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venerdì 21 febbraio 2025

fantasia, ristoro, evasione, consolazione (on fairy-stories 2di2)

Se l'immaginazione è la facoltà della mente umana è capace di plasmare immagini di oggetti non concretamente presenti, la fantasia combina ciò con le nozioni di irrealtà - vale a dire, di estraniazione dal Mondo Primario - e di libertà dal dominio del fatto osservato. J.R.R.Tolkien respinge ogni tono deprecatorio con cui si possa parlare del fantastico come di una forma inferiore, lo si può fare solo confondendolo stupidamente, o maliziosamente, con il sogno - nel quale non vi è arte - e con disordini mentali quali illusione e allucinazione - in cui pure manca il controllo. Costruire un Mondo Secondario dentro il quale un sole verde risulti credibile richiede, piuttosto, fatica e riflessione. Così la fantasia realizza il desiderio creativo propriamente umano, di quell'uomo che Tolkien definisce il subcreatore che le fessure del mondo ha riempito di elfi e di folletti, ma pure costruito dèi e templi, e sparso dei draghi il seme. Fantasia che è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla ragione, né smussa l'appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione.

Altro desiderio primario che stanno al nocciolo del feerico è quello del ristoro, cioè dell'evasione dal tedio. Dovremmo - secondo Tolkien - guardare ancora il verde ed essere nuovamente stupiti, dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors'anche all'improvviso scorgere pecore, cani, cavalli - e beninteso lupi. Questo ristoro, le fiabe ci aiutano a averlo, e in questo senso soltanto il gusto per esse può renderci o mantenerci fanciulli. Il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Tolkien non arriva a dire vedere le cose come sono, non vuole trovarsi alle prese con i filosofi, anche se si azzarda a dire vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle, vale a dire quali entità separate da noi stessi. Si tratta cioè di pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare - dalla possessività. Questo tritume è il prezzo dell'appropriazione delle cose: per Tolkien abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle
Questo è Mooreeffoc, cioè la defamiliarizzazione che G.K. Chesterton descrive nel suo studio critico su Charles Dickens come la bizzarria di cose che sono divenute ovvie, quando le si scorga, all'improvviso, da un altro punto di vista. Mooreeffoc è una parola immaginaria, ma la si può trovare bell'e scritta in ogni villaggio inglese, essendo infatti l'insegna di un Coffee-room, un caffè, vista dall'interno attraverso una porta vetrata in una buia giornata londinese. Questo virtuoso recupero della freschezza della visione fa sì che ci si renda conto, all'improvviso, che l'Inghilterra è un paese alieno, che si scorga la sorprendente stranezza e singolarità dei suoi abitanti, delle loro costumanze e abitudini
La fantasia è così capace di aprire il forziere umano e di farne volar via tutte le cose racchiusevi, come uccelli da una gabbia, facendoci accorgere allora che tutto ciò che avevamo o sapevamo era pericoloso e dotato di poteri, nient'affatto saldamente impastoiato, sì anzi libero e selvaggio, e tanto poco nostro.

Infine, Tolkien prende in esame l'evasione e la consolazione. I critici che definiscono le fiabe letteratura di evasione confondono, non sempre in buona fede, l'evasione del prigioniero con la fuga del disertore. L'evasione che non è diserzione ha per compagni disgusto, rabbia, repulsione e rivolta, è la resistenza del patriota sempre preferibile all'acquiescenza del collaborazionista. Tali critici contrappongono la fiaba alla vita reale, ma l'idea che le automobili siano più vive dei centauri o dei draghi appare a Tolkien ben curiosa. Perché, si chiede l'autore, non dovremmo fuggire o condannare la tetra assurdità assira dei cappelli a cilindro e l'orrorre morlockiano delle fabbriche? E ci sono anche altre e più profonde evasioni che sempre hanno fatto la propria comparsa nella fiaba, altre cose più cupe e terribili che non il frastuono, il puzzo, la spietatezza e l'assurdità del motore a combustione interna: fame, sete, povertà, dolore, sofferenza, ingiustizia, morte. Tutte cose dalle quali le fiabe offrono una sorta di evasione.
Così come ci sono ambizioni e desideri ai quali le fiabe offrono una sorta di soddisfazione e consolazione: visitare, liberi come pesci, le profondità marine, volare, conversare con altri esseri viventi. Ma la consolazione delle fiabe ha anche un altro risvolto accanto alla soddisfazione immaginaria di antichi desideri: ben più importante è la consolazione del lieto fine. Il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione; l'improvviso capovolgimento gioioso smentisce l'universale sconfitta finale, permette una fugace visione della gioia, gioia al di là delle mura del mondo.

