo che si è impadronito di un potere di cui non è degno, ma all'uomo che ha praticato questo detto: 'mi sarei ritenuto degno più del biasimo che della lode'").


Interessante il breve discorso dedicato da Peter Sloterdijk a quel fatale/fatidico evento filosofico - e non solo - che porta il contingente nome di Friedrich Nietzsche: Il quinto «vangelo» di Nietzsche. Sulla correzione delle buone notizie riconosce nel filosofo tedesco, oltre a un nome nella lista dei classici, soprattutto un maestro di generosità "solare" - propenso a prodigare incondizionatamente e capace di tramontare senza rimpianti - e il marchio di un prodotto immateriale di successo quale l'individualismo.

Deludente e men che mediocre l'esperienza di lettura di Liberi servi, testo esegetico da parte di Gustavo Zagrebelsky della dostoevskijana Leggenda del Grande Inquisitore: il saggio è prolisso (almeno rispetto al valore e alla profondità del contenuto), farraginoso, zeppo di citazioni eccessivamente lunghe dall'opera di Dostoevskij.

domenica 30 novembre 2014

letture di novembre (II)

Per Dave Eggers una nuova lettura, dopo L'opera struggente di un formidabile genio e la riscrittura di Le creature selvaggeIl Cerchio è una società, un'azienda, che non solo cavalca ma spinge avanti in modi radicali ed estremi la rivoluzione digitale e informatica. Come luogo di lavoro, anzi come comunità integrale, "lì ogni cosa era perfetta. Le persone migliori avevano creato i sistemi migliori e i sistemi migliori avevano permesso di raccogliere i fondi, fondi illimitati, che rendevano possibile tutto questo. Ed era naturale che fosse così. Chi poteva creare l'utopia se non degli utopisti?". Il Cerchio, infatti, è guidato come da uno "zio prediletto" tra i cui generosi progetti c'è quello di documentare e testimoniare, attraverso miliardi di telecamere, tutto quello che succede nel mondo, affinché tutti possano conoscerlo: tutto deve essere visto e conosciuto da tutti, la privacy è un furto, e tutti gli esseri umani devono essere onniveggenti e onniscienti, avere "gli occhi di Dio", sotto il cui sguardo "tutte le cose sono nude e aperte". "99 punti su 100 è quasi perfetto, certo, ma al Cerchio questo punto in meno disturba", il cerchio deve essere chiuso, completato, in maniera tale che, eliminata quella "cappa di invisibilità" - la certezza di non essere visti in ogni attimo della propria vita - che induce gli uomini all'ingiustizia, saremo "costretti a essere la versione migliore di noi stessi. In un mondo dove le brutte strade non sono più un'opzione, non abbiamo altra scelta che essere buoni. Se non abbiamo altra scelta che la strada giusta, la strada migliore, questo sarà per tutti una specie di estremo sollievo che tutto comprende". E allora "chi può voler ostacolare l'incontestabile miglioramento del mondo", questo "secondo Illuminismo"? Chi può voler ancora vivere in un mondo dove ci sono persone senza casa, odori aggressivi, macchine che non funzionano sedili e pavimenti non puliti, caos e disordine dappertutto, inutile conflittualità, inutili errori e inefficienze? Eppure qualcuno crede che servano attimi di "tregua dalla innaturale perfezione", che il Cerchio stia "creando un mondo di luce sempre accesa che ci brucerà vivi, tutti quanti. Non ci sarà tempo per riflettere, dormire, raffreddarsi", che il Cerchio sia uno "squalo che divora il mondo". Quale il finale di questo progetto di una totalitaria e pan-ottica utopia? 

George R.R. Martin non è solo Cronache del ghiaccio e del fuoco, e così gradendo molto quella saga mi sono dato alla lettura di Armageddon Rag. Insomma. Il romanzo parte bene, come un thriller ambientato nel mondo della musica rock e della controcultura degli anni '60, ma quando ha una svolta mistico/esoterica perde parecchio in interesse, almeno per quanto mi riguarda. Aspetterò altro materiale dalla saga fantasy.

Finito infine Le due città di Charles Dickens. Un romanzo con un incipit fenomenale che immerge profondamente nel periodo migliore e peggiore di tutti i tempi, quella stagione di luce e tenebre che è stata la rivoluzione francese; una trama tesa, appassionante e intrecciata tramite avvincenti colpi di scena, capovolgimenti e riconoscimenti; dei personaggi umani e altri estremamente potenti, come nel bene così nel male; un finale glorioso.

