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domenica 30 marzo 2025

notte stellata e caffè parigini

Sempre nell'ottica di ottimizzazione dei tempi, mentre si seguiva la nostalgica serie tv Hanno ucciso l'Uomo Ragno. La leggendaria storia degli 883 e si ascoltava l'audiolibro L'arte della gioia di Goliarda Sapienza, ho montato un po' di set Lego acquistati di recente.

Tra questi l'iconico Caffè francese, che cattura l'eleganza di un pittoresco bistrot all'aperto parigino, decorato con vasi di fiori pensili e accogliente con i suoi croissant, tazze e giornali. Questo Café Fleur ha trovato adeguata collocazione in uno degli scaffali della libreria dedicati all'esistenzialismo, accanto ai saggi e romanzi di Jean-Paul Sartre.

Inoltre, uno dei due set dedicati ai dipinti di Vincent van Gogh, quello che riproduce la Notte stellata. La notte - più viva e più ricca di colori del giorno, secondo l'artista -, le nuvole vorticose, le dolci colline: i mattoncini reinterpretano le pennellate di van Gogh, la cui minifigure - con pennello, tavolozza e cavalletto - è inclusa nel set. Set che, una volta completato, può anche essere appeso alla parete.



venerdì 14 febbraio 2025

libri acquistati con il bonus docente (2) + altri ultimi acquisti

Siamo al secondo acquisto librario realizzato grazie al bonus docente.
Intanto abbiamo arricchito ulteriormente il nostro stash con altri due volumi di Vogue Knitting: la guida definitiva per imparare a lavorare a maglia,The Learn-to-Knit Book, e la versione portatile, da viaggio, per rapidi riferimenti sulle tecniche di maglia, The Ultimate Quick Reference. Altro campo di interesse, la calligrafia, coperto con  A to Z of Copperplate calligraphy, per imparare la calligrafia, padroneggiare la scrittura a mano in corsivo attraverso un quaderno di esercizi per principianti.
Quattro racconti per l'infanzia di un Charles Dickens, Storie fantastiche delle vacanze, cui sono arrivato dal saggio dedicato allo scrittore inglese da Gilbert Keith Chesterton citato da Tolkien nel suo scritto Sulla fiaba, letto questo mese. La sospensione dell'incredulità è il presupposto di un racconto introduttivo uscito dalla penna di un bambino di otto anni. Una lisca magica che, per una sola volta può esaudire qualunque desiderio viene donata da una Fata a una piccola Principessa. Un piccolo Capitano coraggioso di nome Boldheart combatte la sua guerra personale contro le angherie del Maestro di Grammatica Latina. Distinti ed educati piccoli signori accudiscono i grandi come fossero i loro bambini, in un paese incantato dove i grandi non devono mai far tardi, devono sempre ubbidire e per punizione sono messi nell'angolino.
Consigliato da un collega, Il serpente di Ouroboros di Eddison Eric Rücker ci trasporta, come in un sogno, in una terra lontana governata dalle leggi della magia, dove due regni sono in lotta per la gloria o la distruzione totale. Il duello mortale tra Gorice, il Re stregone di Witchland, e Goldry, Signore di Demonland, segna l’inizio di una guerra che coinvolgerà eroi, mostri, incantatori e principesse, trascinati nel vortice delle armi fino all’inaspettato finale. Pubblicato nel 1922, il romanzo fonde in una nuova forma letteraria elementi dell’epica classica, delle saghe nordiche, dei poemi cavallereschi e del romanzo gotico: è l’atto di nascita del fantasy, anni prima che Tolkien, amico e attento lettore di Eddison, creasse Arda. 
Filosofia, matematica, Deleuze, stile. Tutte parole che non possono non interessarmi. In che modo è possibile pensare il rapporto tra la matematica e il pensiero di Gilles Deleuze? Ancor più radicalmente: come è possibile pensare matematica e filosofia, scienza e filosofia, senza ricalcare i domini disciplinari della logica e della filosofia della matematica? Il volume di Andrea De Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Gilles Deleuze si propone di ricostruire le radici matematiche della metafisica deleuziana attraverso un costante contrappunto della filosofia con le matematiche più recenti, in particolare l’analisi complessa, le geometrie riemanniane e sub-riemanniane e i modelli neurogeometrici della morfodinamica contemporanea. L’idea alla base di questo studio è che un simile contrappunto non debba essere giustificato tramite delle analogie disciplinari tra diversi ambiti del sapere, ma a partire da una più profonda analisi dello stile in cui un pensiero prende forma. In tal senso, si propone l’idea di una logica dello stile, ben diversa dalla stilistica, che prende il nome di stilologia.
Infine, anche se deve ancora arrivare, il primo volume di una nuova collana della Carocci dedicata al gioco, Giochi per scrivere meglio, in cui Beniamino Sidoti mostra come scrivere sia una tecnica che si può acquisire, migliorare, condividere, approfondire e, come ogni tecnica, appresa anche giocando. Il libro propone un'ampia raccolta di giochi, sperimentati in contesti diversi nell'arco di trent'anni e di provata efficacia, da utilizzare a scuola o nella formazione, in attività sociali, individuali o di coppia. Sono giochi per imparare a scrivere meglio, per sviluppare nuove competenze e scoprire stili o generi letterari divertendosi. Perché ogni gioco permette di fare un passo in più, e tutti insieme di fare molti passi. Beniamino Sidoti è stato uno dei docenti del del corso di perfezionamento in Gaming and Boardgame Design organizzato dall'Università di Genova che ho seguito la scorsa estate, e un paio di suoi esercizi li ho già utilizzati a scuola.

Ne approfitto però anche per segnalare altri ultimi acquisti in libreria.
A fine gennaio abbiamo acquistato L'ora di greco, del premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang. In una Seoul rovente e febbrile, una donna vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi. Le era già successo una prima volta, da adolescente, e allora era stato l’insolito suono di una parola francese a scardinare il silenzio. Ora, di fronte al riaffiorare di quel mutismo, si aggrappa alla radicale estraneità del greco di Platone nella speranza di riappropriarsi della sua voce. Nell’aula semideserta di un’accademia privata, il suo silenzio incontra lo sguardo velato dell’insegnante di greco, che sta perdendo la vista e che, emigrato in Germania da ragazzo e tornato a Seoul da qualche anno, sembra occupare uno spazio liminale fra le due lingue. Tra di loro nasce un’intimità intessuta di penombra e di perdita, grazie alla quale la donna riuscirà forse a ritornare in contatto con il mondo. 
E, consigliato da Simone Regazzoni, L'anniversario di Andrea Bajani. Si possono abbandonare il proprio padre e la propria madre? Si può sbattere la porta, scendere le scale e decidere che non li si vedrà più? Mettere in discussione l’origine, sfuggire alla sua stretta? Dopo dieci anni sottratti al logoramento di una violenza sottile e pervasiva tra le mura di casa, finalmente un figlio può voltarsi e narrare la sua disgraziata famiglia e il tabù di questa censura con la forza brutale del romanzo. E celebrare così un lacerante anniversario: senza accusare e senza salvare, con una voce scandalosamente calma, come scrive Emmanuel Carrère a rimarcarne la potenza implacabile. Il racconto che ne deriva è il ritratto struggente e lucidissimo di una donna a perdere, che ha rinunciato a tutto pur di essere qualcosa agli occhi del marito, mentre lui tiene lei e i figli dentro un regime in cui possesso e richiesta d’amore sono i lacci di un unico nodo. L’isolamento stagno a cui li costringe viene infranto a tratti dagli squilli di un apparecchio telefonico mal tollerato, da qualche sporadico compagno di scuola, da un’amica della madre che viene presto bandita. In questo microcosmo concentrazionario, a poco a poco si innesta nel figlio, e nei lettori, un desiderio insopprimibile di rinascita - essere sé stessi, vivere la propria vita, aprirsi agli altri senza il terrore delle ritorsioni. Con la certezza che, per mettersi in salvo, da lì niente può essere salvato. L’anniversario è prima di tutto un romanzo di liberazione, che scardina e smaschera il totalitarismo della famiglia. Ci ferisce con la sua onestà, ci disarma con il suo candore, ci mette a nudo con la sua verità. È lo schiaffo ricevuto appena nati: grazie a quel dolore respiriamo. Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.