domenica 16 febbraio 2025

desiderare draghi con tutto il cuore (on fairy-stories 1di2)

Altro libro letto per il gruppo di lettura di questo mese è stato Albero e foglia di J.R.R. Tolkien. Il volume, pubblicato nel 1964, riunisce il racconto "Foglia", di Niggle e il saggio Sulle fiabe; nell'edizione da me letta sono inclusi anche la poesia Mitopoeia e un altro paio di racconti.

In On Fairy-Stories Tolkien si interroga innanzitutto su cosa sia una fiaba, non trovando adeguate le definizioni da dizionario che rimandano o a un racconto riguardante le fate, o a una storia irreale o incredibile ovvero una fola. Definizioni tanto meno adeguate se si guarda a come le fate siano a loro volta definite nei lessici: esseri soprannaturali di piccola statura. Ora, argomenta Tolkien, soprannaturale è un aggettivo ambiguo, comunque difficile da riferire alle fate: infatti, è l'uomo che, a paragone delle fate, è soprannaturale, laddove esse sono naturali, assai più naturali di quanto non sia lui. E quanto alla statura minuscola, la piccolezza non è una caratteristica del popolo fatato, degli abitanti di Feeria nel loro complesso, essa rientra piuttosto, a giudizio dell'autore, nell'amore tipicamente inglese per il delicato e il grazioso, e, pure, Tolkien ha il sospetto che questa minuzia di fiori e farfalle sia in parte il prodotto di una razionalizzazione che ha trasformato la malia del paese degli elfi in mera sottigliezza, e l'invisibilità in una fragilità tale da potersi celare in una primula: è una tendenza che sembra essere divenuta di moda non appena i grandi viaggi hanno cominciato a far apparire il mondo angusto per gli uomini e gli elfi assieme.
La definizione è troppo ristretta, le storie di fate non sono storie su fate o elfi, bensì vicende in cui si narra del mondo fatato, cioè Feeria, reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa. Gran parte delle fiabe parlano di avventure di uomini nel Reame Periglioso o nelle sue incerte marche di frontiera. Ciò che una favola è non dipende da elfi o fate, bensì dalla natura di Feeria, del Reame Periglioso, dall'atmosfera che vi domina.
Così, non rientra nelle fiabe il genere dei racconti di viaggio, i quali riferiscono molte meraviglie, visibili però in questo mondo mortale. I racconti di Gulliver non hanno diritto d'accesso in questa categoria. In secondo luogo, oltre ai racconti di viaggio, Tolkien esclude e definisce non pertinente qualsiasi racconto che ricorra al meccanismo del sogno per giustificare le meraviglie che vi compaiono: per una fiaba è essenziale che essa sia presentata come vera, dunque le storie dell'Alice di Lewis Carroll non possono dirsi fiabe. C'è poi un altro tipo di racconto meraviglioso che Tolkien escluderebbe, ovvero le favole di animali puramente tali, quelle in cui la forma animale non è che una maschera su un volto umano, un espediente cui fa ricorso il satirico o il predicatore. I racconti di Beatrix Potter si situano al di qua dei confini di Feeria.