Seconda lettura anche per le indagini di Harry Hole, il poliziotto norvegese creato da Jo Nesbø. Il pettirosso intreccia le indagini su gruppi neonazisti scandinavi, traffico di armi, attentati terroristici, con le vicende dei soldati norvegesi all'epoca dell'occupazione tedesca, inviati a combattere sul fronte russo: come sono legate storie che si svolgono con oltre cinquant'anni di distanza? I tradimenti, personali e politici, privati e storici, possono essere perdonati? Buona la capacità dell'autore di raccontare sia il suo thriller, sia la storia pubblica del suo paese.

Davvero ottimo il saggio di Peter Sloterdijk sulla Critica della ragion cinica.

lunedì 24 novembre 2014

il fine...

"A volte il fine giustifica i mezzi. Non importa quale sia il prezzo per la tua anima. Difficile non trovare soddisfazione nel lavoro. Nonostante la posta in gioco, nonostante la missione ti occupi la mente, nonostante tutto questo, è sempre bello fare un'entrata spettacolare. State certi che Fener sogghigna in segreto, ogni volta che parte quella marcetta. Difficile non godersi il brivido. Fortunato colui che ama il proprio lavoro. Proprio fortunato" (da X-Force #2 del maggio 2014, in Italia su Gli Incredibili X-Men #15 del novembre 2014).
Così il nuovo leader dell'almeno quinta incarnazione del gruppo mutante X-Force, Cable. A conferma di come temi centrali nei comics siano le questioni morali. Questo ciclo narrativo mette alla prova la disponibilità a commettere il male in funzione del bene dei membri di questo team mutante - composto tra gli altri, oltre che dal viaggiatore temporale Cable, da Psylocke,  con i due che sono probabili prossimi protagonisti di narrazioni/trasposizioni cinematografiche dell'universo mutante Marvel -, mette in scena la possibilità che il rifiuto radicale del mondo come è possa rovesciarsi repentinamente nella ricerca di una sua definitiva e finale trasformazione, che un’etica dell’assenza dei fini possa sfociare in un’etica del fine ultimo, in cui al rigido cinismo dei mezzi si intrecci il non meno duro moralismo dei fini (come sostiene Peter Sloterdijk in Critica della ragion cinica). Ancora, questa serie affronta le questioni dell'osceno godimento - quel "brivido" - nel compiere il proprio lavoro/missione e la scusa del dovere che si dà alle proprie azioni. Lettura da continuare.