Ieri, invece, dopo il pomeriggio passato a scuola per il gruppo di lettura, abbiamo preso in libreria l'Atlante sentimentale dei colori di Kassia St Clair, 76 storie straordinarie, da amaranto a zafferano, per superare l'abitudine a pensare ai colori come a entità astratte, eteree e immutate, codificate una volta per tutte in manuali e cataloghi. Non è così. Gli antichi greci per esempio non riconoscevano al blu una sua precisa identità cromatica, tant’è che il mare nell’Iliade è colore del vino e non sembra in nulla uguale al cielo. Anche i colori insomma hanno una vita: nascono, crescono e muoiono, e a volte hanno seconde e terze vite. Non solo: per ogni colore ci sono centinaia di tonalità, ognuna con caratteristiche e origini precise. Non esiste solo il rosso, ma un prisma intero dallo scarlatto al vermiglione, dalla cocciniglia che si spreme da un insetto alla lacca di garanza estratta da una radice, dal rosso corsa, antenato del celebre rosso Ferrari, all’esotico sangue di drago ricavato da una resina asiatica. E se ogni sfumatura ha la sua storia, è vero anche che ogni sfumatura ha cambiato la nostra storia: la calce con cui si imbiancano i muri si diffuse per disinfettare gli edifici durante le epidemie; il kaki rivoluzionò la guerra introducendo negli eserciti il concetto di camouflage; l’assenzio tinse di verde i sogni dei poeti maledetti; ed è grazie al lapislazzuli, giunto dall’Estremo Oriente, se l’oro degli sfondi medievali si tramutò nel blu oltremare dei cieli rinascimentali, facendo entrare prepotentemente quel colore nella storia dell’Occidente. Tra storia e arte, moda e politica, antropologia e cultura pop, il testo restituisce l’arcobaleno che dà forma al mondo che ci circonda, alla cultura in cui siamo immersi.
Stella distante di Roberto Bolaño, acquistato anche perché il tema dell'incontro del prossimo mese del gruppo di lettura è stelle. Chi è stato Carlos Wieder? Un poeta o un assassino? Un artista o un criminale? Un pilota spericolato che si esibiva in performance di scrittura aerea o un autore di snuff movies? E ha veramente arrestato e torturato e ucciso, nei mesi successivi al golpe di Pinochet, decine di persone, per poi esporre le foto dei cadaveri ridotti a brandelli perché convinto della assoluta, gratuita purezza del male - perché solo il dolore è in grado di rivelare la vita, e perché lo scopo della sua è l'esplorazione dei limiti? Nulla, sembra ribadire l'autore, è più sfuggente della verità. Tant'è che, una pagina dopo l'altra, un tassello dopo l'altro - attraverso un accumulo di indizi, molti dei quali di natura squisitamente letteraria, e di storie parallele, alcune tragiche, alcune grottesche, alcune paradossalmente fiabesche (ma tutte, sempre, eccessive, come il Cile di quegli anni) -, il nostro percorso di avvicinamento a quella che potrebbe essere la verità diventa via via più sdrucciolevole, come se l'autore medesimo ci invitasse a dubitare degli eventi che narra non meno che degli scrittori che cita, delle poesie, delle riviste, dei movimenti letterari a cui allude. Nonché, in definitiva, della esistenza stessa di un uomo chiamato Carlos Wieder.
Dal 1970 al 1987, Gilles Deleuze tenne un corso di filosofia settimanale all’Università sperimentale di Vincennes che a partire dal 1980 si trasferì a Saint-Denis. Le otto lezioni tenute dal filosofo francese tra il marzo e il giugno 1981, sono state trascritte e annotate nel volume Sulla pittura. Che rapporto intrattiene la pittura con la catastrofe, oppure con il caos? Come evocare il monocromo e affrontare il colore? Cos’è una linea priva di contorno? Cosa sono una superficie, uno spazio ottico puro, un regime cromatico? Cézanne, Van Gogh, Michelangelo, Turner, Klee, Mondrian, Pollock, Bacon, Delacroix, Gauguin o Caravaggio costituiscono per il filosofo francese altrettante occasioni per discutere concetti fondamentali come quelli di codice, diagramma, figura, analogia, modulazione. Insieme ai suoi studenti, Deleuze ripensa radicalmente i concetti ai quali fa abitualmente riferimento la nostra comprensione dell’attività creatrice dei pittori. Concreto e luminoso, il pensiero deleuziano si offre qui al lettore al più alto grado della sua particolarissima forza espressiva. 

giovedì 13 febbraio 2025

napoleone e l’arte dei dittatori moderni

Il secondo dei due testi che prendo e propongo per approfondire il tema del potere politico e della sua legittimità è il primo capitolo del saggio Il bello, il buono e il cattivo di Demetrio Paparoni, testo che indaga come la politica abbia condizionato l’arte negli ultimi cento anni.

Nel Seicento, con l’assolutismo di Luigi XIV, e nel Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione, la Francia si affermava come una grande potenza dominante in Europa, sia sul piano politico e militare, sia su quello culturale. Ma a imprimere la svolta che avrebbe incoronato Parigi capitale mondiale dell’arte moderna fu Napoleone. Consapevole del fatto che le conquiste militari portano espansione e potere ma non consenso, Napoleone aveva intuito che la Francia avrebbe ottenuto l’egemonia politica sul mondo solo se avesse acquisito anche quella culturale. Assunse così un ruolo attivo nella gestione dei teatri parigini, entrando nel merito delle scelte dei programmi e degli attori; promosse l’architettura e la realizzazione di grandi monumenti; esercitò una forte influenza sugli artisti francesi dell’epoca; favorì gli spettacoli musicali. Ma il suo vero colpo di genio fu la straordinaria raccolta di opere d’arte antica che, perlopiù requisite nel corso delle campagne militari in Europa, soprattutto nei Paesi Bassi e in Italia , fecero del Louvre uno dei più importanti musei del mondo. 

Fu Napoleone a dare una svolta al Louvre. Credette così tanto nella capacità della cultura di far grande una nazione che, oltre ad accumulare opere prestigiose, impose al Louvre l’apertura giornaliera al pubblico, ne affidò la direzione generale a Vivant Denon, amico di Jacques-Louis David e artista anch’egli, inventando così la moderna figura del conservatore di museo (Bonaparte conferì al pittore neoclassico Andrea Appiani, che gli avrebbe dedicato diversi ritratti, lo stesso ruolo per la Pinacoteca di Brera).

Convinto per altro verso che gli abiti con cui ci si presenta in pubblico denotano il proprio status, dunque il proprio potere, Napoleone intuì che anche la moda avrebbe potuto giocare un ruolo nell’accrescere la reputazione della Francia. Apprezzava e sosteneva pubblicamente la rivista di cronaca mondana e di moda Journal des Dames et des Modes, che, attraverso acqueforti dettagliatissime, propose nei suoi inserti abiti che per originalità e gusto delinearono uno stile che avrebbe fatto proseliti nel mondo, contribuendo all’affermazione di una scuola della moda francese che impose al mondo modelli di vita e di comportamento.