Tolkien si interroga poi sull'origine delle fiabe, argomentando che evoluzione indipendente, derivazione da un ceppo comune, oppure diffusione in varie epoche da uno o più centri, tutte e tre le possibilità riconducono a un inventore, a un narratore. La mente incarnata, la favella e il racconto sono, nel nostro mondo, coeve: la mente umana, dotata dei poteri di generalizzazione e astrazione, percepisce non soltanto erba verde distinguendola da altri oggetti, ma s'avvede che è sia verde sia erba. E quanto possente è stata l'invenzione dell'aggettivo, nessuna formula magica o incantesimo lo è di più. La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l'immobile roccia in acqua veloce. Se possiamo distinguere il verde dall'erba, l'azzurro dal cielo, il rosso dal sangue, abbiamo già il potere di un mago, e si desta allora il desiderio di esercitare tale potere sul mondo esterno alla nostra mente: possiamo stendere un ferale verde sul volto di un uomo e generare un orrore, possiamo far germogliare boschi di argentee foglie e far indossare agli arieti velli d'oro, possiamo mettere fuoco caldo nel gelido ventre del drago. Ma tali fantasie sono la matrice di nuove forme, ha inizio Feeria, l'uomo diviene un subcreatore.

Opportuno poi per Tolkien passare ai bambini, per disinnescare la connessione istituita tra essi e fiabe. Le fiabe, nel moderno mondo alfabetizzato, sono state relegate nella stanza dei bambini, così come mobili sciupati o fuori moda vengono relegati nella stanza dei giochi. In tempi recenti è stato prodotto uno spaventoso sottobosco di racconti scritti o adattati - edulcorati, espurgati, spesso sciocchi, leziosi, paternalistici - a quello che è ritenuto essere il livello della mente e dei bisogni infantili, come può accadere con la musica, la poesia, la storia, i manuali scientifici,  concedendo così alla stanza dei bambini e all'aula scolastica assaggi e barlumi del mondo adulto che, nell'opinione dei grandi (spesso assai errata), sono adatti ai bambini stessi. Tutto questo nella convinzione che caratteristiche dei bambini siano la credulità e appetito per le meraviglie.
Ma, rammenta Tolkien di se stesso, non ho mai pensato che il drago appartenesse allo stesso ordine del cavallo, il drago portava il marchio Made in Feeria impresso a chiare lettere, e quale fosse il mondo in cui menava la sua esistenza era pur sempre un Altro Mondo. La fantasia, la creazione o il balenare di Altri Mondi costituiscono il nucleo del desiderio di Feeria. Desideravo draghi con tutto il mio cuore: il mondo che comprendeva un Fàfnir, sia pure soltanto immaginario, era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse. L'abitante delle tranquille e fertili pianure può sentirsi raccontare delle colline impervie e dei mari infecondi, e desiderarli in cuor suo, perché il cuore è saldo anche se il corpo è debole.
Si deve sperare che i bambini potranno avere fiabe a loro misura, al di là anziché al di sotto della loro misura. I loro libri, al pari dei loro indumenti, dovrebbero tener conto della crescita, e in ogni caso i libri dovrebbero incoraggiarla.

domenica 5 gennaio 2025

(re)iniziare da tolkien

I primi due libri letti quest'anno - anno per il quale ho posto l'obiettivo della mia reading challenge di Goodreads a 104 libri in un anno, stante che nel 2024 sono riuscito a leggerne 138 e che i 104 li avevo raggiunti o superati anche nel 2021 e nel 2022 - sono stati due romanzi di J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion e I figli di Húrin.