lunedì 17 novembre 2014

critica della ragion cinica

Nella sua Critica della ragion cinica, Peter Sloterdijk si propone di chiarire la contrapposizione tra l'antico kinismo filosofico e il nuovo cinismo di un diffuso tipo umano assai spregiudicato. "Gli antichi conobbero il kynikos nella sua veste di eccentrico barbagianni, moralista, provocatore testardo, beffeggiatore distanziato e distanziante, mordace, velenoso individualista che dà a intendere di non aver bisogno di nessuno e di essere inviso a tutti perché nulla e nessuno passa indenne sotto il suo sguardo crasso e disvelante, che ogni cosa brutalizza". In età più recente, invece, da profilo negativo ed emarginato della città, il cinico si è fatto figura di massa e carattere sociale mediocre, asociale integrato dotato di un realismo malvagio e dell'obliquo ghigno dell'amoralità aperta, ironizzatore radicale dell'etica e delle convenzioni sociali ma capace di conservare una certa capacità produttiva: il cinico moderno sa quello che fa ma lo fa comunque, persuaso del fatto che così deve essere, riuscendo a sentirsi vittima, sacrificato, infelice. Così, il cinismo moderno è falsa coscienza illuminata, è un paradossale agire - e in santa coscienza - a dispetto di quello che si sa, è assenza completa di illusioni e attrazione irresistibile della "forza delle cose", è una serenza irrispettosità nella prosecuzione dei propri compiti.
L'illuminismo, "un idillio di pace epistemologica con bella vista sulla Scuola di Atene", è rimasto inappagato per la scarsa propensione al dialogo e alla libera discussione di potere, tradizione e pregiudizi. Così, dovendo parlare di chi non desidera parlare con lui, l'illuminismo continua con altri mezzi, con le armi della polemica, quel dialogo fallito e si fa critica dell'ideologia, assumendo tratti crudeli e satirici. Ma "la moderna critica dell'ideologia" - questa una delle tesi di Sloterdijk - "ha ormai abbandonato quella potente, ilare tradizione del sapere satirico che aveva le sue radici, filosoficamente parlando, nel kynismos degli antichi", e si è fatta seriosa e parruccona, agghindata in giacca e cravatta, borghese e rispettabile e "per conquistare in qualità di 'teoria' un posticino tra i libri ha cancellato la satira dalla propria vita andando infine a trincerarsi in una fredda guerre delle coscienze". Questo e  l'orrore tecnologico del XX secolo - da Verdun ai gulag, da Auschwitz a Hiroshima -, che rende passibile di sarcasmo ogni ottimismo e rende inesorabile la sfiducia, l disillusione, il dubbio, la frigidità psichica, avversando ogni principio di speranza con il principio che bisogna vivere qui e adesso - di giorno in giorno, di ferie in ferie -, segnerebbero la genesi del moderno cinismo.
Sloterdijk presenta poi una sua galleria di figure ciniche. La prima è quella di Diogene di Sinope, il kinico antico che resiste e si oppone all'imbroglio del "Discorso" e dell'astrazione idealistica, alla sciapa e totalmente cerebrale magistratura filosofica, dichiarando con sfrontatezza aggressiva, libera, svergognata e rustica quel che la vita è al di là di ogni "verbalizzazione" e universalismo, avendo il coraggio della domanda puerile e spudorata, rivendicando il diritto alla felicità e il bisogno profondo di integrità esistenziale in una replica che oltrepassa la confutazione teorica per farsi vita stessa, attraverso un uso kinico del corpo che si fa argomento e arma esso stesso. Ci sono brevi ricette grazie a cui il kinismo sfrontato ottiene infallibilmente la meglio sulla maggioritaria e dominante "legge" filosofica e moralistica: "ecco due formule telegrafiche: 1) ‘Embè?’ e 2) ‘E perché no?’. Il che null’altro rappresenterebbe se non la facoltà di dire sempre ‘no’ al momento giusto. La capacità di dire ‘no’, sviluppata in modo completo, è l’unica base valida del ‘sì’, e solo insieme, queste due facoltà, conferiscono spessore all’essere liberi" e consentono di essere felici, non paralizzati dalle "mille e una idee fisse su come noi o il mondo dovremmo essere e non siamo. Nella felicità sta il cardine di ogni principio di sfrontatezza". 
La seconda, tratta dal romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov, è quella del Grande Inquisitore, espressione del nuovo cinismo moderno nella sua forma di conservatorismo politico, con la sua filantropia infiltrata di realismo e disprezzo. Nell'ottica cinica che si è portata al di là del bene e del male, non si trova affatto il radioso amoralismo favoleggiato da Nietzsche, ma la ragione strumentale e manipolatrice scissa e paradossale di un individuo in cui "s’intrecciano il rigido cinismo dei mezzi e il non meno duro moralismo dei fini", rendendolo quindi "per metà amoralista e per l’altra metà ipermoralista; cinico per un verso, sognatore per l’altro; scevro di qualsiasi scrupolo, ma fedele nei secoli all’idea di un Bene Ultimo. Nella prassi non indietreggerà dinanzi a ferocia o infamia o inganno di sorta; ma nella teoria è invasato da ideali supremi". Persegue fini "buoni" con mezzi "malvagi".
Terza e ultima figura, quella dell'uomo indagato da Heidegger, la cui filosofia dell'esistenza rappresenta, per Sloterdijk, una forma di neokinismo. L'io neutro e inautentico dell'uomo distratto dal si impersonale della chiacchiera, della curiosità e dell'equivoco, occupato dalla cura per il mondo in cui da sempre è gettato, è "il più potente e originario modo di essere" dell'uomo. Con ciò si "prende lapidariamente atto della indiscutibile libertà che la vita possiede riguardo ai suoi fini", dell'assenza di senso del vivere, e nel coraggio dell'angoscia si arriva alla risolutezza e consapevolezza dell'essere-per-la-morte. "Da questo, nessun Fine Superiore deve a tal punto scostarsi da trasformare la nostra morte in un mezzo per un fine", da questo si "fonda anzitutto l'assoluta preziosità del vivere medesimo", connessa a un gaudio vitale e festoso del qui e ora. Così "il cinismo dei mezzi può essere compensato solo con un ritorno al kinismo dei fini".
La critica della ragion cinica fa nascere una "gaia scienza" quale "resistenza satirica condotta da una vita concettualmente avveduta contro una concettualità arrogante e una scolastica elevata a forma di vita". Contro "un'intelligenza astuta, opaca, indurita e scissa da ogni coraggio aprioristicamente ritenuto ingannevole" che "sa occuparsi ormai soltanto di tirare a campare", Sloterdijk si appella al coraggio, la chiarezza, l'euforia, l'esultanza, la serenità, la risolutezza, la consapevolezza che caratterizzano "l’eccellenza della vita riuscita", istante improvviso che "estingue il disperante ‘già stato’ e diventa il primo di un’altra storia".