In quanto capo militare dotato di poteri straordinari, Napoleone si può considerare un dittatore. Fu indubbiamente un leader carismatico, sostenuto dal consenso del popolo che gli riconobbe la capacità di modernizzare la nazione. Napoleone fu dunque insieme dittatore e principe illuminato. Per rafforzare il suo potere diede grande importanza alla propria immagine, come testimoniano i tanti ritratti a lui dedicati. Nell’iconografia che lo riguarda, gli abiti e le pose lo rendono un personaggio subito riconoscibile. Facendo propria la strategia della Chiesa, che aveva affidato all’arte il grande racconto delle Sacre Scritture per parlare a chiunque, agli ignoranti come ai colti, rivoluzionò inoltre l’idea della propaganda politica, dando incarico ai migliori pittori e scultori del tempo di glorificare la sua figura attraverso opere intese come veri e propri manifesti pubblici. La capacità di Napoleone di creare nuovi modelli di comunicazione fu tale che l’arte che lo celebrò avrebbe rappresentato, ancora a distanza di un secolo, un modello per i principali dittatori del Novecento, sia sul piano stilistico, sia su quello formale. 

L’arte propagandistica sovietica e quella nazista hanno trovato nel Neoclassicismo, in virtù delle sue caratteristiche formali, stilistiche e di contenuto, il modello ideale per rappresentare il consenso popolare di cui godevano i propri leader. Non è un caso che il maresciallo bolscevico Georgij Žukov, identificato nell’immaginario collettivo popolare russo come il Napoleone dell’Unione Sovietica, sia stato raffigurato su un cavallo impennato sulle zampe posteriori. La posa evoca il Napoleone che varca le Alpi di Jacques-Louis David. Allo stesso modo, non è un caso che un altro ritratto dedicato sempre al maresciallo Georgij Žukov faccia il verso, in particolare nella postura e negli ornamenti onorifici, al ritratto di Napoleone realizzato da Andrea Appiani.

Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante. L’arte deve pertanto muoversi nella stessa direzione della politica. Questo implica che il suo linguaggio non può essere autonomo, libero di offrire una visione individuale. All’interno di una concezione univoca della storia, nella visione dei dittatori, tutte le forme di espressione creativa debbono mirare a costruire un sistema linguistico monolitico, in linea con i temi della politica. In base a questa logica, i regimi totalitari arrivano a eliminare fisicamente artisti e pensatori i cui ideali non coincidono con quelli della classe dirigente.

Nell’era napoleonica invece l’artista, pur aderendo a una concezione di opera d’arte totale, non fu costretto a muoversi in un contesto regolato da ordini, divieti e provvedimenti. Dal canto suo, Napoleone non accettava che artisti e intellettuali manifestassero pubblicamente dissenso nei suoi confronti. Non trasformò però la censura in repressione fisica, ma impose ai dissidenti l’allontanamento dai confini nazionali. Nonostante questo, nella Francia di Napoleone gli artisti furono liberi di scegliere i temi da affrontare.

Nel 1934, l’Unione Sovietica di Stalin mise nero su bianco che il realismo socialista “esige dall’artista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario”, precisando che “la veridicità e la concretezza storica della descrizione artistica della realtà devono coesistere con lo scopo del cambiamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Nella Germania di Hitler, le restrizioni furono altrettanto drastiche. Joseph Goebbels, ministro per la Propaganda, stigmatizzava come “arte degenerata” qualunque espressione artistica non rispondesse ai canoni dettati dal regime, costringeva all’esilio centinaia di artisti, organizzava roghi di libri non graditi. Nel discorso in cui elogiò il rogo di libri del 10 maggio 1933, Goebbels affermò che “il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri”, che era giusto “gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”. Nulla di simili avvenne nella Francia di Napoleone che, oltre a favorire le raccolte di sculture e dipinti, incoraggiò le collezioni di libri antichi, arazzi, stoffe, porcellane e qualunque altro tipo di manufatto testimoniasse sensibilità e impegno intellettuale.


Con la sua politica culturale, Napoleone creò i presupposti perché la Francia approdasse al Novecento come una straordinaria fucina di creatività.  Napoleone fu il primo dittatore moderno, sostenuto da un forte consenso popolare. Nessuno prima di lui aveva progettato un uso così determinato e diffuso su larga scala dell’arte figurativa propagandistica e autocelebrativa.

venerdì 7 febbraio 2025

napoleone e il bonapartismo

Nella classe quarta in cui insegno storia ho appena finito di spiegare l'età napoleonica e, prima di passare alla Restaurazione, mi fermo un po' con le ragazze e i ragazzi a riflettere sul potere politico e la sua legittimità. Come direbbe Max Weber, affinché lo Stato sussista, i dominati devono sottomettersi all'autorità di chi detiene il potere, e vi sono tre "giustificazioni interne", vale a dire tre tipi di legittimità di un potere: attraverso il costume, l'autorità tradizionale, ad esempio il potere esercitato dal patriarca o dal principe di stampo antico; attraverso la legalità, "in forza della disposizione all'obbedienza nell'adempimento di doveri conformi a una regola"; attraverso l'autorità carismatica, il carisma personale del "capo", ad esempio del condottiero in guerra o del demagogo nel parlamento. In qualche modo Napoleone sembra incarnare perfettamente tutte e tre queste giustificazioni e legittimità di potere.

Prendo e propongo allora due testi per approfondire. Il primo è il capitolo dedicato a Napoleone da Alberto Mario Banti nella raccolta I volti del potere.

Parigi, 2 dicembre 1804 Parigi. Chiesa di Notre-Dame. È mattina e tutto è pronto per l’incoronazione di Napoleone a Imperatore dei francesi. Ne è passato del tempo dal 18 brumaio 1799. Il potere di Napoleone è molto solido. Talmente solido che gli sembra sia giunto il momento di dargli la più clamorosa delle sanzioni ufficiali, combinando genialmente tradizione e innovazione. E così, il 18 maggio 1804 viene pubblicato un nuovo testo costituzionale che proclama Napoleone e i suoi discendenti titolari della dignità imperiale. Anche questa modifica viene sottoposta a plebiscito confermativo: i voti favorevoli sono oltre 3.000.000, i contrari 2.569, e di nuovo moltissimi sono coloro che non vanno a votare. Ma questa volta a Napoleone il plebiscito non basta. In forma singolarmente ibrida, l’esercizio della volontà popolare viene affiancato dalla messa in scena di un rito antico, quello dell’incoronazione dell’imperatore. Il ricorso al cerimoniale tardomedievale fa parte di una strategia che intende sottolineare il carattere dichiaratamente neomonarchico del potere riconosciuto a Napoleone. Però Napoleone non è un monarca per diritto ereditario. Lui ne è perfettamente consapevole e se ne vanta perfino, tanto che nel 1805 fa scrivere: “Le ricerche genealogiche sulla famiglia Bonaparte sono una fanciullagine. È facilissimo rispondere alla domanda ‘donde trae origine questa famiglia?’: dal 18 brumaio. Si può essere forse tanto importuni e mancare talmente di rispetto all’imperatore da annettere qualche importanza ai suoi antenati? Soldato, cittadino, sovrano, egli deve tutto alla propria spada e all’amore del popolo”. Non è un sovrano per diritto divino. E allora è necessario che nella cerimonia di incoronazione siano introdotte alcune varianti capaci di esprimere, in modo spettacolare, le peculiarità della nuova potestà imperiale. Quali sono?

Le corone imperiali non vengono poste dal papa sulle teste della coppia imperiale inginocchiata davanti a lui. Al momento giusto è invece Napoleone che si alza in piedi, prende la corona nelle sue mani, si volta verso il pubblico e, dando le spalle al papa, incorona se stesso; dopodiché pone la corona anche sulla testa di sua moglie inginocchiata davanti a lui.