Con Tolkien cominciai nell'estate tra la seconda e la terza superiore - quindi a 16 anni, quindi quasi 30 anni fa - durante la quale lessi Il Signore degli anelli. Rilessi la saga negli anni dell'università, insieme a Il Silmarillion e Lo Hobbit. E poi ne feci una terza lettura nel 2020, quando consigliandolo a un mio studente in cerca di epicità scelsi di (ri)fare quel viaggio della compagnia, attraverso le due torri e fino al ritorno del re con lui.
Ora ho riletto per la seconda volta la storia che dalla musica degli Ainur arriva agli anelli del potere e alla Terza Età. Il pretesto per tale rilettura è stato il prossimo incontro del gruppo di lettura che faremo a scuola a febbraio, e che avrà per tema su cui confrontarsi e scambiarsi consigli quello dell'albero. Certo, nella saga tolkieniana gli alberi rivestono un ruolo, a partire appunto dall'inizio dei giorni, momento dal quale il destino dei due alberi di Valinor diventano il perno di tutte le narrazioni. Con loro comincia anche il calcolo del tempo: Nel giro di sette ore, la gloria di ciascuno dei due alberi raggiungeva il pieno e svaniva nel nulla; e ciascuno tornava alla vita un'ora prima che l'altro cessasse di splendere. Sicché a Valinor due volte al giorno era una dolce ora di luce più tenue, quando entrambi gli alberi sbiadivano, e i loro raggi d'oro e d'argento si mescolavano.
Ma avevo voglia di tornare a leggere Tolkien, questa è la verità. Quando Eru, l'Uno, Ilùvatar, convoca gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, per cantare, Melkor tenta di sovrastare l'altra musica con la violenza della propria voce, ma si ha l'impressione che le sue note anche le più trionfanti fossero sussunte dal tema musicale di Eru e integrate nella sua propria, solenne struttura. Effettivamente, spiega l'Uno, nessun tema può essere eseguito, che non abbia la sua più remota fonte in lui, poiché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere suo strumento nell'immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare.
Sembra la teodicea cristiana di Agostino, o quella laica di Hegel. Sembra il Mefistofele del Faust di Goethe, una forza che vuole perennemente il male e opera perennemente il bene.
Quando la musica è tradotta nella creazione di Arda, Ilùvatar parlando a Ulmo, che sarà il Valar signore delle acque, gli fa notare come Melkor abbia mosso guerra alla sua provincia, figurandosi crudi geli smodati, eppure non è riuscito a distruggere la bellezza delle sue sorgenti né quella dei suoi chiari stagni, piuttosto si è data la neve, e l'opera astuta del gelo; e neppure i calori e fuoco illimitati da lui adoperati hanno prosciugato né completamente zittito la musica del marepiuttosto sono nati l'altezza e la gloria delle nubi e delle brume sempre mutanti, il crosciare della pioggia sulla terraInvero l'acqua è ora divenuta più bella di quanto immaginasse il cuore di Ulmo, e in quelle nubi egli è più vicino che mai a Manwë - che sarà il signore del respiro di Arda, il cui diletto sono i venti e tutte le regioni dell'aria -, il suo amico, colui che egli ama.


Quella de I figli di Húrin è una storia già narrata, in forma molto più sintetica, nel Silmarillion. Vicenda di eroismo, di amicizia, di tragedia, di amore per la libertà sopra la vita: Lungo la via può attenderti la morte. Ma, se rimarrai, ti toccherà una fine peggiore: sarai schiavo. Se vuoi essere un uomo quando sarai in età adulta, farai come ti dico, e coraggiosamente.

Questo era il primo dei libri mensili a sorpresa della pila preparata per me da Simona, quello per gennaio.

Ultimo superstite rimase Húrin, il quale gettò lo scudo e afferrò un'ascia di un capitano degli Orchi e la brandì con entrambe le mani. Si cantava che l'arma fumasse del sangue nero delle guardie troll di Gothmog finché questa tutta si dissolse e, ogniqualvolta Húrin menava un colpo, gridava: "Aure entuluva! Il giorno risorgerà!". Settanta volte lanciò quel grido.