venerdì 11 luglio 2014

body building, chirurgia estetica e filosofia

Nel suo Il corpo preso con filosofia Tommaso Ariemma affronta le contraddizioni che un serio discorso filosofico sul corpo nella nostra epoca necessariamente comporta. Se nella modernità anche il corpo è diventato liquido - celebre espressione del sociologo Bauman - esso è sì, da una parte, più docile alle forme, malleabile, trasformabile, ma può anche, paradossalmente, svelare resistenze e risorse temibili, paradosso dell'esperienza contemporanea che l'autore struttura secondo la logica della contraddizione per cui noi "cerchiamo di afferrare ciò che necessariamente ci sfugge e, al tempo stesso, cerchiamo di evitare ciò a cui non possiamo sottrarci". Paradosso del corpo di cui una efficace immagine è il body building. 
Ma cosa ha a che fare il body building con la filosofia? Non solo la filosofia - da Platone "dalle spalle larghe" in poi - "sarebbe una sorta di body building del pensiero, qualcosa di eccessivo, di non richiesto, portato avanti con il più estremo rigore", una filosofia come atletismo e sollevamento dei pensieri che, secondo Peter Sloterdijk, rimanda all'amore "per la fama gloriosa attribuita ai vincitori nelle gare" e a quello "per la fatica, l'onore, lo sforzo" (Devi cambiare la tua vita); non solo lo stile di vita del body building è pericolo e minaccioso, non violento bensì provocatorio, come può esserlo un pensiero che mette in dubbio il modo di vivere e la scala di valori comuni; ma il body building fa dono alla filosofia di due fondamentali paradossi, quello del limite e quello della fragilità.
Il body building mostrerebbe che "non c'è alcun superamento di limiti che non provenga da maggiori limitazioni. Il continuo superamento operato dal culturista del proprio tono muscolare sarebbe frutto di sempre maggiori restrizioni: diete, intensità dell'allenamento, determinazione. Più ci si vuole liberare dal proprio corpo, e più il corpo ci inchioda, ci vincola". Inoltre, poiché nel body building la costruzione del corpo si ottiene attraverso una sua continua traumatizzazione, "più ricerca un corpo statuario e più il culturista si trova a fronteggiare differenti fragilità, più si ricerca la durezza, e più la fragilità si insinua". Se per costruire un corpo muscoloso "bisogna lavorare lavorare su ogni parte, decostruire per costruire", la filosofia decostruzionista di Jacques Derrida è estenuante come gli allenamenti del culturista. 
Nel nostro tempo questo controllo del proprio corpo che il body building mette in scena riguarda sempre più anche il controllo della sua immagine sociale, del suo "archivio fotografico", del suo facebook. Ma "nel momento in cui il nostro corpo diviene qualcosa da vedere e da far vedere, il suo controllo totale si rivela impossibile. Anche perché 'prendere corpo' è un'impresa che dura una vita, persa ogni volta che sperimentiamo la sua verità: prendiamo davvero corpo, quando il corpo è preso da un altro". Come scrive Michel Foucault "sotto le dita dell'altro che ti percorrono, tutte le parti invisibili del tuo corpo si mettono a esistere. Contro le labbra dell'altro le tue diventano sensibili" (Il corpo, luogo di utopia); e anche Daniel Pennac afferma che "il nostro corpo è anche il corpo degli altri" (Storia di un corpo). Così, "il mio corpo è il 'mio' che non possiedo, il 'qui' che non raggiungo, il familiare più estraneo". E dopo il body building è la chirurgia estetica che esplicita la realtà costruttiva e paradossale del corpo, come il corpo sia un fare corpo, come "l'uomo non ha semplicemente un corpo, ma prende corpo, fa corpo". 