Bonaparte incorona se stesso e la sua consorte dentro una chiesa sotto gli occhi di un annichilito e impotente pontefice, ma secondo un antico rito sacralizzante: è una rappresentazione che in una forma altamente sintetica esprime un modo di intendere la politica che unisce tradizione e innovazione. Napoleone è un sovrano che vuole conservare l’aura sacralizzante che da secoli è propria del potere, minimizzando però il ruolo di mediazione svolto dal vicario di Cristo; la vera legittimazione, il senso vero della sacralità che gli deriva da quel rito, Napoleone pensa di doverla solo a se stesso e alla forza che gli è stata data da atti molto terreni, come le vittorie militari, i colpi di Stato, i plebisciti: e così interiorizza l’aura sacrale che tradizionalmente appartiene alla figura del sovrano, facendola derivare principalmente da se stesso, come a voler sottolineare che tale aura è una funzione delle sue gesta più che l’effetto della mediazione papale e della benevolenza divina.


Il mito del grande dittatore, del condottiero capace di guidare masse di uomini al macello e alla gloria, non smette di brillare; e, ciò che è di più, è un mito che assume paradossali valenze “democratiche”.

Il dittatore bonapartista non è più il sovrano di antico regime. È un uomo uscito dall’oscurità del popolo, capace di farsi da sé, di imporsi per le sue doti magnetiche e carismatiche. È anche un “vero uomo”, dominatore di donne. È un leader che trova nell’esercizio della violenza bellica la massima espressione della sua mascolinità. Soprattutto, è un capo che vuole incessantemente ostentare il consenso popolare che sostiene la sua autorità: non importa se quel consenso è - in misura maggiore o minore - estorto con la repressione del dissenso o con la costante esibizione della forza militare: questo consenso è ciò che fa della dittatura bonapartista una sorta di dittatura “voluta” o “benedetta” dal popolo, e quindi ne fa qualcosa che potrebbe essere definito una “dittatura democratica”.

Ecco, questi sono i tratti di una figura e di un sistema politico che nascono con Napoleone, e che dopo la sua morte non smettono di esercitare il loro potere di fascinazione. In definitiva, la vera importanza storica di Napoleone consiste proprio nel fatto che con lui nasce la figura del dittatore contemporaneo, un “dittatore democratico” che, se non è propriamente “voluto” dal popolo, pretende sempre di parlare e di agire “in nome del popolo”: e, com’è piuttosto evidente, si tratta di una figura politica che sotto varie e diverse incarnazioni non ha mai smesso di abitare i sogni e gli incubi dell’Occidente e dell’America Latina, dai primi dell’Ottocento fino ai giorni nostri.

domenica 26 gennaio 2025

la macchina volante di leonardo da vinci

Altro set Lego acquistato a inizio anno, la Macchina volante di Leonardo da Vinci permette di esplorare la storia dell’ingegno artistico, di costruire un modello dettagliato del visionario ornitottero. Si tratta di una replica autentica del design di Leonardo, dotato di ali azionabili tramite un visibile gioco di corde, cerniere e pulegge, e che include un espositore e la minifigure di Leonardo da Vinci.










Questo set, che permette di spiegare le ali della creatività, trova facilmente posto nello scaffale con i testi di e su Leonardo, in cui già un amigurumi realizzato da Simona era il benvenuto. Facilmente, in realtà, solo perché scontata la collocazione, ma certo non perché lo spazio disponibile renda la renda agevole.

Di Leonardo da Vinci alle classi quarte leggo sempre un passo - citato anche da Eugenio Garin nel suo capitolo sul filosofo presente in L'uomo del Rinascimento - del Codice Arundel.
Secondo Garin un documento singolare della mutata immagine del "filosofo" nel Rinascimento in qualche modo è offerto da una grande opera d'arte: i Tre Filosofi del Giorgione, con le tre enigmatiche figure assorte - un giovane scienziato curioso della natura, un vecchio venerando e un orientale -, con il più giovane, seduto, tra stupore e attesa, che guarda quella che - appunto - Leonardo da Vinci chiamò «la minacciante e scura spilonca», magari la caverna di Platone. Una radiografia dei Tre filosofi rivelò che in origine i filosofi erano i Re Magi, che con i loro calcoli stanno osservando la Stella che annuncia la venuta del Cristo e indica la strada, se esattamente interpretata. I Magi infatti non sono che degli astrologi, oltre che dei saggi. Orbene, nella redazione definitiva dei Tre Filosofi gli astrologi si trasformano in filosofi, che indagano i misteri della natura usando, almeno il più giovane, calcoli e misure. Il che traduce fedelmente la posizione più volte espressa dal Ficino circa il succedersi nel tempo di vari tipi di ricerca. In altri termini il filosofo non fa che portare a livello di ricerca razionale le istanze a cui intendevano rispondere e magi e astrologi. D'altra parte il nuovo filosofo continua a chinarsi sulla caverna, che per un verso rimanda a Platone, ma per l'altro non può non rievocare con forza proprio Leonardo, e il testo famoso del Codice Arundel: «vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, pervenni all'entrata duna gran caverna; dinanzi alla quale, piegato le mie reni in arco e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia; e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là dentro fusse alcuna miracolosa cosa». 

Anche Massimo Cacciari, nel suo saggio sull'Umanesimo La mente inquieta, ricorda l'occhio leonardesco, la sua «bramosa voglia» di ficcarsi nell’ignoto, di penetrare nella “mirabil necessità” che tutto anima e tutto collega, nella caverna del mondo, della “artifiziosa natura”. Potrebbe essere, concorda anche il filosofo, l’occhio del piú giovane dei tre filosofi del Giorgione, fiducioso della propria forza, fisso di fronte alla caverna - ingens sylva, pronto a esplorarla e rappresentarla; abissi di ignoto, sí, gli si presentano dinanzi – ma nulla di inconoscibile. 

venerdì 4 febbraio 2022

woman in gold

Il film Woman in gold, del 2015, ricostruisce le vicende legate al celebre dipinto di Gustav Klimt Ritratto di Adele Bloch-Bauer.
In una scena la donna siede davanti al suo ritratto con la nipote e le chiede se è bella nel quadro. , risponde la bambina, però non sembri felice.
Adele pronuncia allora questa battuta:
Mi chiedo come sarà essere donna quando tu lo diventerai. Dovrai accontentarti di cose futili?



lunedì 24 gennaio 2022

la morte del tempo [2]

Saturno devorando a su hijo è una delle quattordici Pinturas negras, realizzate da Francisco Goya nella sua residenza di campagna fra la fine del 1820 e la metà del 1823. Un incubo denso di misteri, come ebbe a definirlo Baudelaire. Un'icona che evoca potentemente il legame inscindibile fra il tempo e la morte.

Le Pinturas negras hanno esercitato una grande influenza nella nascita e nello sviluppo dell'arte moderna. Del ciclo si è detto che esprime lo sconforto e la depressione personale dell'artista, alle prese con i malanni dell'età avanzata e con più generali condizioni di salute precarie, la delusione e l'allarme per l'orientamento autoritario del nuovo corso assunto dalla monarchia spagnola, l'inclinazione a tradurre in immagini gli incubi connessi con l'approssimarsi della morte.
Si deve riconoscere che mentre nessuna delle interpretazioni ora accennate sembra essere totalmente convincente, motivi quali quelli richiamati, spesso fra loro intrecciati, si possono effettivamente cogliere. Un comune denominatore può essere certamente individuato in quella tonalità emotiva dei dipinti, ottenuta facendo ricorso a una tecnica particolare e inconfondibile: bianchi sporchi, amalgamati a neri spessi come catrame, ocre fangose, violenti sfregi di rosso e giallo.
Altra caratteristica comune è la rottura dei tradizionali schemi rappresentativi ispirati all'ideale delle "belle forme". Figure deformate, corpi smembrati, sfondi tenebrosi, dettagli raccapriccianti.
Il baricentro del programma iconografico soggiacente alle Pinturas è costituito dalla raffigurazione di Saturno, come divinità della malinconia e della vecchiaia. Un Saturno col quale si identificava lo stesso Goya, o col quale l'artista intendeva stigmatizzare gli agenti dell'Ancien Régime. Un Saturno divoratore e al tempo stesso divorato, disperato e furente, angosciato e terrificante, spietato carnefice e insieme patetica vittima. Un Saturno attraversato da una violenza irrefrenabile, e insieme disarmato nell'ossuta vecchiezza delle membra. Un Saturno - infine - consumato da ciò che per oltre due millenni e mezzo era stato il suo ruolo di implacabile consumatore.