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mercoledì 27 luglio 2011

stella del mattino

stella del mattino, wu ming 4Stella del mattino, romanzo solista di uno dei membri del gruppo Wu Ming, narra le intrecciate vicende di un gruppo di studenti di Oxford di ritorno dalla prima guerra mondiale, tutte legate tra di loro dalla presenza di Lawrence d'Arabia il leggendario archeologo divenuto ispiratore e guida della rivolta araba contro l'impero turco e, visto che tra questi studenti spiccano J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis e il poeta R. Graves, dal problema di come conciliare la devastante esperienza appena vissuta con il mestiere e l'arte dello scrivere.
Tolkien sceglie di usare una lingua petolkien signore degli anellir costruire un mondo: egli, da filologo, «amava le parole, ma in un modo privato e peculiare. Erano arcani, enigmi da risolvere, contenevano storie, abbracciavano secoli e continenti. Ogni parola ne suggeriva altre, forse mai pronunciate, ma del tutto plausibili, ancora più dense di significati e rimandi, quindi più vere». Perciò, dopo la guerra, visto che «chi ricostruisce mondi perduti può essere capace di immaginarne di nuovi», egli «carta e inchiostro come roccia e scalpello, carne e sangue» «non aveva trovato un modo migliore per domare i mostri se non trasformarli in creature fiabesche, da relegare oltre lo specchio, nel regno fatato. Glielo consentiva il potere arcano della lingua, l'ancestrale forza evocatrice. Il segreto delle parole». 
Ecco, così, che il racconto de La caduta di Gondolin che «parlava dell'assedio di una roccaforte e dei coraggiosi difensori che avevano sacrificato la vita nel tentativo di salvarla» riguarda più in generale i sopravvissuti a una guerra e quelli che non ce l'hanno fatta; oppure che la storia di Tùrin Turambar «la storia di un fallimento implicito nel peccato stesso di immaginarsi "Turambar", Padrone del Fato» , oltre che richiamare le tragedie classiche come quella di Edipo, non può non ricordare anche le contemporanee vicende di Lawrence d'Arabia.
Pur se l'opera resta di fantasia la coerenza con le biografie dei protagonisti è garantita e la ricostruzione storica è fedele, soprattutto per quanto riguarda il problema della difficoltà di conciliare le spinte colonialiste con il principio di autodeterminazione dei popoli (in questo caso gli arabi) che caratterizzò la prima guerra mondiale.

mercoledì 9 marzo 2011

indovinelli nell'oscurità

Visto che una delle forme più antiche di filosofia è l'enigma, come sostiene tra gli altri Giorgio Colli ne La nascita della filosofia - nonché io nella mia tesi di laurea Le frecce di Apollo. La cultura dell'enigma nell'antica Grecia -, lotta umana per la sapienza dal carattere prettamente agonistico, ecco un po' di oscuri indovinelli che si lanciano Bilbo e Gollum - «porre, e talvolta risolvere, gli indovinelli era stato l'unico gio­co cui avesse mai giocato con altre buffe creature che sedevano nelle loro caverne in un passato lontano lon­tano, prima di perdere tutti i suoi amici e di essere scacciato via, solo, e di scendere furtivamente nelle tenebre, sotto le montagne» - ne Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien, per conoscersi/studiarsi con prudenza e timore appena si incontrano nel buio delle caverne sotto la montagna degli orchi.

Radici invisibili ha,
più in alto degli alberi sta,
lassù fra le nuvole va
e mai tuttavia crescerà.

Trenta bianchi destrier su un colle rosso battono e mordono, ma nessun si è mosso.

Non ha voce e grida fa, non ha ali e a volo va, non ha denti e morsi dà, non ha bocca e versi fa.

Un giorno un occhio in un azzurro viso vide un altr'occhio dentro un verde viso: «Quell'occhio è come me, però è laggiù, mentre il mio occhio se ne sta quassù».

Vedere non si può e neanche sentire, fiutare non si può e neppure udire. Sta sotto i colli, sta dietro le stelle ed empie tutti i vuoti, tutte le celle. Per primo viene, ultimo va, a vita e a riso termine dà.

Senza coperchio, chiave, né cerniera uno scrigno cela una dorata sfera.

Vive senza respirare, freddo come morte pare, beve ma non è assetato, non tintinna corazzato.

Questa cosa ogni cosa divora, ciò che ha vita, la fauna, la flora; i re abbatte e cosi le città, rode il ferro, la calce già dura; e dei monti pianure farà.

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