venerdì 4 ottobre 2013

la filosofia della guerra al terrorismo

Con Stato di legittima difesa, Simone Regazzoni prova a pensare la politica di Obama e la guerra al terrorismo al di là di ogni sterile panico libertario e di ogni critica alla guerra mossa da astratte posizioni pacifiste, riconoscendo al Presidente statunitense la capacità di "agire politicamente misurandosi con il reale del momento storico presente", di "rispondere a ciò che accade" anche a costo di dover "rompere con un certo orizzonte di sapere, di norme e di valori" decostruendo l'abituale discorso progressista e reinventando la democrazia. Questa reinvenzione passa attraverso l'elaborazione di un nuovo paradigma politico, giuridico e militare che l'autore chiama, appunto, stato di legittima difesa e che la cui articolazione comprende la dichiarazione di uno stato di emergenza, il rafforzamento del potere esecutivo, l'uso della forza letale (nella forma privilegiata dell'omicidio mirato, eventualmente anche preventivo) contro un nemico assoluto (Carl Schmitt) che deve essere annientato in una guerra apparentemente permanente.
A meno di non giudicare il terrorismo una strategia di lotta legittima, argomenta Regazzoni, non è possibile attribuire al terrorista la qualifica di combattente per la libertà (freedom fighter); gli spetta, piuttosto, quella di nemico combattente (enemy combatant) o combattente illegittimo (unlawful combatant) o ancora nemico combattente non privilegiato (unprivileged enemy belligerant), designando in ogni caso il suo statuto come al di là del civile e del militare. È necessario, invece, abbandonare una certa cultura delle scusanti e delle giustificazioni tipica degli anni Sessanti e Settanta e riconoscere il terrorista quale "minaccia assoluta" e "male assoluto", quale "nemico trascendentale della democrazia", perché "incorpora in sé lo spettro del weapons of mass destruction", dell'arma terrificante che viene dall'avvenire, lo spettro del peggio a venire (Jacques Derrida), perché "minaccia la democrazia in quanto spazio di apertura all'Altro". Per annientare un tale nemico assoluto occorre "una guerra legittima di difesa ossessionata dallo spettro della distruzione totale a venire" (ossessione e forse una certa paranoia che non sono mali ma spinte immunitarie della democrazia); guerra che possiede la qualità ideale di essere perpetua, di non poter essere vinta e perciò di non dover essere mai terminata (Peter Sloterdijk), così da decostruire l'opposizione tra guerra e pace.
La forza letale-vitale di legittima difesa che tale guerra dispiega dispone di non convenzionali ma necessarie e appropriate strategie quali la prevenzione contro minacce imminenti e future (pre-emption e prevention), l'attacco anticipato (strike first, anticipatory attack), la pianificazione su larga scala e lungo periodo delle operazioni di omicidio mirato (targeted killing, kill list).
Ora che la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt appare come nuovamente invertita (Slavoj Žižek), Obama per Regazzoni è quindi "il nome di questa forza letale-vitale di legittima difesa della democrazia, di questa forza della democrazia che dà il meglio di sé facendo appello al proprio rimosso" (cioè l'uso della forza letale, una forza crudele e disumana ma al contempo giusta), di questa forza che non è "un fenomeno transitorio legato a una situazione di emergenza ma l'invenzione di un nuovo paradigma della democrazia".
Il rimosso che ritorna con Obama è anche quello della giustizia come vendetta, riparazione di un torto, momento catartico: torna quello "spettro che ossessiona il potere americano" che è la pulsione eroica che minaccerebbe la democrazia. Questa riattualizzazione "di una certa forma di violenza - al contempo assolutamente crudele e giusta - incarnata nella figura del giustiziere", porta Regazzoni a trattare nell'ultimo capitolo del suo saggio la trilogia che Christopher Nolan ha dedicato a Batman, il Cavaliere Oscuro (Dark Knight), saga cinematografica assillata proprio dallo spettro del peggio a venire, dell'imminenza "di un avvenire peggiore di tutto quello che è già accaduto". 
Le pellicole di Nolan rappresentano il montaggio e messa in scena della risposta attraverso una forza di legittima difesa a tale infestante spettro (dell'annientamento di Gotham attraverso armi di distruzione di massa), incorporato nel trauma dell'omicidio dei genitori del piccolo Bruce Wayne, e al contempo dei "rischi autoimmunitari di questo dispositivo eccezionale di difesa che rischia sempre di sopprimere ciò che vorrebbe salvare". Il corpo del Cavaliere Oscuro si presta quale trasfigurazione cinematografica di questo lavoro sul dark side della politica, di questa "pulsione eroica incriptata al cuore della democrazia" che non va esorcizzata come fascista (pur rimanendo "il fascismo una delle sue pericolose declinazioni possibili") ma pensata "in termini politici come forza, al di là della legge, di difesa della democrazia nel contesto di un nuovo tipo di guerra", come supplemento di forza insieme fuorilegge e al servizio della legge, che la sospende e conserva a un tempo, che la minaccia e protegge, come "una giustizia - al di là della legge - che coincide con la salvezza, con la salvezza della democrazia".
Il saggio di Regazzoni ha l'audacia di pensare tutto ciò, di non limitarsi a criticare la guerra. Regazzoni ha l'indubbio merito di non essere un pensatore pusillanime, di non cercare nel politicamente corretto l’alibi perfetto per nascondere l'assenza di coraggio necessario a farsi carico di pensare un fenomeno come la guerra al terrorismo nella sua dimensione perturbante.