Del dipinto intitolato Saturno devorando a su hijo, si conoscono due precedenti importanti. Il primo è un disegno a matita realizzato dallo stesso artista spagnolo. Il secondo è un quadro di Peter Paul Rubens risalente al 1636, al quale Goya si sarebbe parzialmente ispirato, o che comunque avrebbe avuto la possibilità di vedere. 
Molto probabilmente il disegno precede il dipinto, anche se le differenze sono tali da far escludere che si tratti di uno schizzo preparatorio della pintura. Va in ogni caso sottolineato un aspetto che le accomuna, e nel contempo rende entrambe irriducibili ai moduli di rappresentazione tradizionali di Kronos: il dio non è accompagnato da nessun simbolo temporale, né da alcun altro segno convenzionale di riconoscimento. Salvo uno: il pasto cannibalico.
Già realizzando il disegno, dunque, Goya rompe radicalmente con la tradizione iconografica relativa a Saturno e ce lo presenta nella sola dimensione del dio cannibale.
In entrambe le opere emergono due rilevanti "anomalie". La prima riguarda la mancanza della falce, o di qualsiasi altro strumento che possa svolgere una funzione analoga. La seconda riguarda specificamente l'immagine di Saturno che divora.
Tutte le incisioni, compreso il quadro di Rubens, rappresentano i figli del dio come bambini quasi neonati, secondo quanto si ritrova nella narrazione di Esiodo. Goya, al contrario, introduce una figura giovanile che in nessun modo può essere qualificata come un bambino (Bozal, Pinturas negras).
Si può segnalare un primo e fondamentale aspetto relativo al Saturno raffigurato da Goya, vale a dire la discontinuità rispetto a una lunga e sostanzialmente ininterrotta tradizione iconografica. L'artista spagnolo converte Saturno in un vecchio che divora un giovane, in una frenesia orgiastica che deforma il volto e tutto il suo corpo. Siamo dunque in presenza di una figura spogliata di ogni riferimento meramente metaforico, non più destinata a rinviare ad altro, non investita di altro significato che non sia quello che il dipinto mostra in tutta la sua feroce evidenza: un uomo vecchio che divora il corpo di una giovane donna. Nel Saturno, Goya ha aperto un varco verso l'unico autentico "sfondo" - il nulla che la grande arte occidentale, nelle sue espressioni più lucide, aveva presentato al di sotto della messa in scena delle figure.
È questo il senso, ciò che resta del senso, del Saturno. È sorto ciò che sta al di sotto del linguaggio e del pensiero, al di sotto del loro mondo e delle loro illusioni, e tutto ciò non è altro che il rapporto fra preda e predatore, la vita che ha l'unica esigenza di distruggere la vita (Bonnefois, Goya, le pitture nere).
In Goya l'idea nasce a partire dall'immagine e per questa ragione è più difficile da cogliere. L'anteriorità dell'immagine rispetto al concetto balza evidente dal ciclo delle Pinturas negras, e in particolare dal Saturno. Del dipinto sono più le cose che ignoriamo, o comunque controverse, rispetto a ciò che si può considerare accertato: non sappiamo, anzitutto, quale fosse il titolo posto dall'autore; di conseguenza non possiamo neppure essere certi di ciò che il dipinto raffiguri. 
Nel tentativo di ritrovare il bandolo di una matassa assai intricata, a risultati significativi è possibile pervenire mettendo a confronto l'opera di Hogarth e quella attribuita a Goya. Il percorso concettuale che esse descrivono è esattamente l'uno l'opposto dell'altro. L'artista inglese ricapitola e accumula, con accuratezza perfino puntigliosa, tutti i dettagli che, sotto il profilo storico, sono stati aggiunti per descrivere il processo che conduce da Kronos alla morte attraverso chronos, quasi a volersi assicurare che il "messaggio" giunga forte e chiaro.
Nulla di questo ritroviamo nel dipinto di Goya. La cura posta da Hogarth nell'accumulazione pedante dei simboli del tempo si rovescia nella scelta di cancellarli altrettanto meticolosamente tutti. Ciò che balza fuori dall'opera con devastante incisività è il pasto cannibalico. Di ciò "parla" questa sconvolgente pintura.

In altre opere, a parte il Saturno, non sono pochi né di scarso significato gli elementi propriamente "saturnini", i quali confermano dunque un interesse non effimero né superficiale per la figura della divinità greco-latina. È il caso di Dos frailes, dove una figura demoniaca e cadaverica parla all'orecchio di un anziano provvisto di una folta barba bianca, il quale cammina sostenendosi con un bastone, manifestando chiaramente la sua età avanzata e la sua sordità. Questa immagine costituisce la rappresentazione pittorica tradizionale del dio Kronos ed è stata altresì generalmente interpretata come autoritratto di Goya ormai decrepito e incerto nel camminare (Hervàs Leòn, La Quinta de Goya y sus Pinturas Negras).
Un'immagine molto simile la ritroviamo in un disegno nel quale l'artista ha verosimilmente ritratto se stesso appoggiato a due bastoni, impossibilitato a camminare da solo, aggravato da un'età molto avanzata e da una salute malferma. Aun aprendo - "ancora imparo". Il vecchio cadente, incurvato sotto il peso degli anni, quasi nascosto alla vista da una grande chioma bianca ricongiunta a un'imponente barba incolta, di cui si coglie l'estrema difficoltà nel camminare - ancora impara.
Di questa citazione è stato ricostruito il percorso che, con tutta probabilità, mette in relazione Goya con la pittura dell'età moderna, dal Cinquecento (e forse anche molti secoli prima) fino alla fine del XVIII secolo.
Il titolo Ancora imparo ha la sua origine nella sentenza utilizzata da Platone e da Plutarco, mentre l'immagine di un vecchio appoggiato a due bastoni è in relazione con la stampa omonima di Girolamo Fagiuoli. Nella prima metà del secolo XVI era un luogo comune rappresentare Cronos come un anziano barbuto, vestito con una tunica e appoggiato a due bastoni, come risulta da una stampa di Marcantonio Raimondi. Più vicina nel tempo è la stampa di William Blake che illustrava il libro di Henry Füssli Lectures on Painting che Goya poteva conoscere. In essa si mostra Michelangelo Buonarroti appoggiato a un bastone (Matilla, Aun aprendo, in Goya: Luces y Sombras).
La ricostruzione è certamente utile, ma rischia di essere fuorviante se non viene completata con il riferimento alla fonte originaria. La citazione è completa solo se non si tiene separato il disegno dalla citazione, perché essi costituiscono un unico lemma, semplicemente articolato in una parte disegnata e in una parte scritta.
La frase riportata, di per sé, è solo la metà di una sentenza, che non risale affatto (se non in maniera derivata) a Platone, il quale si limita a citare la fonte originaria, e cioè Solone. L'espressione aun aprendo traduce aei pollà didaskomenos - "sempre molte cose imparando". Ma nella formulazione ellittica implicitamente rinvia a ciò che precede. E ciò che precede è gherasko - "invecchio". Il disegno va "letto" nella relazione organica fra l'immagine e la citazione: Goya cita per intero la sentenza di Solone, solo che la scinde in due linguaggi diversi e complementari, affidando alle parole scritte il "sempre imparando", e all'immagine del vecchio la malinconica confessione: "invecchio".
Anche per questa via è dunque possibile escludere che nel Saturno l'artista spagnolo abbia semplicemente "dimenticato" di raffigurare gli attributi che infallibilmente accompagnano la rappresentazione del dio. Se nel dipinto non compaiono i tradizionali simboli temporali, essi mancano perché una loro eventuale presenza renderebbe meno leggibile la chiave di interpretazione di Kronos-chronos che Goya intendeva rendere evidente. Mancano perché, ciò che resta, e balza dunque in primo piano, è un aspetto che non è riconducibile alla pluralità indistinta dei segni che scandiscono il passaggio da Kronos a chronos e poi alla morte.
Per Goya, Saturno è il dio cannibale, il tempo che tutto tutto divora e consuma. L'acquaforte di Hogarth segna il culmine di un processo di accumulazione di simboli temporali che hanno condotto al compimento - ma insieme anche alla dissoluzione - dell'immagine tradizionale del tempo. Dopo quell'esito, non è più possibile ornare l'immagine del tempo con attributi che ne addolciscano la forza devastatrice. Saturno compare in tutta la selvaggia ferocia del tempus edax, che non lascia alcuno scampo. Nessuna divagazione, nessun cedimento all'eufemismo della metafora, ma il tempo come potenza instabile e distruttiva, rappresentato nella sua brutale quintessenza del divoratore.