domenica 13 gennaio 2013

libertà, nobiltà, verticalità

Nonostante l'estatica inutilità, l'uomo, secondo Sloterdijk, mette in atto, pur dopo questa liberazione, una forma di auto-oppressione, una sorta di sartriano engagement, come   un attore disoccupato che vada in cerca di un ingaggio. Perché? Né per necessità, né per impulso, né per nevrosi, né per mancanza, secondo l'autore di Stress e libertà, ma come conseguenza della libertà stessa, che si rivela quale sfondo di orgogliosa e generosa disponibilità ad elevarsi sopra l'ordinario, di nobile slancio verso l'alto. 
Anche in questa svolta verso l'attività, la praticità, la libertà mantiene comunque la propria sostanziale negatività, in quanto si esprime quale «rifiuto della tirannia del probabile», ribellione contro un'intollerabile meschinità: «in realtà, “libertà” è solo un altro nome per “nobiltà”, ovvero quella disposizione d’animo che, in qualsiasi condizione, si orienta al meglio, a ciò che è più difficile, proprio perché è abbastanza libera per quello che è meno probabile, meno volgare, meno comune. In tal senso, libertà è disponibilità all’improbabile». 
In quanto elevazione spontanea sull’ordinarietà e sulla mediocrità, disponibilità all’inaspettato e al più impegnativo, "libertà" è allora un altro nome anche per "verticalità", quella con cui sono alle prese tutti gli uomini (non solo quelli che i paladini americani della correttezza, ricorda Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita, hanno chiamato vertically challenged people): «"persone alle prese con la verticalità". Bisognava parlare dei disabili, di chi ha una complessione diversa, per arrivare a una formulazione che esprimesse la costituzione universale degli esseri soggetti alla tensione verticale». L'acrobatica è una delle categorie da utilizzare quando si riflette sulla condizione umana, su quell'animale instabile, privo di protezione, condannato al funambolismo che è l'uomo.


sabato 12 gennaio 2013

l'uomo, disteso, è più vicino alla libertà

Secondo Peter Sloterdijk, autore del breve saggio Stress e libertà, ciò che caratterizza la libertà da sognatore in stato di veglia, discreta e sensazionale insieme, "scoperta" da Rousseau nelle sue Fantasticherie del passeggiatore solitario è la spensieratezza, uno stato di raffinata inutilità proprio di chi si è allontanato e isolato non solo dalla società ma anche dalla propria stessa persona normalmente implicata nel tessuto sociale. Il punto determinante della scoperta di Rousseau è la totale mancanza di qualsiasi riferimento a qualunque tipo di attività, conoscitiva, volitiva, economica, politica, artistica o altro, l'assenza di qualsiasi cosa da dire, di qualsiasi opinione da esprimere, di qualsiasi progetto da intraprendere. Questa nuova libertà si esprime in una «estatica inutilità rispetto a ogni cosa. L'uomo libero, secondo Rousseau, scopre di essere l'uomo più inutile del mondo, e trova ciò assolutamente giusto».
Il passeggiatore solitario di Rousseau ha lontani parenti in Bartleby, lo scrivano di Melville, nell'Oblómov di Gončarov, in Xavier de Maistre che fece un viaggio intorno alla propria camera percorrendo la stanza per 42 giorni, nell'antieroe ironicamente chiamato Victor, il vittorioso, dell'Eleutheria di Beckett. Tutti questi personaggi sanno che la vera libertà dell'uomo non consiste tanto nel fare ciò che vuole, quanto piuttosto nel non dover fare ciò che non desidera, e soprattutto sanno che «l'uomo, disteso, è più vicino alla libertà».  


 