Ma il disegno esige un ulteriore approfondimento sul piano specificamente filosofico. Con uno scatto d'orgoglio, quel vecchio rivendica di essere ancora capace di imparare. Anzi, nella connessione fra il disegno e la citazione, Goya ci dice che la sofferenza gli ha insegnato.
Che la sofferenza [pathos] possa produrre conoscenza [mathos] è convinzione che affiora ripetutamente. Lo afferma Eschilo (Agamennone), ma una convinzione analoga è espressa anche da Sofocle (Elena, Edipo re). Il pathos è dunque il tramite di un'esperienza che conduce verso un arricchimento della conoscenza, come già aveva solennemente affermato Erodoto, sostenendo che le sofferenze producono conoscenze.
Se davvero il vecchio raffigurato nel disegno corrisponde a un autoritratto; se l'immagine appena delineata di un personaggio che procede con fatica appoggiandosi a due bastoni e che di sé dice di aver imparato coincide con quella dell'artista spagnolo - questo è ciò che Goya ha imparato e vuole trasmetterci. Egli ha "imparato" che il tempo consuma e distrugge tutto ciò che ricade sotto il suo dominio, fino al punto da divorare ciò che ha generato. A differenza di quello descritto da Hogarth, il Kronos di Goya lotta disperatamente per sopravvivere. Gli occhi ne dicono la follia, per sopravvivere distrugge ciò che soltanto ne può assicurare la continuità. Un impulso di morte che si esprime in disperata e cieca volontà di vita (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

venerdì 21 gennaio 2022

la morte del tempo

Il pensiero greco conosce due modi distinti per definire il tempo (Per la verità, oltre ai termini aion e chronos, di cui ora si dirà più ampiamente, nei testi letterari e filosofici greci antichi si possono ritrovare altre due accezioni diverse, corrispondenti a categorie temporali. Kairos è il termine con cui ci si riferisce a una dimensione qualitativa del tempo. Coincide dunque con quello che si potrebbe chiamare il "momento opportuno", il "tempo debito", nel quale la continuità chronologica si interrompe per l'irruzione di un "istante" diverso e più "intenso" rispetto ai precedenti. Eniautos, infine, è il tempo ciclico, il "grande anno", un periodo di tempo relativamente lungo, nel quale si ripresentano gli stessi avvenimenti): da un lato esso è qualificato come aion, il "sempre-essente", la "durata" senza limiti, che non ha né principio né fine. Dall'altro lato esso è chronos, grandezza misurabile, forma temporale del divenire e del perire.

Per Anassimandro la nascita e la morte degli enti, il ciclico compimento di una giustizia universale che reintegra l'unità originaria dissipata dalla molteplicità del divenire, avvengono secondo l'ordine del tempo (chronos). 
Per Eraclito il tempo è aion, ed è un fanciullo che si comporta come tale, e dunque gioca disponendo le pedine sulla scacchiera. 
Questa scissione fra tempo aionico e tempo cronico, tra la durata "sempre-essente" dell'essere e l'irreversibilità del divenire, è riconfermata nel mito cosmologico descritto nel Timeo platonico, dove aion è la forma del tempo riferita all'essere, e chronos è il tempo attribuito al divenire.

Nelle fonti più antiche che ne hanno tramandato la figura, Kronos è provvisto di un'intelligenza contorta e terribile, anzi, la cosa più terribile. I due aggettivi formano in realtà un'endiadi. Egli è infatti terribile, perché la sua metis non è lineare, non ha la trasparenza del logos, né il "naturale" orientamento verso il bene che è proprio della sophia.
Una saggezza "ricurva", una falce affilata, la propensione a cibarsi di carne umana. Con questi attributi egli comparirà frequentemente nelle raffigurazioni rinascimentali e barocche, fino alle soglie dell'età contemporanea.

Nella lingua greca antica, Kronos si scrive con la lettera kappa. Con una leggera differenza (all'ascolto, quasi impercettibile) nella lettera iniziale - una chi, anziché una kappa - si scriveva il termine impiegato per indicare il tempo - chronos. La fortuita somiglianza fra le parole venne adottata a prova dell'identità reale fra le due concezioni, che per la verità avevano alcuni tratti in comune.
Poco alla volta, soprattutto a partire dal IV e dal V secolo dopo Cristo, Kronos viene raffigurato attraverso simboli che hanno un evidente significato temporale, mentre anche i tratti originali vengono interpretati come simboli del tempo.
Il falcetto, tradizionalmente spiegato come utensile agricolo o strumento di castrazione, giunse a interpretarsi come simbolo dei tempora quae sicut falx in se recurrunt, e la favola mitica, che egli avesse divorato i suoi figli, significava che il Tempo divora tutto ciò che ha creato (Panofsky, Il Padre Tempo, in Studi di iconologia).
Kronos diventa chronos. In quanto è edax rerum, divoratore di tutto ciò che ha creato, il tempo coincide con l'immagine di Kronos che divora i suoi figli. Analogamente, la falce, "ricordo" dell'evirazione inflitta a Urano, è insieme anche lo strumento che richiama l'attività agricola ed è inoltre il simbolo della ricorrenza curvilinea del tempo.
Ma poiché la morte era rappresentata con una falce, si realizza una sovrapposizione. Appropriatosi delle qualità di Kronos, il tempo entra così in una relazione sempre più stretta con la morte.
Questa è dunque l'origine della figura di Padre Tempo quale la conosciamo. Mezzo classica e mezzo medievale, questa figura illustra tanto la grandiosità astratta di un principio filosofico, quanto la voracità maligna di un demone distruttivo, e appunto questa ricca complessità dell'immagine nuova spiega il frequente apparire e il diverso significato del Padre Tempo nell'arte rinascimentale e barocca. Verso gli ultimi anni del XV secolo, le rappresentazioni della Morte cominciano a desumere la caratteristica clessidra e talvolta perfino le ali. Il Tempo a sua volta poteva raffigurarsi come ministro della morte, che egli provvede di vittime, o come demone dai denti di ferro ritto in mezzo alle rovine (ibid.).
Ciò che concettualmente era ancora possibile - la distinzione fra la morte e il tempo e fra questo e Kronos-Saturno - sfuma dal punto di vista iconologico. Dall'immagine del tempo si prelevano le ali, da quella di Saturno l'aspetto tetro e decrepito, e inoltre alcuni tratti strettamente saturnini, come il falcetto e il motivo cannibalico.

La miseria dell'esistere, l'evanescenza che nulla risparmia e da cui nulla può sottrarsi. Testimonianza di questo modo di concepire la condizione dei viventi è la ricca e diversificata tradizione iconologica fiorita in età rinascimentale e moderna sul tema della vanitas vanitatum.
Il termine "Vanitas" come distintivo di una categoria particolare di Nature morte è già presente negli inventari del primo Seicento rispetto a una classificazione che comprendeva in un primo tempo gli oggetti preminenti nella composizione e in un secondo tempo classificava genericamente la pittura come StillelebenVie coyeNatura in posa. Sulla fortuna, sull'estensione e sulla resistenza del termine "Vanitas" ha giocato un ruolo fondamentale il riferimento al passo dell'Ecclesiaste (Veca, Vanitas. Il simbolismo del tempo).
La traduzione latina favorisce una lettura dell'espressione chiave della Bibbia secondo un'accezione solo parzialmente corrispondente al significato originale. Il sintagma del testo biblico - hevel hevelim - una volta reso col latino vanitas vanitatum assume talora un'intonazione moraleggiante che appare riduttiva e unilaterale. Ciononostante, almeno alcune opere dell'arte figurativa, fra il XIV e il XVIII secolo, esprimono incisivamente il "senso" di quel discorso, nel momento in cui rappresentano la realtà vivente nei termini di un processo di universale dissoluzione, come irreversibile e irrimediabile venir meno dell'essere.
Fra esse, una delle più suggestive è certamente il tailpiece (ultimo foglio di un'edizione completa delle opere grafiche) col quale William Hogarth suggella la sua fertile produzione grafica e pittorica. Al centro di questa incisione campeggia una pipa appena rotta, dalla quale esce ancora una nuvoletta di fumo in cui è iscritta la parola "Finis" (a questo proposito, pur non riferendosi all'incisione di Hogarth, Veca osserva che se teniamo conto che il termine ebraico corrispondente al latino Vanitas (Hével) significa Fumo, Vapore e si fa riferimento alla consueta presenza di bugie, faci o braceri fumiganti che possiamo riscontrare nella produzione moraleggiante cinquecentesca e secentesca la coincidenza fra testo biblico e rappresentazione plastica rasenta l'ovvietà dell'evidenza). Colui che fumava giace riverso, con lo sguardo rivolto verso l'alto, e reca i segni caratteristici con i quali viene rappresentato il tempo: è un vecchio alato, accompagnato da una falce e da una clessidra.
Intorno, una serie di altri oggetti, indicanti tutti la morte, la distruzione, la fine: il carro del sole che precipita, il testamento che nomina quale esecutore delle ultime volontà il Chaos, testimoni Cloto, Lachesi e Atropo, una colonna rotta, le fiamme che consumano uno degli ultimi dipinti dello stesso pittore. E ancora: il borsello logoro e consunto, l'arco ormai inservibile di Eros, la corona in frantumi, la tavolozza e il fucile, simboli rispettivamente dell'arte e della guerra, infranti, la campana incrinata.
Sulla sinistra dell'incisione, proprio ai piedi della pietra sepolcrale, un documento con grande sigillo avvisa della bancarotta della Natura; il sigillo poggia su un libro aperto sull'ultima pagina: exeunt omnes - la commedia è finita, l'all the world's a stage, quella scena che è la terra intera, ha finalmente terminato la sua dira cupido di finzioni, apparenze, idoli, sogni, contese (Cacciari, La morte del tempo).
Tutti i dettagli di questa composizione recano i segni di una immane ruina, di una dissoluzione che investe e distrugge ogni cosa, umana e naturale. Alle imprese del tempo, corrisponde qui la morte del tempo stesso. Anche la falce di Kronos è rotta, come rotto è pure l'astuccio della clessidra, dalla quale esce la sabbia, e rotta è la pipa ancora fumante. Muore il tempo stesso, e con esso tutto ciò che esiste in questo mondo.
Il titolo dell'acquaforte di Hogarth, The Bathos, riprende la definizione fornita da Alexander Pope (Peri Bathous, Or the Art of Sinking in Poetry), e poi più volte ricorrente nelle controversie sull'arte del XVIII secolo in Inghilterra (al significato originario di "profondità", col quale compare nella lingua greca, Pope sostituisce un'accezione spregiativa: bathos è la trasformazione del sublime in triviale e lo "sprofondamento", di cui dice il verbo to sink, mentre apparentemente riprende il termine greco originario, in realtà allude a un "andare a fondo", "cadere in basso", che è in qualche modo l'opposto dell'accezione originaria). Attraverso un rovesciamento, nel caso dell'acquaforte di Hogarth, Bathos indica soltanto sentimentalità "facile", una pateticità superficiale e infine ridicola. Le cose che pretendono di apparire sublimi, in realtà suscitano la derisione, mentre il sarcasmo dell'artista nei confronti della propria composizione comnprende in sé quella rivolta all'idea stessa di un Sublime nelle cose del mondo, capace di non finire preda della ruota vorace del tempo (Cacciari).
In altre parole, un vecchio tema di elegie poetiche sul carattere transitorio di tutte le cose, sul potere che ha il tempo di livellare, logorare, abbassare tutto, si è trasformato in un quadro (Sedlmayr, La morte del tempo). Indubbiamente, in The Bathos si possono ritrovare, raffigurati analiticamente, in maniera perfino puntigliosa, tutti i segni impressi dall'azione del tempus edax, i trofei accumulati da Kronos, culminati con l'immagine che si scorge sul fondo del quadro, la forca da cui penzola l'ultimo uomo, richiamata dalla quasi identica struttura di sostegno dell'insegna che campeggia al centro, recante la scritta "Alla fine del mondo". Ma ciò che caratterizza peculiarmente questa originale variante della tematica tradizionale della vanitas vanitatum è la rappresentazione riflessiva del potere distruttivo del tempo, il fatto che lo stesso Kronos sia coinvolto direttamente nell'immane ruina che egli stesso ha provocato. La morte del Tempo - genitivo oggettivo - è il tema principale. L'apocalisse a cui allude l'incisione non reca un nuovo cielo o una nuova terra; essa non rivela altro che non sia la nullità dell'ente come tale, la sovranità assoluta del Nulla sull'ente (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

giovedì 13 gennaio 2022

hulk (tubas)

 
Tra le opere più interessanti della mostra di Jeff Koons Shine, presso Palazzo Strozzi a Firenze, c'è Hulk (Tubas), della serie Hulk Elvis. Con questa serie Koons allarga la produzione dei suoi realistici gonfiabili in acciaio inossidabile colorato, brillante e riflettente a personaggi dei fumetti, perfetta espressione della cultura di massa già enfatizzata dalla Pop Art. 
Sono lì per proteggere... ma allo stesso tempo possono diventare molto, molto violenti... Gli Hulk sono così: sono davvero simboli ad alto contenuto di testosterone.
Come per il marinaio mangia-spinaci Popeye, del personaggio a Koons interessa la duplicità e la capacità di trasformazione. Come Dolphin, invece, anche la scultura di Hulk presenta un assemblaggio tra oggetti di materiali diversi, ovvero tra una replica in metallo di un gonfiabile del supereroe e una tuba a cinque campane in ottone. 
La scelta del personaggio è anche legata a un ricordo di famiglia, all'immagine del figlio di Koons che davanti allo specchio prova la classica posa aggressiva del personaggio. Di quella posa Koons nota l'assonanza con la posa di Elvis Presley nelle serigrafie Triple Elvis che Andy Warhol realizza a partire dalle foto pubblicitarie per il film western del 1960 Flaming Star.
L'ho visto in piedi davanti a uno specchio, che guardava il suo corpo tutto intero per la prima volta... Mi ha ricordato l'Elvis di Andy Warhol. Era una questione di identità maschile.
Hulk sembra rimandare, nel suo aspetto impetuoso, a un guerriero epico che fa la sua improvvisa comparsa sul campo di battaglia, un po' come Achille, il primo grande eroe della letteratura occidentale. E, come Achille, manifesta nei gesti la sua inclinazione all'ira funesta. Con un effetto sinestetico, la grande scultura di Koons pare emettere un terrificante urlo di battaglia, accompagnato dal fragore assordante degli strumenti a fiato. E, ancora come l'eroe omerico, anche l'Hulk di Koons ha un punto debole che lo rende umano: la valvola sul dorso, anch'essa perfettamente riprodotta, è il tallone d'Achille che ne attesta la fragilità.