sabato 3 novembre 2012

dell'eroismo e del godimento

Comico, gaudente, nichilista, singolare, criminale. Insomma, sporco come l'ispettore Callaghan di Clint Eastwood e oscuro come il Batman di Frank Miller. Ecco quelli che sembrano essere i caratteri del nuovo eroe, dell'eroe non classico ma contemporaneo, del vero eroe, tracciati da Simone Regazzoni nel suo ultimo saggio Sfortunato il paese che non ha eroi.
Contro una pussy generation, una generazione di femminucce e pusillanime, che trova nel politicamente corretto niente altro che l’alibi perfetto per nascondere l'assenza di coraggio necessario a «farsi carico dell’etica nella sua dimensione perturbante e conflittuale: la dimensione dell’eroismo», appunto; contro il buonismo morale di quello che può essere chiamato "l'idiota della morale", ligio alla Legge e al dovere, preoccupato di venire sempre e comunque a patti con il mondo e con gli altri, di restare all'interno della moralità di branco, delle buone maniere, regole e norme sociali; contro la risposta reattiva alle trasformazioni in corso oggi – lette come catastrofi e apocalissi –, risposta consistente nell'«intento di ricostruire le fondamenta del mondo perduto: la Morale, il Padre, la Comunità, la Verità, la Realtà – e altre buone cose di pessimo gusto (i grandi ideali moderni) che costituiscono la cifra di un tono vintage adottato recentemente dall’intellighenzia cosiddetta colta incapace di elaborare il lutto per il crollo dell’ancièn regime della modernità» e in grado, invece, di produrre solo un discorso che oscilla tra invettiva moralistica e lamentela senza però mostrarsi all'altezza di rispondere alla complessità della situazione; nel suo saggio sull'etica dell'eroismo, Regazzoni non ha né sensi di colpa né vergogna nello sparare – con una .44 Magnum – contro tutto questo, facendo fuori l'idiota della morale e proponendo, al suo posto, un'etica dell'eroismo e del godimento.
Un'etica eroica è una forma di "morale superiore" che non tenta di addomesticare e asservire la virtù del coraggio  – incarnata dall'eroe – all'idea di bene della comunità, che non accetta le parole del Superman tratteggiato da Frank Miller nel suo Il ritorno del Cavaliere Oscuro, secondo cui «noi che viviamo nel mondo degli uomini dobbiamo considerare il bene comune e venire a patti con lo stato delle cose», perché «è proprio quando si agisce in nome del bene, di un supposto bene universale o dell’altro, quando si vuole realizzare il bene, che il male è pressoché assicurato». Quello su cui riflette Regazzoni è, al contrario, «un eroismo senza una Causa per cui combattere, che non chiede sacrifici per il bene comune, il bene dell’altro, la patria, l’umanità intera». Un eroismo non messo al servizio del legale rappresenta il fondamento di un'etica non essenzialmente e meramente restrittiva, proibitiva, ma di una, invece, che sappia misurarsi con il suo aspetto potente e creativo. Questa creatività dell'atto etico presuppone la capacità dei suoi eroi di fare uso di quelle che in Critica della ragion cinica Peter Sloterdijk definisce come brevi e telegrafiche ricette linguistico-comportamentali grazie a cui si può dire di 'no' al momento giusto e restare liberi e non divenire dei socializzati integrali: ‘embe’?’ e ‘perché no?’(ecco il let's go / why not? del film Mucchio selvaggio) sono due esempi. Questo rifiuto fa sì che l'etica dell'eroismo non abbia in sé nulla di rassicurante o edificante, ma anzi presenti tratti di perturbante e fa sì, quindi, che gli atti di questi eroi possano sembrare ed evocare il male, l'al di là della Legge, la trasgressione, il crimine, mostrandosi, «come minimo, insensibili alla richiesta etica del volto Altro di fronte al quale, all’occasione, sembrano disposti, come Lacan, a mostrare il tirapugni – o il coltello per lo scalpo» come i Bastardi senza gloria del film di Tarantino.
Ma questo rifiuto, questa necessità di essere criminali rivendicata dal Batman di Miller, è anche l'unico fondamento possibile per «ogni atto genuino, ogni atto che non sia solo agitazione, movimento, scarica motrice, ogni atto vero, ogni atto che segna, che conta» (Jacques-Alain Miller, Vita di Lacan), che risulta essere, quindi, trasgressione, infrazione, superamento di un codice, di una legge, di un insieme simbolico. Gli eroi presentati da Regazzoni, quindi, sono l'espressione di «una straordinaria possibilità per l’affermazione di nuove pratiche di libertà e di azione – al di là dei limiti della morale e delle vecchie ideologie moderne di cui oggi si lamenta la scomparsa».
Se a muoverli, però, non è il Bene, la Legge, una Causa, è perché quello che nell'etica dell'eroismo è messo in gioco è solo il proprio singolarissimo godimento. Un'etica dell'eroismo è un'etica del godimento. Esso «non ha nulla a che fare con il nostro piacere, la nostra felicità, il nostro benessere o il nostro personale interesse. Il godimento, nella sua portata etica, è qualcosa come un desiderio fuori-norma, fuori-Legge. Un desiderio assoluto e pericoloso, eccessivo», una Cosa oscura che alimenta l'eroismo. Eroismo che assume, allora, il significato di non cedere sul proprio desiderio assoluto come godimento, di essere se stessi, fedeli a se stessi, o, in termini nietzschiani, di diventare ciò che si è senza cercare alibi. Questi eroi non mettono in atto pratiche di rinuncia e sacrificio, non sono asceti, e cifra di questo eroismo del godimento che si nutre e si alimenta dell'eccesso è il cibo – l'hot dog dell'ispettore Callaghan o il bulimico Po di Kung Fu Panda
Questi eroi sono, però, esclusi dalla comunità, sono singoli, folli:  Batman custodisce in sé una Cosa oscura, una "creatura" che ringhia, si contorce e vuole tornare in libertà, ma per lui non esiste nessuna Causa, «solo la propria singolare, oscura, ossessione. Batman rinasce come il Cavaliere Oscuro proprio perché, a differenza di Superman, è un eroe senza Causa, fedele solo alla sua ossessione, alla sua Cosa oscura. In altri termini: al suo godimento, al di là della Legge». E quando indossa la maschera, egli ci fa vedere, ci rende visibile la Cosa-Altro, oscura, notturna, primordiale, che lo abita e lo assilla e lo decide come eroe. «Batman è il divenire eroe come divenire-pipistrello, divenire extra-umano del soggetto. La Cosa oscura ha una dimensione animale, extra-umana o inumana. Ma ciò significa che l’eroismo del godimento non è propriamente umano, perché spinge il soggetto fuori dall’orizzonte simbolico dell’umanità. Batman, supereroe senza nessun potere particolare, non è semplicemente un uomo travestito da pipistrello; bensì un uomo-pipistrello, un uomo che mette in gioco la Cosa oscura inumana o extra-umana, un uomo che si spinge oltre i limiti dell’umano: un Übermensch, potremmo dire con una famosa formula di Nietzsche che designa precisamente un andare al di là dell’umano. La Cosa oscura non ha nulla di rassicurante: il divenire-pipistrello come divenire-eroe del soggetto è già, anche, un divenire-mostro e criminale».
Anche Dirty Harry e il maniaco omicida, in fondo, si distinguono solo per il distintivo.



 

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