Nelle sculture di questa serie, Koons utilizza un materiale classico come il bronzo, colorato poi con sorprendente realismo che fa apparire leggera e quasi aerea la invece pesante fusione metallica. La vivace policromia rimanda da una parte al tema della "parvenza", dall'altra alla cromia dei bronzi antichi con cui gli scultori ellenistici riuscivano a restituire effetti naturalistici che imitavano i colori della vita, oppure a ricreare effetti shine, lucenti, scintillanti e splendenti, come quelli dello scudo in bronzo di Achille descritti da Omero, scudo caratterizzata da prodigiosi effetti luminosi che lo fanno apparire come forgiato di pura luce, una luce che sembra irradiare anche dall'eroe che lo porta, rendendolo raggiante come un sole e conferendogli poteri soprannaturali in una trasformazione verso la trascendenza. Come avviene per Popeye o Hulk.
I prodigi cromatici e luministici della scultura, così come gli effetti di trascendenza su chi ne viene a contatto, legano l'opera di Koons a questi altissimi precedenti.




lunedì 10 gennaio 2022

da koons a nietzsche

A dicembre ho organizzato una uscita didattica per portare le mie due classi quinte alla visita guidata della mostra, presso Palazzo Strozzi a Firenze, dell'artista contemporaneo Jeff Koons.
Uno degli interessi era la connessione dell'opera di Koons con la filosofia di Nietzsche, che l'artista stesso considera come uno dei riferimenti per la sua arte.

A partire dal titolo della mostra, Shine. La brillantezza, la lucentezza. Ma anche allusione al pressoché omofono tedesco schein, che è il sembrare, quindi l'apparenza, la parvenza. Le opere di Koons sono spesso costituite da o contengono superfici lucenti, sculture in acciaio inossidabile colorato dall'effetto brillante e riflettente. Brillantezza e parvenza che possono rimandare all'idea nietzschiana. Che cos'è per il filosofo tedesco "parvenza" ce lo dice lui stesso nell'aforisma 54 del primo libro della Gaia scienza
In verità, non l’opposto di una sostanza – che cos’altro posso asserire di una sostanza qualsiasi se non appunto i soli predicati della sua parvenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una x sconosciuta e pur anche togliere! Parvenza è per me proprio ciò che opera e vive, che si spinge tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più – che tra tutti questi sognatori anch’io, l’«uomo della conoscenza», danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per prolungare la danza terrena e con ciò appartiene ai sovrintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.
Non una negativa superficialità o un'ingannevole apparenza, anzi tutto ciò che è profondo ama la maschera, sostiene sempre Nietzsche.

In tutte queste s
culture in acciaio colorato brillante e riflettente, nella serie delle Gazing Ball con le sue sfere di vetro soffiato blu, questa parvenza lucente riflette l'ambiente in cui le opere sono collocate e lo spettatore che le sta guardando, includendoli nell'opera. Così, nessuno in realtà vedrà mai la stessa opera. Anche questo può far pensare a Nietzsche e a come, secondo la sua filosofia, non vi sia nulla di ultimo e definitivo, non si possa condividere la fiducia nell’esistenza di fatti incontrovertibili, perché il fatto è sempre qualcosa che prende forma soltanto all’interno del complesso processo interpretativo di volta in volta attuato dal soggetto conoscente (Non esistono fatti, solo interpretazioni), così che ogni conoscenza ha solo una natura prospettica (prospettivismo), perché legata al punto di vista del singolo soggetto conoscente, ai suoi particolari interessi e bisogni. E a ciò non esiste assolutamente scampo, né alcuna strada per scivolare e sgattaiolarsene via nel mondo reale! Siamo nella nostra rete, noi ragni, e qualunque cosa venga da noi imprigionata qua dentro, non la potremmo acchiappare se non in quanto è ciò che si fa appunto prendere nella nostra rete (Aurora).

Ancora, infine, includendo lo spettatore nell'opera stessa, elevandolo alla dignità di evento estetico, l'arte di Koons gli svela il segreto 
secondo cui ogni uomo è un miracolo irripetibile, osa mostrare che nella propria unicità egli è bello e degno di considerazione, nuovo e incredibile.
Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessuna combinazione per quanto insolita potrà mescolare insieme per una seconda volta quella molteplicità così bizzarramente variopinta nell’unità che egli è (Schopenhauer come educatore).
L'uomo lo sa, sostiene Nietzsche, ma lo nasconde come una cattiva coscienza. Koons ce lo ricorda e ci invita alla felicità di questa liberazione.

sabato 31 dicembre 2016

letture di dicembre + top 5 del 2016

Solo un po' di saggistica per questo mese.

I saggi di teoria politica di Carl Schmitt raccolti in Le categorie del "politico", due testi di Roberto Esposito - Immunitas e Bios -, il saggio sulla Tortura di Donatella Di Cesare, i contributi per La scuola ai tempi del digitale raccolti e curati da Vittorio MidoroFrancis Bacon e l'ossessione di Michelangelo, di Luigi Ficacci.

Con la ripromessa, il buon proposito, di leggere più narrativa per l'anno nuovo, segnalo anche la top 5 dei libri letti nel 2016:

1. Murakami Haruki, L'uccello che girava le viti del mondo - Finalmente portata a conclusione anche la lettura dell'ultimo grande romanzo di Murakami Haruki che mi mancava, e il suo surrealismo kafkiano in cui tutto è insieme assolutamente improbabile e perfettamente coerente ha sempre il suo fascino.

2. Dave Eggers, I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?  - Un testo di interrogatori filosofici su i miti d'oggi, la legge e la giustizia, l'educazione e la natura, le istituzioni e la libertà.

3. Richard Flanagan, La strada stretta verso il profondo Nord - La bella storia di un uomo, un medico e soldato fatto prigioniero durante la seconda guerra mondiale, che si rifiuta di smettere di aiutare la gente a vivere: non è un buon chirurgo, né una bella persona, ma non smette di fare ciò che può e deve.

4. Julia Kristeva, I samuraiUna sorta di sequel de I mandarini di Simone de Beauvoir: la generazione degli intellettuali francesi tra gli anni Sessanta e Ottanta non sono tanto detentori del sapere e del potere culturale entusiasti del loro impegno quanto piuttosto guerrieri che considerano la vita come un'arte marziale, la scrittura come un atto di piacere e di guerra insieme: poesia, gioco di sciabole o calligrafia, ogni arte è un'arte marziale in cui ci si mette a morte per rifarsi un nuovo corpo, una nuova forma. Bellissimo romanzo, e romanzo d'amore: "Sono insieme perché sono separati. Chiamano amore questa mutua adesione alla propria rispettiva indipendenza. Questo li ringiovanisce, sembrano adolescenti: addirittura bambini. Che cosa vogliono? Essere soli insieme. Giocare da soli insieme, e a volte passarsi la palla, tanto per dimostrare che in quella solitudine non c'è dolore".

5. J.K. Rowling/Robert Galbraith, La via del male - Si conferma ottima la lettura delle indagini di Cormoran Strike, il nuovo splendido personaggio - e notevole anche la caratterizzazione degli altri protagonisti, comprimari e comparse di questa serie di thriller - di J.K. Rowling (o Robert Galbraith che dir si voglia), che anche con La via del male si è dimostrata veramente e sorprendentemente capace di reinventarsi e trovare nuove strade di scrittura, evitando di rimanere prigioniera di quel capolavoro che è stata la saga di Harry Potter.

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